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Crisi energetica: COP26 ultima chiamata

Il riscaldamento della Terra avanza e segnali di allarme sulla crisi dell’energia si moltiplicano mentre la transizione ecologica si sta rivelando più difficile del previsto – La prossima riunione COP26 di Glasgow è l’ultima occasione per evitare la colpevole sottovalutazione della crisi energetica e per cominciare invece a gestirla come richiede

Crisi energetica: COP26 ultima chiamata

La corsa alla riduzione dell’utilizzo di combustibili fossili vede le Agende energetiche dei Governi modificarsi con sempre maggiore convinzione ed impegno soprattutto verso l’elettrificazione, la ricerca e lo sviluppo di idrogeno verde e blu, per produrre carburante meno inquinante, oltre che al potenziamento delle energie rinnovabili. Ed è una corsa contro il tempo per il rispetto degli Accordi di Parigi ed in vista della prossima riunione Cop26 di Glasgow, che ha visto gli incontri preliminari tenersi a Milano sotto l’assedio di attivisti giunti da tutte le parti del mondo. Ma intanto si diffonde una crisi energetica la cui enfasi mediatica diventa via via più sospetta per alcuni irriducibili, e già si parla di complotto per salvare una COP26 forse già fallita in partenza.

Transizione Energetica e penuria di carburante: è crisi mondiale?

Tutto è cominciato con la constatazione di un anno termico complicato per l’emisfero settentrionale come segnalato dagli australiani a più riprese: scorte basse, difficoltà a reperire le navi per il trasporto, i danni dell’uragano Ida hanno visto Asia e USA correre ai ripari sugli approvvigionamento, in un periodo cruciale per la transizione energetica che ha posto tutta l’attenzione e gli sforzi di diversificazione verso il gas liquido. Non è poi da sottovalutare anche il Baltic Dry Index, che traccia l’andamento dei prezzi dei noli navali, che ha chiuso la settimana a livelli record dal 2008.

La domanda di carburante per aerei è’ ripresa quasi a livelli pre crisi pandemica, e se l’OPEC ed i suoi alleati hanno ben gestito l’offerta ed i prezzi del petrolio nel periodo più difficile del lockdown ora occorre mettere un tetto a prezzi che sembrano inarrestabili configurando una vera e propria crisi energetica per l’Europa ma non solo, come dimostra il caso del Regno Unito.

Il Regno Unito ha una forte dipendenza dalle forniture di gas naturale da Russia e Norvegia e il balzo fuori controllo dei prezzi unitamente a numerosi fallimenti nella catena di aziende del settore energetico sta condizionando la produzione industriale del Paese, per il quale alle tensioni sui prezzi si uniscono strascichi nella gestione post Brexit soprattutto per le barriere in entrata di lavoratori stranieri.

Un’altra vittima eccellente della crisi energetica, insieme all’India, è senz’altro la Cina legata strettamente alle catene di approvvigionamento globale, che già aveva  mal digerito l’accordo “belligerante” e le ingerenze generate dal cosiddetto AUKUS tra Usa, Regno Unito e Australia, ed ora sta spingendo nuovamente sulle miniere di carbone per evitare razionamenti di elettricità alle fabbriche. Dall’industria alimentare legata a quella dei fertilizzanti i cui prezzi son alle stelle, sino all’industria di trasformazione. E già si teme per l’industria tecnologica cinese in vista degli appuntamenti di inizio Novembre con il Singles Day, la più grande giornata di shopping del mondo praticamente la versione del Black Friday USA, che segue dopo soli 15 giorni insieme al Cyber Monday. E che l’anno scorso ha visto un giro di affari record registrato solo da Alibaba per oltre 74 miliardi di dollari Usa rispetto ai 38,4 del 2019!

Così il risultato di questi avvenimenti ha visto nella  prima settimana di ottobre i prezzi dei futures del gas naturale con consegna novembre mettere a segno un balzo del 23% portandosi a 117 euro per megawattora (solo sei mesi fa i prezzi erano stabili a 15 euro). La pressione dei prezzi energetici crea tensioni sull’inflazione ma soprattutto alimenta dubbi sulle previsioni di una crescita global già messa a dura prova dai “colli di bottiglia” nelle forniture navali in moltissimi settori industriali, dall’automotive ai microchips. L’indice Bloomberg Commodity ha toccato il 6 Ottobre il picco degli ultimi 6 anni e solo l’intervento di Putin che ha riassicurato i mercati sulle forniture ha permesso di stabilizzare i prezzi. Il Presidente russo già alle prese con una nuova ondata crescente di morti per COVD19 ha aumentato le forniture di gas ma ha accusato l’Unione Europea di scarsa lungimiranza sia negli stoccaggi sia nella stipula di contratti che a suo avviso dovrebbero considerare un più lungo termine ed ovviamente si insinuano i timori di una crisi energetica europea con l’avvicinarsi dell’inverno, dove occorre solo sperare in un inverno mite.

Gli Usa preoccupati dal caro-energia mettono in conto il possibile ricorso alle riserve strategiche come ha dichiarato la Ministra per l’Energia Jennifer Granholm, ma per l’UE non è certamente possibile visto che importa il 90% del gas che gli necessita, e due terzi del petrolio dall’estero. Così la Presidente della Commissione Europea non le manda a dire quando risponde a Putin che comunque sia “il futuro son le rinnovabili, e non il gas”.

Ed a fianco della Van der Leyen si schiera l’ex Cancelliera tedesca Merkel per ricondurre al dialogo gli animi mettendo sul tavolo la questione del gasdotto North Stream 2, un progetto avversato dagli Usa, che unisce le coste a Nord di Russia e Germania permettendo al contempo l’UE di essere meno dipendente dagli approvvigionamenti che passano ad oggi dall’Ucraina, con il beneplacito degli USA. Un posizionamento occidentale, quello ucraino troppo vicino ai confini russi per non rappresentare una vera spina nel fianco di Putin sin dall’accordo di associazione con l’UE firmato nel 2017, dopo gli accordi di Minsk II del 2015.Il portavoce del Presidente russo Peskov ha chiuso le scaramucce verbali dichiarando non a caso che sarà proprio la messa in attività di North Stream 2 a permettere di calmierare i prezzi del gas.

E la nuova frontiera dell’idrogeno , una speranza

Sullo sfondo di un possibile dramma per il mercato energetico la frontiera dell’idrogeno sembra sempre più presente e vicina, anche grazie all’annuncio dell’azienda norvegese: Equinor Asa che ha destinato ben 12 miliardi di dollari Usa di investimenti nella ricerca e sviluppo dell’idrogeno “verde” con un evidente obiettivo di raggiungere una fetta di mercato di almeno il 10%, per cominciare, entro il 2035.

Infatti la corsa all’idrogeno passa per una prima fase che vedrà una più vasta produzione di idrogeno prodotto dall’acqua e da fonti rinnovabili per poi concentrarsi sul cosiddetto idrogeno blu, composto da gas naturale una volta che saranno ridimensionati i problemi inerenti l’inquinamento prodotto dalla sua produzione esattamente come per l’estrazione del  gas naturale.

Attualmente la Norvegia è il più grande Paese produttore di gas dell’Europa Occidentale e soprattutto il Paese chiave per Gran Bretagna ed Unione Europea per approvvigionarsi di LNG aldilà della Russia. Un’ottima opportunità di diversificazione che dovrebbe far riflettere gli europei.

Conclusioni

A Novembre a Glasgow al COP26, la ventiseiesima seduta programmata sotto l’egida ONU, con la Presidenza congiunta tra Italia e Gran Bretagna si giocherà la partita a scacchi del secolo e soprattutto si traccerà un bilancio rispetto agli impegni degli Accordi di Parigi del 2015 verso la decarbonizzazione totale e la riduzione delle emissioni di Co2 per contenere l’innalzamento delle temperature terrestri.

La testata del Guardian e le solite indiscrezioni che provengono dal Palazzo di vetro dell’ONU mettono sotto i riflettori lo snodo dei contributi nazionali volontari e dei nuovi target sui quali dovranno impegnarsi tutti i Paesi per non rischiare sanzioni entro i prossimi 5 anni.

Evitare di procrastinare scavallando oltre il 2030, data cardine della famosa Agenda 2030 sulla Sostenibilità aiuterebbe a dare una risposta forte e convinta ma nell’Unione Europea i malumori sono crescenti. Senza contare lo strappo “polacco” sul primato tra legge nazionale e diritto europeo che dovrebbe far riflettere sull’assegnazione di fondi strutturali europei a Paesi che sull’euro non si sono mai impegnati fino in fondo, ma hanno sempre e solo sfruttato il tavolo comunitario.

Gli ultimi 5 anni son stati i più caldi sulla Terra e la COP26 rimane l’ultima chance per evitare che questa crisi energetica venga sottovalutata o ridimensionata e non venga correttamente considerata come l’avvio di una spirale di crescita irreversibile di costi crescenti e ormai evidenti degli effetti della trascuratezza politica verso la salvaguardia ambientale. 

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