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Brescia e Bergamo, fine di un secolo e mezzo di storia bancaria

Con il successo dell’Opas di Intesa Sanpaolo su Ubi Banca cala il sipario sulla banca di territorio di Brescia e di Bergamo, ma la critica di Bazoli a Massiah su quanto successe nel 2015 non convince, anche se le contraddizioni interne di Ubi Banca hanno pesato sul risultato finale – I legami con le vicende della Cattolica Assicurazioni

Brescia e Bergamo, fine di un secolo e mezzo di storia bancaria

Sono poche le ragioni espresse tra Brescia e Bergamo sulla riuscita Opas di Intesa sull’Ubi: la banca che aveva raccolto dentro di sé un secolo e mezzo di storia del credito e della finanza di questa parte del Paese. I commenti ancor di più, limitati alla nuda cronaca. Solo il presidente degli industriali, storico cliente di Intesa, ha espresso fin dall’inizio la necessità di avere una Intesa ancor più grande. Più sottile l’intervento di Ettore Prandini, leader della Coldiretti, in appoggio alla banca cacciatrice che poneva fine a quel mondo che ha sempre contrastato e combattuto duramente la vicenda politica del padre.  

I pochi commenti si sono aggrappati al racconto di una storia che si vorrebbe veder rinnovata in quella nuova, piemontese e meneghina, senza soluzione di continuità. Appare rivolto a questo medesimo orizzonte anche l’intervento di Giovanni Bazoli su Repubblica. Una lettura, quella del presidente onorario di Intesa, attraverso la lente di un nostalgico percorso compiuto nel passato ma che sorvola a piè pari gli errori, le incertezze, le sottovalutazioni e le non poche furbizie che hanno marcato gli ultimi trenta anni della Banca ormai perduta. 

Poesia pura, se non ci fosse quell’accenno all’errore addebitato all’ultimo amministratore delegato dell’Ubi Victor Massiah cinque anni orsono: quello di non aver operato acquisizioni o alleanze in tempo utile. Ma con chi concretamente dovesse allearsi e in che modo si sorvola. Se la memoria non tradisce erano anni in cui il dominus era proprio lui, il banchiere bresciano, pupillo di Andreatta, chiamato (perché tra i più piccoli di dimensione) a mettere mano al disastro dell’Ambrosiano di Calvi. Un dominus prescelto alla fine anche da Enrico Cuccia con la Comit e dagli Agnelli con il San Paolo di Torino. 

Si potrebbe chiaramente affermare di una UBI comprata sul “valore” e non sui “valori”, in ragione di un concambio apparso all’inizio poco appetibile. “Troppo poco!”, hanno reagito quelli della Banca assediata. L’offerta è stata di fretta rimpinguata di cash a metà corsa. “Vogliamo qualcosa di più!”, hanno risposto dall’Ubi senza tenere conto della fame di liquidità dei numerosi eredi dei padri fondatori. Il volume totale degli impegni di Intesa si è ulteriormente allargato per l’ampliarsi delle adesioni fino al 90% e, sicuramente, sarà maggiorato per acquisire alla totalitaria il restante. 

Problemi che Intesa affronterà a tempo debito. Oggi la potenza di fuoco ha sbaragliato il fortino Ubi dentro il quale, da tempo, covava una lacerazione tra i grandi soci, allargatasi con le carte da bollo e l’apertura di insidiosi processi a Bergamo e a Brescia. Tra questi soci alcuni da tempo pronti alla resa, purché ben pagata con l’aggiunta di una sottile vendetta nei confronti di quanti li avevano privati di cariche e poltrone considerate un diritto ereditario. 

Che Victor Massiah non si sia reso conto in tempo utile di una situazione interna che pretendeva la messa in campo di una difesa articolata e barili di polvere nella Santa Barbara è la chiave per capire molto dell’intera vicenda. Al ritardo nel mettere mano alle armi si deve aggiungere la sua estraneità, unita a quella di Letizia Moratti, al mondo della tradizione bresciana e bergamasca arroccato nel tempo e chiuso a riccio intorno alla banca più che nei partiti o nelle canoniche. 

Decisivo ed imperdonabile errore, infine, quello di non aver compreso, fin dal nascere che il lancio dell’Opas concludeva un sotterraneo e crescente rapporto di tutela politica ed istituzionale intessuto da molti mesi da Carlo Messina. Alla forza d’urto di Intesa e alle sue alleanze politiche e mediatiche vale la pena aggiungere le radicate e crescenti contraddizioni che hanno attraversato la complessa storia dell’Ubi che ha radici nel 1869 per la parte cattolica e nel 1883 per quella laica. Gli uni nati per garantire attraverso il credito il potere di una Chiesa messo in discussione dal vulnus di Porta Pia. 

Gli altri, figli del Risorgimento, decisi a superare i limiti delle Società di mutuo soccorso per affidare il progresso dell’industria e dell’agricoltura nei capitali. Una divisione, quella delle origini, rimarginatasi in fretta con la spartizione, voluta dal regime fascista, della intransigente, brescianissima e cattolicissima Banca Perlasca. Da allora solo la narrazione semplicistica delle cronache ha continuato la vulgata della diversità delle due Banche, ignorando la ferrea realtà dei comuni interessi, degli intrecci familiari e dei patrimoni pronubi di fatto al matrimonio finale. 

Matrimonio promesso e talvolta rinviato, di anno in anno, in attesa che lo storico azionariato di riferimento si “smagrisse” nelle altalenanti vicende dinastiche e di quelle delle loro imprese lasciando in poche mani i destini dei due Istituti bancari. Matrimonio celebrato anche dopo l’innamoramento sentimentale con la Bipop e della ubriacatura finanziaria che ha attraversato questa Lombardia, da Lodi a Brescia, con i giochi di prestigio dell’Hopa e del suo mago “Chicco” Gnutti. Di quella stagione oggi l’Unipol affiancherà la Banca di Reggio e dell’Emilia nell’assorbire i 500 sportelli Ubi e tutte le sue attività assicurative. 

L’Opas chiude anche la stagione dell’ingegneria societaria maturata a Brescia e sperimentata in più occasioni attraverso patti federativi, assorbimenti, affiliazioni, rapidi passaggi statutari da banca popolare a società per azioni e viceversa. Uno slalom tra le regole bancarie e il diritto civile che moltiplicava i consigli di amministrazione e le società satellite in numero tale da accontentare le aspirazioni dei molti e il reale potere dei pochi. Le procedure di una disciplinata cooptazione nelle cariche hanno allontanato per anni l’inquietudine e i segni di ribellione di alcuni nuovi protagonisti dell’economia locale che non avevano né tempo né voglia di mettersi in fila in attesa della chiamata.

La rivolta in anni recenti di alcuni grandi azionisti ha mostrato la coperta, corta e sfilacciata, del modello federativo e dinastico messo in piedi tra Brescia e Bergamo. Così come la coda giudiziaria che fa tremare molti e che l’Opas forse ritarderà nei tempi ma che non potrà mettere in solaio. Nelle due città non mancheranno i sussulti politici e sociali. Il credito e la banca hanno costituito di fatto il cemento di un blocco di potere professionale che ha sostenuto in politica la sinistra democristiana e poi, per le vicende nazionali, l’alleanza con i resti di quello che fu il PCI.

Le ricche e finanziate Fondazioni, emanazione diretta delle due banche, hanno svolto un ruolo essenziale nella vita culturale e sociale delle due provincie. Studi legali, cattedre universitarie, affidamenti generosi, consulenze milionarie nelle grandi operazioni di fusione delle Municipalizzate e nei servizi hanno avuto la loro sala parto dentro la Banca e portano impressi i nomi e i cognomi di sempre. Vincenti. Ricchi. Potenti. Ma miopi. Fino a qualche anno addietro l’articolazione aperta della società italiana permetteva un ascensore sociale basato sul talento e sulla capacità individuale.

Ragione per la quale il privilegio garantito al mondo dei soci delle banche non intralciava la crescita di quanti ne erano esclusi. Luigi Lucchini è stato un esempio. In molti non hanno avvertito il cambiamento dei tempi e i dominus non hanno più tenuto le redini. Bresciana per vocazione è stata anche la Cattolica Assicurazioni. Anch’essa secolare. Oggi il leone delle Generali si appresta a farne un boccone. Ai segnali grandi della decadenza si susseguono quelli apparentemente piccoli ma di gigantesco significato.

Di questi giorni, in Valle Camonica, culla della finanza cattolica lombarda, le suore maestre Dorotee chiudono la loro scuola iniziata nel 1866, per uno sbilancio di 180 mila euro all’anno. Non hanno trovato un aiuto, né una garanzia né una mano come diciamo qui in montagna. 

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