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Crescita economica e cantiere europeo: perché l’Italia deve ridurre il debito pubblico

Working Paper 2017 della Luiss School of European Political Economy a cura di Bastasin, Bini Smaghi, Messori, Micossi, Passacantando, Saccomanni e Toniolo – Per partecipare al nuovo processo europeo aperto da Francia e Germania, l’Italia deve essere credibile e ridurre seriamente il rapporto tra debito pubblico e Pil puntando su riforme strutturali anzichè su provvedimenti dal sapore elettoralistico con l’obiettivo di una crescita più forte e più sostenibile

Crescita economica e cantiere europeo: perché l’Italia deve ridurre il debito pubblico

L’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Repubblica francese e l’acquisizione della maggioranza parlamentare da parte del suo movimento En marche hanno rilanciato le prospettive di collaborazione franco-tedesca e hanno ridato impulso al processo di avanzamento istituzionale e politico dell’Unione europea e, in particolare, dell’euro-area. Se nel settembre di quest’anno si verificherà la prevista vittoria elettorale della cancelliera Merkel, per la prima volta da circa un quindicennio si avrà l’apertura di un ciclo politico coordinato nel governo delle due maggiori economie dell’euro-area. Anzi, l’aspettativa dell’evento sta già rafforzando il dialogo tra Parigi e Berlino. Il risultato potrebbe tradursi nella realizzazione del percorso, delineato dalla Commissione europea alla fine del marzo scorso (cfr. Reflection paper on the deepening of the economic and monetary union) e basato sulla ripresa e sull’approfondimento di molti dei temi evocati dal Rapporto dei Cinque presidenti (Completing Europe’s economic and monetary union, giugno 2015)

È importante che l’Italia offra il proprio fattivo contributo a tale percorso per orientarlo al soddisfacimento sia degli interessi generali dell’intera Unione economica e monetaria europea (UEM), sia della tutela dei suoi stati membri più fragili. Il Presidente Macron ha più volte ribadito l’importanza del ruolo italiano, forse anche per ridurre il rischio che il preponderante peso della Germania eroda gli spazi di contrattazione della Francia. La stessa cancelliera Merkel sembra intenzionata a coinvolgere l’Italia e la Spagna nel nuovo cantiere europeo, dando un segnale di fiducia nel processo di integrazione dell’euro-area. Tuttavia, la forte incertezza politica e finanziaria, che caratterizza l’Italia dall’autunno 2016, rappresenta un fattore di freno per qualsiasi iniziativa volta a rafforzare una condivisione di responsabilità nell’ambito della UEM.

In questo Policy Brief la School of European Political Economy della Luiss presenta un’ipotesi di completamento dell’assetto istituzionale dell’euro-area che soddisfi due condizioni: sia accettabile per i principali partner dell’Italia perché in grado di salvaguardare i requisiti di responsabilità e stabilità di ciascuno stato membro; assicuri sostegni alla crescita, indispensabili all’Italia, mediante un avanzamento della cooperazione economica europea. Di fatto, si tratta di realizzare quell’equilibrio nel trade off tra stabilità e crescita, che possa conciliare le distinte visioni di Germania e Francia ma soprattutto le divergenze di fondo fra Germania e Italia.

Nel corso dell’ultimo decennio, la governance dell’euro-area è stata modificata in risposta alle sfide imposte dalla crisi. Le istituzioni europee hanno deciso di rafforzare la sorveglianza sulla politica di bilancio dei paesi membri, soprattutto mediante il Six Pack e il Two Pack. In parallelo, esse hanno creato il Meccanismo europeo di stabilità (ESM) con l’obiettivo di fornire assistenza finanziaria a quegli stati membri che avessero temporaneamente perso l’accesso al mercato per il finanziamento del proprio debito pubblico. Come è stato posto in luce dai piani europei di aiuto a favore di Irlanda, Portogallo, Grecia e Cipro, l’assistenza finanziaria è subordinata a un programma macroeconomico di aggiustamento sottoposto a condizionalità. Successivamente (2012), l’ESM ha avuto il compito di attuare tre “facility”. La prima si è concretizzata nella possibilità di fornire prestiti, diretti o indiretti, per la ricapitalizzazione delle banche europee (il caso spagnolo). La seconda facility ha riguardato l’assistenza finanziaria precauzionale, mediante l’apertura di linee di credito, a favore di paesi in grado di soddisfare ex ante le principali regole europee ma incapaci di finanziarsi sul mercato a condizioni non penalizzanti. La terza facility ha collegato tale assistenza finanziaria precauzionale al programma di “Outright Monetary Transactions”, che consente alla Banca Centrale Europea (BCE) di acquistare nei mercati secondari un ammontare non limitato di titoli sovrani di uno stato membro in temporanea difficoltà.

La prima facility, attuata dall’ESM, è stata modificata dall’istituzione dell’Unione bancaria, la cui architettura è attualmente composta dal Single Supervisory Mechanism e dal Single Resolution Mechanism e dovrà essere completata da uno schema di European Deposit Insurance (EDIS). Si noti che l’EDIS non ha ancora visto la luce a causa delle implicazioni fiscali di un’eventuale risoluzione di banche, che hanno in bilancio elevate quantità di titoli pubblici del proprio paese. Se si riconosce però che l’Unione bancaria è ormai operante, la regola originaria prevede che i prestiti dell’ESM per la ricapitalizzazione delle banche europee possano essere erogati direttamente, ossia senza pesare sui bilanci dei paesi di appartenenza delle banche coinvolte. Il problema è che le modalità di questa erogazione diretta vanno ridisegnate in quanto, nella forma attuale, pongono condizioni così complesse da risultare di difficile attuazione. Inoltre, nell’ambito dei processi di risoluzione, l’ESM può essere chiamato a effettuare un intervento di “ultima istanza” (backstop pubblico) qualora il ricorso al bail-in (per almeno lo 8% degli attivi della banca coinvolta) e al Fondo unico di risoluzione (fino al 5% degli attivi della banca coinvolta) si riveli insufficiente a coprire i fabbisogni di liquidità e di ristrutturazione. Come è stato di recente provato dal processo di risoluzione del Banco Popular in Spagna e dalla problematica liquidazione delle due principali banche venete in Italia, tale funzione di backstop potrebbe risultare cruciale e va quindi rafforzata.

Queste considerazioni mostrano che il sistema di governance della UEM, così come emerso dopo gli anni di profonda difficoltà, dispone di un più stringente meccanismo di sorveglianza ed è attrezzato per affrontare crisi di liquidità da parte di uno stato membro o di alcune banche. Non è invece adeguato a prevenire o regolare una crisi strutturale di insolvenza di un paese o di un settore bancario nazionale. Riguardo ai piani europei tradizionali di aiuto nei confronti degli stati membri, i finanziamenti dell’ESM sono sottoposti a condizioni di aggiustamento troppo severe così che, per contrastare la crisi del debito pubblico, si tende a innescare una recessione nel paese coinvolto e in quelli a esso più legati. Riguardo alle insolvenze bancarie, l’attuazione del bail-in incontra forti resistenze e il fondo unico di risoluzione è ancora in costruzione. Inoltre, si è già detto che non è stato trovato un accordo per creare un sistema europeo di assicurazione dei depositi in grado di evitare, per la sua natura comune, un circolo vizioso tra crisi bancarie e crisi del debito sovrano di uno stato membro. A ciò si aggiunga che l’operatività dell’ESM è ostacolata da problemi di governance interna, in quanto molte sue decisioni vanno prese all’unanimità e – in alcuni casi – sono sottoposte all’approvazione di parlamenti nazionali.

Tali deficienze hanno stimolato nuove proposte. In particolare, la Germania e la Francia hanno suggerito la creazione di una nuova istituzione che, partendo dalle funzioni attuali dell’ESM, possa superare i problemi aperti in termini di politiche di bilancio. Tuttavia, le posizioni di Francia e Germania mostrano sensibili differenze riguardo alla definizione della natura e dei compiti della nuova istituzione e, di conseguenza, riguardo alle priorità da realizzare.

La Germania propone che l’ESM sottragga alla Commissione europea, considerata troppo influenzabile politicamente, la responsabilità di sorvegliare le politiche di bilancio dei singoli paesi membri. L’ESM si trasformerebbe così in un Fondo monetario europeo (FME), eventualmente guidato da un Ministro europeo delle Finanze, con l’obiettivo di proteggere la stabilità fiscale dei governi e la stabilità strutturale delle banche. La Francia non si oppone alla trasformazione dell’ESM in FME. In sintonia con la posizione della Commissione europea, essa concepisce però il FME come lo strumento di un costituendo Ministero europeo delle Finanze (MEF). Il FME dovrebbe, dapprima, creare le premesse per quella delega di sovranità da parte degli stati membri in materia di politiche fiscali che è necessaria per la progressiva creazione del MEF. A regime, quest’ultimo assumerebbe una più definita responsabilità nella definizione della fiscal stance europea e nella gestione coordinata delle politiche di bilancio dei vari paesi. Esso potrebbe così realizzare un’armonica divisione del lavoro con la Commissione europea, eventualmente rafforzata dalla previsione che il nuovo Ministro europeo delle Finanze divenga anche Presidente dell’Eurogruppo e Vice-Presidente della Commissione (con delega agli affari economici). Oltre ad assicurare il finanziamento dei tradizionali piani europei di aiuto degli stati membri in grave difficoltà e a svolgere le tre facility sopra richiamate (cfr. punto 2), l’ESM-FME avrebbe anche il compito di fiscal facilty per il MEF.

Le proposte tedesche e francesi non sono immediatamente conciliabili perché hanno due obiettivi diversi: la prima mira a centralizzare le funzioni di stabilità fiscale della UEM, la seconda mira a centralizzare le politiche di bilancio e a renderle compatibili con gli andamenti ciclici dell’euro-area. Trascurando il fatto che lo stesso FME potrebbe essere oggetto di una politicizzazione eccessiva o trasformarsi in un’autorità poco democratica, la Germania mira a una preventiva riduzione dei rischi fiscali nell’euro-area. L’istituzione del modello tedesco di FME imporrebbe, infatti, alla Francia e – ancor più – ai paesi economicamente più fragili (come l’Italia) un percorso centralmente controllato di risanamento fiscale. La creazione del modello francese di MEF richiederebbe, invece, alla Germania e ad altri stati membri ‘core’ (in primis, l’Olanda) di aumentare i salari nominali interni e/o di rilanciare gli investimenti pubblici, in modo da ridurre gli squilibri positivi delle proprie partite correnti. Sopravvalutando forse gli effetti di spillover sugli altri stati membri derivanti da un’espansione del bilancio pubblico tedesco e olandese, la Francia mira così a innescare una crescita più solida nell’euro-area mediante aggiustamenti graduali dei bilanci pubblici nazionali e forme deboli di condivisione dei rischi fiscali.

Al di là della loro diversità, sia la proposta tedesca che la proposta francese colgono un punto cruciale per l’evoluzione economica e istituzionale dell’euro-area: l’importanza crescente delle politiche europee di bilancio. La politica monetaria europea sta esaurendo i propri margini di sostegno espansivo del ciclo economico dell’euro-area. Molti segnali indicano che la BCE avvierà, a breve termine, un percorso di normalizzazione dei tassi di interesse di policy e di riduzione del suo programma di acquisto di titoli pubblici. Accompagnandosi alla intonazione sempre più moderata della politica monetaria statunitense, tali iniziative causeranno un innalzamento nella struttura dei tassi di interesse di mercato che colpirà, soprattutto, i paesi europei con i più gravi squilibri di bilancio pubblico. Pertanto, è facile prevedere che l’attenzione dei mercati finanziari nei confronti del finanziamento dei debiti pubblici si acuirà a partire dall’autunno di quest’anno. Ciò non sta a significare che il FME o il MEF siano chiamati a sostituire i programmi di quantitative easing (QE) della BCE. Significa, più semplicemente, che la politica monetaria sta cessando di essere il “solo gioco in città” ed è destinata a dare maggiore spazio a politiche fiscali finalizzate a prevenire e, se del caso, porre sotto controllo gli shock più severi.

Le precedenti considerazioni implicano che, per rendere efficace il processo di rafforzamento dell’euro-area, le diverse posizioni di Germania e Francia in materia di governance e politica fiscale non devono trasformarsi in una inconciliabile contrapposizione. Al riguardo, è necessario che queste due posizioni si sottraggano alla vecchia querelle fra ‘riduzione del rischio’ e ‘condivisione del rischio’. Si tratta di individuare un compromesso che salvaguardi gli obiettivi di ambedue i paesi. Sapir e Schoenmaker (cfr. We need a European Monetary Fund, but how should it work, Bruegel, May 2017) compiono un primo passo in tale direzione, ispirandosi alla divisione del lavoro vigente fra il meccanismo unico di vigilanza e quello di risoluzione nell’ambito dell’Unione bancaria. I due autori propongono infatti che la Commissione europea continui a sorvegliare le politiche fiscali degli stati membri nelle fasi economiche normali e che l’ESM-FME assuma questo stesso compito nelle fasi di crisi. Il limite della loro proposta è che non disegna un graduale percorso per attribuire al MEF la responsabilità della fiscal stance europea. Un terreno di compromesso più semplice e – al contempo – più efficace consiste nel fare sì che il MEF, delineato dalla Commissione europea e dalla Francia, presupponga forme rafforzate di controllo centrale dei bilanci pubblici nazionali, in grado di assicurare aggiustamenti macroeconomici e macrofiscali strutturali (come richiesto dalla Germania).

Ciò spiega perché il possibile compromesso fra Germania e Francia in materia di governance e politica fiscale faccia emergere una ben più sostanziale divergenza fra Germania e Italia (insieme ad altri stati membri fragili della UEM). La Germania è certo preoccupata dal fatto che il bilancio pubblico francese registra – da molti anni – un saldo negativo superiore al 3% del PIL; e non è certa che, per l’anno corrente, tale saldo scenderà al di sotto della soglia critica come promesso da Macron. Eppure l’ostacolo decisivo, che spinge la Germania a guardare con sospetto il processo di costruzione di un MEF alla francese, è rappresentato dall’ingente debito pubblico italiano e dalla inadeguatezza degli aggiustamenti strutturali attuati. Per giunta, questo spettro è aggravato dalla radicale incertezza politico-istituzionale oggi presente nel nostro paese. 

Le più recenti previsioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca d’Italia indicano che l’economia italiana ha agganciato, pur se con ritardo, una crescita dell’euro-area più robusta del previsto. Anche se il tasso atteso di crescita dell’Italia rimane sensibilmente inferiore a quello medio dell’area, esso si fonda sulla domanda aggregata interna e – in particolare – sulla ripresa degli investimenti delle imprese private. Se tali dati si riprodurranno nei prossimi trimestri, l’Italia godrà di una prospettiva espansiva non effimera. Ciò apre una finestra per avviare un percorso credibile ed equilibrato di riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, in grado di rassicurare i partner europei circa la sostenibilità del nostro debito pubblico.

Sotto il profilo strettamente contabile, la sostenibilità del debito pubblico di un dato paese è garantita da una condizione molto semplice: la realizzazione di un surplus primario sufficiente a stabilizzare o a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL. È evidente che il livello di questo surplus dipende da vari fattori e, in particolare, da: il tasso medio di interesse nominale pagato sul debito pubblico, il tasso di crescita nominale dell’economia, lo stock di debito pubblico pregresso. Se il tasso di crescita ‘reale’ dell’economia e/o il tasso di inflazione sono molto bassi oppure lo stock di debito pregresso è molto alto, anche tassi nominali di interesse non esorbitanti possono rendere insostenibile un bilancio pubblico. In quei casi la stabilizzazione del debito pubblico richiederebbe, infatti, surplus primari così elevati da essere incompatibili con livelli tollerabili di prelievo fiscale, di tutele sociali, di investimenti e servizi pubblici. Dalla fine del 2015, la struttura dei tassi nominali di interesse nell’euro-area ha toccato minimi storici grazie alle forme di QE attuate dalla BCE. Eppure, anche a causa dei modestissimi tassi di crescita realizzati dalla nostra economia, negli stessi anni il rapporto italiano debito pubblico/PIL non ha smesso di crescere pur se a tassi di crescita decrescenti.

L’affermazione graduale di un modello francese di MEF, che incorpori aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici in grave squilibrio, è nell’interesse dell’euro-area e dell’Italia; essa è, infatti, la condizione necessaria per consolidare i tassi di crescita europei e avviare una convergenza nei fondamentali macroeconomici degli stati membri. Perché tale condizione sia realizzabile, non vi possono però essere dubbi sulla sostenibilità presente e attesa del debito pubblico italiano. Di conseguenza, sfruttando il previsto irrobustimento del tasso di crescita della nostra economia, il governo italiano dovrebbe avviare progressive, ma continue e sistematiche riduzioni del rapporto debito pubblico/PIL.

In questa prospettiva il ripetuto ricorso a deroghe rispetto alle regole europee, che trova udienza nella Commissione a causa del minacciato inasprimento dell’instabilità politico-istituzionale del paese, risulta pericoloso per l’Italia. Ancora peggiore sarebbe il tentativo di ridurre lo stock del debito italiano per via contabile, ossia attraverso processi di dismissione formale di parte delle attività pubbliche a società a pieno controllo pubblico ma esterne al perimetro della Pubblica Amministrazione; oppure di azzerare il peso contabile di servizi pubblici in perdita, escludendoli dal perimetro della Pubblica Amministrazione. Simili espedienti avrebbero l’effetto di accentuare la diffidenza dei partner europei e dei finanziatori di mercato del debito pubblico italiano, dando spazio a pericolose iniziative europee di intervento sui debiti pubblici a rischio. Non si dimentichi, al riguardo, che vi è la proposta di creare un Meccanismo Europeo di Ristrutturazione del debito sovrano; e che la Germania ha, addirittura, ipotizzato un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico di qualsiasi stato membro che richieda assistenza finanziaria all’ESM.

Sfruttando l’ultima fase del QE e di bassi tassi nominali di interesse, l’Italia deve invece attivare un percorso di riduzione del proprio rapporto debito pubblico/PIL che, senza soffocare la recente ripresa, sia in grado di assicurare adeguati tassi di crescita nel medio periodo e sia compatibile con il compromesso franco-tedesco. Non si tratta solo di ridurre il numeratore (ammontare del debito) o di accrescere il denominatore (PIL) nel breve termine. Si tratta, invece, di attuare le riforme raccomandate dalla Commissione europea e approvate dal Consiglio della UE. In tale prospettiva, è soprattutto necessario ricomporre la spesa e rafforzare il potenziale di crescita; il che impone, fra le altre cose, il rilancio di efficienti investimenti pubblici e l’attivazione di politiche di redistribuzione del reddito e di inclusione delle fasce più vulnerabili della popolazione. Si tratta, inoltre, di superare le persistenti fragilità dell’economia italiana che potrebbero avere un impatto negativo diretto sul bilancio pubblico. Seguendo le indicazioni del blue print che la Commissione europea si appresta a pubblicare in tema di bad bank nazionali sulla scorta di quanto affermato nelle conclusioni del Consiglio della UE dello 11 luglio scorso, il governo italiano deve fare sì che il settore bancario smaltisca il persistente eccesso di crediti problematici. È inoltre necessario che questo stesso settore cessi di detenere nei propri bilanci un eccessivo stock di titoli nazionali del debito pubblico in una fase di tassi crescenti di interesse.

Le difficoltà per una credibile attuazione di tali iniziative sono, di per sé, elevate. La sfida è resa ancora più ostica dall’attuale incertezza politico-istituzionale e dall’atteso – anche se non immediato – innalzamento nella struttura dei tassi nominali di interesse di mercato. Eppure non vi sono alternative. Per assicurarsi robusti tassi di crescita nel medio periodo e per non essere l’anello debole nella nuova governance europea, l’Italia deve rendere il proprio debito pubblico sostenibile e correggere le sue maggiori fragilità, utilizzando la finestra di opportunità offerta dalla temporanea prosecuzione del QE e dalla ripresa europea. La riduzione del rapporto debito pubblico/PIL potrebbe anche allentare, indirettamente, alcuni problemi del settore bancario italiano. Questa riduzione consentirebbe di affidare al MEF il disegno e la gestione degli European safe bond (ESB) lungo le linee proposte nel già citato Reflection paper della Commissione europea (marzo 2017); e ciò faciliterebbe lo scambio fra tali ESB e lo stock eccedente di titoli del debito pubblico italiano nei bilanci delle banche.

Una parte del ceto dirigente e degli esponenti politico-istituzionali italiani non sembra condividere le conclusioni appena raggiunte. Le preoccupazioni circa la sostenibilità del debito pubblico italiano tendono, infatti, a essere trattate alla stregua di infondati allarmismi. Un esempio emblematico è offerto dalla proposta di Matteo Renzi, segretario del maggior partito di governo: aumentare il disavanzo pubblico italiano, portandolo per cinque anni vicino alla soglia massima del vecchio “Patto di stabilità e crescita” (il 2,9% del PIL); al contempo, realizzare una riduzione del nostro rapporto debito pubblico/PIL. Si trascuri l’inutilità di sostanziare la proposta mediante un minacciato veto dell’Italia alla trasformazione del cosiddetto “Fiscal Compact” in trattato europeo. Restano due dati di fatto. Primo: in una fase ciclica come l’attuale, caratterizzata dalla robusta crescita di gran parte dei paesi dell’euro-area e dalla positiva (pur se più modesta) crescita della stessa Italia, i vincoli al rapporto strutturale fra disavanzo pubblico e PIL, imposti dalle regole europee del Six Pack, sono molto più stringenti rispetto al vincolo nominale del 3% nel rapporto disavanzo pubblico/PIL. Il perseguimento di un disavanzo appena sotto il 3% costituirebbe, dunque, una politica fortemente pro-ciclica. Secondo: con gli attuali tassi di crescita, è velleitario assumere che in Italia un disavanzo pubblico pari al 2,9% del PIL sia compatibile con la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL senza operazioni straordinarie sullo stock dello stesso debito.

Vale la pena di soffermarsi su quest’ultimo fatto. Un banale calcolo mostra che, con un disavanzo pubblico al 2,9% e con gli attuali tassi nominali di interesse, l’Italia sarebbe conforme alle regole europee di riduzione del debito pubblico solo se realizzasse un tasso nominale di crescita del PIL di poco inferiore al 5% nella media del prossimo quinquennio. Dato l’attuale tasso italiano di inflazione, il pur positivo tasso reale atteso di crescita della nostra economia risulterebbe quindi pari a meno della metà di quello richiesto. A ciò si aggiunga che, sempre nei prossimi cinque anni, è assai probabile un innalzamento nella struttura dei tassi di interesse che più che compenserà un possibile aumento dei tassi di inflazione. D’altro canto, sempre nell’ipotesi di disavanzi pubblici al 2,9% per i prossimi cinque anni, la mera stabilizzazione (non la riduzione) del rapporto italiano fra debito pubblico e PIL agli attuali abnormi livelli (più del 133% del PIL) richiederebbe tassi annuali di crescita nominale dell’economia italiana sistematicamente superiori al 2%. Data la bassa dinamica dell’inflazione attesa, anche tali tassi appaiono irrealistici. A maggior ragione, è quindi irrealistico supporre che il disavanzo pubblico del 2,9% sia compatibile con una significativa riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL senza operazioni straordinarie.

Per rendere compatibile la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL con un disavanzo pubblico annuale del 2,9%, diventerebbero perciò necessarie operazioni straordinarie di riduzione del debito pubblico. Si escludano quegli interventi puramente contabili, cui si è già fatto cenno, perché non conformi all’obiettivo di rendere credibile, agli occhi sia di Francia e Germania che delle istituzioni europee, il processo italiano di aggiustamento. Si tratterebbe quindi di ricorrere alla sistematica privatizzazione delle imprese a partecipazione pubblica e alla dismissione di parti del patrimonio pubblico. Se effettuate senza un disegno di politica industriale e di sostenibilità territoriale e prima di aver avviato un persistente processo di riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL, queste operazioni rischierebbero però di produrre due effetti negativi: indebolire il già fragile tessuto produttivo e ambientale del paese; disperdere le residue risorse patrimoniali pubbliche senza uno strutturale riequilibrio del bilancio.

L’esempio fatto prova che l’incertezza politico-istituzionale dell’Italia aumenta il rischio di mettere a repentaglio la sostenibilità di medio termine del nostro debito pubblico per fini elettorali. Ciò non sarebbe un buon viatico per fare sì che l’Italia possa realizzare robusti tassi di crescita nel medio periodo e possa svolgere un ruolo positivo nella costruzione di quell’accordo fra Germania e Francia volto a costruire il MEF, ossia volto ad aprire il processo di unione fiscale che è necessario per la futura prosperità della UEM. È quindi necessario che, sfruttando la finestra di opportunità aperta dalla più positiva congiuntura economica e dalla presenza del QE, il nostro governo avvii un credibile processo di riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL. A tale fine si tratta di: razionalizzare la composizione della spesa pubblica; accantonare velleitari obiettivi di riduzione delle tasse, per perseguire invece una riforma fiscale in grado di ridefinire i relativi carichi; aumentare il potenziale di crescita dell’economia italiana mediante efficienti progetti pubblici di investimento, finanziati – per quanto possibile – da risorse europee, e mediante efficaci incentivi agli investimenti privati in grado di sostenere la dinamica delle varie forme di produttività.

Si tratta di una scommessa difficile da vincere specie in una fase pre-elettorale. È però l’inevitabile condizione per ottenere due risultati: rendere la crescita economica italiana più robusta rispetto a shock esogeni negativi e, quindi, con un respiro di medio termine; acquisire una posizione rilevante nel cantiere, che Francia e Germania stanno aprendo lungo le linee suggerite dal Rapporto dei Cinque presidenti e dalla Commissione europea. A differenza di quanto possa forse pensare una parte del ceto dirigente italiano, questa volta la difesa delle posizioni italiane di rendita non garantirà né scorciatoie per la crescita né un posto gratuito di prima fila per la festa europea.

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