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Bellezza e miseria dello streaming, ma è un’industria sostenibile?

Lo streaming è il settore più caldo dell’industria dei media ma le piattaforme sono molto lontane dal punto di pareggio che si individua nebulosamente nei 35-40 milioni di utenti paganti, la popolazione di un Paese come il Canada – Eppure, lo streaming piace ai consumatori e oltre 100 milioni di persone lo usano quotidianamente – Come andrà a finire?

Bellezza e miseria dello streaming, ma è un’industria sostenibile?

Sarà anche il settore più caldo dell’industria dei media, ma lo streaming è tutto fuorché perfetto. Si discute, addirittura, della sua sostenibilità per tutti gli attori dell’industria comprese le piattaforme. Esclusi i consumatori, tutti stanno perdendo qualcosa, nella migliore tradizione del web. Gli artisti sono in modalità mugugno (alcuni considerano le royalty dello streaming un insulto), le etichette sono in subbuglio perché vogliono togliere di mezzo il livello freemium che è poi il perno dell’azione antipirateria, le piattaforme sono ancora molto lontane dal punto di pareggio che si individua nebulosamente nei 35-40 milioni di utenti paganti, la popolazione di un paese come il Canada.

Sembra uno scenario da ultimi giorni di Pompei, ma non è affatto così per un semplice dato di fatto: lo streaming piace ai consumatori e oltre 100 milioni di persone lo usano quotidianamente: 29 dei 30 video più visualizzati su YouTube sono clip musicali prodotte professionalmente da musicisti o etichette musicali. YouTube è diventato il jukebox del mondo. Il meccanismo di YouTube si è raffinato a tal punto che gli artisti possono ricevere dei pagamenti passivi automatici anche su brani postati illegalmente o a loro insaputa.

Ed è questo innamoramento dei consumatori, sedotti dai servizi come quelli di YouTube, che motiva gli investitori a mettere denaro nel settore. È proprio il capitale di rischio che tiene in piedi l’economia dello streaming della musica.

Recentemente Spotify, che ha perduto nel 2014 qualcosa come 162 milioni di dollari, ha beneficato di uno nuovo round di investimenti di 400 milioni di dollari (il settimo in nove anni). Oggi la valutazione complessiva della piattaforma è di 8,4 miliardi di dollari, sei volte e mezzo il valore dei suoi ricavi di 1,3 miliardi nel 2014. Secondo il “Financial Times” l’81% di questi ricavi sono trasferiti direttamente a possessori dei diritti sui brani musicali ascoltati dagli abbonati al servizio. Cosa possa restare alla piattaforma è un mistero.

C’è un altro ostacolo non da sottovalutare nella marcia dello streaming musicale verso la forma dominante di consumo di musica: l’allargamento della domanda. Si tratta di portare i consumatori a investire più denaro nella musica di quanto facciano adesso. Secondo Deloitte, negli USA la spesa pro-capite per anno in musica registrata è di 48 dollari, quando la spesa per aderire a un qualsiasi servizio di streaming è di 119,88, tre volte tanto. La bottiglia mezza vuota diventa mezza piena se guardiamo al dato dei millennial (18-34 anni) che stanno iniziando a investire qualche soldo, infatti spendono in musica 125 dollari l’anno.

Molti osservatori però concordano nel rilevare che per molti utenti medi il livello gratuito con pubblicità, come quello offerto da Spotify, è più che sufficiente e ci vorrà qualcosa di veramente speciale per convincerli a pagare 9,99 al mese per liberarsi della pubblicità. Se però guardiamo all’esperienza della TV a pagamento negli Stati Uniti, dove sono 100 milioni i clienti paganti, si può inferire che la crescita della qualità e dei servizi dell’offerta a pagamento può stimolare efficacemente la crescita rapida di una domanda qualificata. Forse la sfida più robusta sta proprio qui e forse tutti gli attori dell’industria musicale dovrebbero guardare all’esperienza della TV a pagamento come viatico della propria.

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