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Boeri: un governo tecnico del pallone

Proponiamo una parte dell’intervista, anticipata dal sito “Lavoce.info” all’economista ed editorialista di Repubblica, Tito Boeri, che affronta in termini economici le cause del declino del calcio italiano negli ultimi anni – Nel libro “Parlerò solo di calcio” (108 pagine, il Mulino, 10 €) Boeri viene intervistato da Sergio Levi.

Boeri: un governo tecnico del pallone

Non mi sembra vero di poter parlare di calcio (e non di lavoro, né di economia) con un economista del lavoro! Ma scherzi a parte, da cosa nasce la sua decisione di applicare al pallone i metodi rigorosi dell’economia?

Può sembrare strano che un economista si interessi di calcio. In realtà, ci sono varie ragioni per cui altri economisti, prima di me, si sono dedicati allo studio di questo sport, benché dal punto di vista industriale abbia un’importanza relativamente marginale. Il motivo principale è che il calcio catalizza una delle risorse più scarse che ci siano al mondo, vale a dire l’attenzione umana, e in questo momento poche altre cose riescono a farlo così bene. Nell’era di Internet siamo continuamente bombardati da ogni sorta di messaggi, avendo accesso a innumerevoli fonti d’informazione. 

In questa selva di stimoli, il calcio riesce a esercitare un forte appeal, attirando su di sé l’attenzione di molti individui. Cito solo un dato: la finale di Coppa del Mondo del 2010 è stata seguita, in 200 paesi, da circa 700 milioni di persone. Si tratta di una risorsa che altre attività umane semplicemente non riescono a catalizzare. Forse perché il calcio suscita in noi istinti primordiali, rivalità sopite: fatto sta che il calcio cattura l’attenzione umana e, come tale, merita grande attenzione da parte di chi, come l’economista, studia l’allocazione di risorse scarse. (…)

Prima di immergerci nel racconto dei fatti di Calciopoli, mi piacerebbe chiederle da cosa è nata l’idea di applicare a quelle vicende gli strumenti dell’economia.

Nel giugno 2006 aspettavamo tutti l’inizio dei Mondiali di calcio, quando incominciarono ad arrivare le prime rivelazioni sulle telefonate fra Luciano Moggi e alcuni arbitri di serie A.
Gli inquirenti avevano messo sotto controllo i telefoni di alcuni manager nel corso di un’indagine sull’uso di doping nella Juventus. Scoprirono che il direttore generale della Juve, Luciano Moggi, aveva esercitato pressioni su arbitri, funzionari di federazione e giornalisti, alla vigilia di partite decisive della stessa Juventus o di qualche sua rivale. Allora gli arbitri venivano selezionati da un team di ex arbitri chiamati «designatori», con cui Moggi era solito intrattenere lunghe conversazioni telefoniche, benché ciò fosse espressamente vietato dalle regole della federazione. L’indagine fu subito estesa a tutti i designatori e ai manager che li chiamavano in violazione delle norme federali. In quel periodo stavo leggendo un lavoro di Steve Levitt (conosciuto per la sua freakonomics) che riusciva a identificare esami scolastici truccati guardando a deviazioni da una distribuzione di voti tipo.

Qualcuno ha denigrato queste tecniche parlando di «economia dell’immaginazione», perché compie inferenze su fenomeni che non è possibile osservare. Ma il metodo si è rivelato spesso molto efficace nel segnalare possibili episodi di corruzione; nel nostro caso, avevamo il vantaggio di sapere dalle intercettazioni quali partite erano state manipolate. A quell’epoca avevo cominciato a raccogliere dati sulla produttività dei calciatori. La caratteristica fondamentale dei dati sportivi (caso raro nel mercato del lavoro) è infatti che permettono di misurare con relativa precisione la produttività dei calciatori: attraverso vari indicatori, come il numero dei gol e dei calci d’angolo, i falli commessi e subiti, nonché parate, rigori e chilometri percorsi, è possibile avere una stima abbastanza precisa di quanto riesce a «produrre» ogni singolo calciatore.

Ebbene, quando vennero alla luce i primi episodi di Calciopoli, chiesi a Battista Severgnini, con cui stavo raccogliendo questi  dati sulla produttività dei calciatori, se non potevamo indirizzare i nostri sforzi sull’analisi di questi episodi di corruzione che cominciavano a venire a galla. Abbiamo così deciso di analizzare metodicamente il caso di Calciopoli, cercando di capire quanto sia diffusa la corruzione nel calcio italiano.

E abbiamo scoperto delle cose molto interessanti. Questa indagine ci ha permesso di capire che il modo con cui venivano alterati gli esiti delle partite era molto fine: non si pagavano gli arbitri, ma si esercitava una pressione molto forte su di loro, quando questi si trovavano in una fase particolarmente delicata della loro carriera, in attesa di essere promossi allo status di arbitri internazionali. Messi di fronte all’alternativa fra collaborare con manager senza principi e non fare il salto di carriera, alcuni arbitri (che non a caso si trovavano in quella posizione) hanno scelto la prima opzione. I nostri studi mostrano che sono proprio gli arbitri in questa fase cruciale della loro carriera a essere stati coinvolti nelle partite oggetto di indagine. Ma per apprezzare i meriti di queste analisi bisogna capire come funzionava il sistema corruttivo che si era cristallizzato intorno agli arbitri negli anni che precedono l’esplosione di Calciopoli.

(…) quali conclusioni si possono trarre sul calcio italiano dalla vostra analisi dei fatti di Calciopoli?

Ne indicherei due. In primo luogo, in Italia la competizione calcistica è falsata dalla preminenza del potere mediatico, che incide sul potere sportivo ed economico e ne distorce le dinamiche. In secondo luogo, coloro che dovevano regolare il sistema, vale a dire la terna che selezionava gli arbitri, e gli stessi arbitri, sono stati sistematicamente catturati da coloro che dovevano essere regolati. Per cercare di ovviare a questo specifico problema, bisogna intervenire sugli incentivi delle carriere arbitrali e potenziare ulteriormente i compensi fissi. Soprattutto, bisogna che sia un’autorità esterna al mondo del calcio a monitorare l’attività dei direttori di gara e valutarne le prestazioni. Una delle falle del nostro calcio era (ed è) la mancanza di adeguati controlli esterni. (…)

Che cosa bisogna fare per evitare che nuove Calciopoli si ripetano in futuro?

È una delle domande che hanno guidato la nostra analisi. Da un punto di vista normativo, i nostri risultati suggeriscono che per ridurre il rischio di nuove Calciopoli bisogna monitorare molto attentamente il comportamento degli arbitri, soprattutto di quelli che attraversano una fase cruciale della loro carriera. Più in generale, serve maggiore trasparenza in almeno tre ambiti: in primo luogo, nelle decisioni relative alle assegnazioni di partite agli arbitri; in secondo luogo nella promozione di questi ultimi al rango internazionale; in terzo luogo, nelle valutazioni ufficiali delle prestazioni degli arbitri. Migliorare il loro sistema di retribuzione può servire a disincentivare il ricorso ai direttori di gara per manipolare le partite. (…)

A chi spetta il compito di attuare queste riforme?

Un po’ alla federazione, un po’ al governo. Ma si tratta di un compito ingrato e almeno a breve termine impopolare, perché in Italia le squadre di calcio, oltre a essere too popular to fail, sono istituzioni sacre che nessuno può toccare, dove prevale il campanilismo per definizione. Bisogna che la politica si leghi le mani come Ulisse, perché quel che serve non sono minimi ritocchi, ma riforme e interventi che riducano drasticamente il numero di squadre obbligando quelle che non sono in grado di presentare un bilancio serio a chiudere i battenti. Ancora, bisognerebbe radiare a vita chi ha commesso atti illeciti e chi ha dato loro copertura. Forse ci vorrebbe un governo tecnico anche nel calcio per fare queste cose. Non bisogna dimenticare che oltre al bene pubblico (il calcio) bisogna tutelare il pubblico dei tifosi.

Già, e l’attuale  governance del calcio non li tiene affatto in considerazione. Servono figure che rappresentino davvero gli interessi  degli appassionati di calcio. Ci vorrebbe una tessera del «bravo tifoso»: non parlo della tessera del tifoso introdotta dall’ex ministro Maroni, che si è presto rivelata una sorta di card dei gruppi organizzati; ma di una tessera per i singoli tifosi che vanno pacificamente allo stadio (come la fidelity card proposta dal ministro Cancellieri). Questa tessera dovrebbe permettere ai supporters di eleggere dei propri rappresentanti nelle strutture di governo del calcio che devono assicurare il rispetto delle regole sportive.

Perché è vero, come a volte si dice, che gli individui possono sempre votare con i piedi, in questo caso cessando di andare allo stadio o non guardando più le partite in televisione, ma è bene che facciano anche sentire la loro voce. Un recente studio econometrico di Babatunde Buraimo, Giuseppe Migli e Rob Simmons (dal titolo eloquente Corruption Does Not Pay) fa vedere che dopo Calciopoli le squadre che erano state coinvolte in episodi di corruzione hanno subito cospicue perdite di spettatori allo stadio. Purtroppo, la delusione degli spettatori che cessano di andare allo stadio rischia di passare inosservata, perché i redditi da stadio occupano una piccola fetta nei fatturati delle squadre italiane. Se imponessimo alle società di calcio di avere dei bilanci più trasparenti, spingendole a ridurre la quota dei diritti televisivi, anche le reazioni degli spettatori alla corruzione servirebbero come disciplining device: a quel punto le società ne pagherebbero lo scotto. Andando in questa direzione, avere biglietti più cari sarebbe un prezzo che varrebbe la pena pagare.

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