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Leopoldo Pirelli, l’imprenditore gentiluomo

Dieci anni fa moriva l’imprenditore leader per 40 anni della terza generazione del gruppo della Bicocca – Stile, cultura e onestà ma anche un precursore di quelle che sarebbero state le dinamiche della concentrazione dell’industria mondiale – Al suo nome è legata anche la riforma del 1970 per svecchiare una Confindustria.

Leopoldo Pirelli, l’imprenditore gentiluomo

Dieci anni fa oggi, 23 gennaio, moriva Leopoldo Pirelli. Aveva 81 anni ma da fin dal 1999, con l’uscita dalla presidenza della Pirelli & C – la Pirellina per la Borsa, allora finanziaria di controllo della Pirelli Spa, la Pirellona – aveva abbandonato ogni incarico nel gruppo di famiglia.

Negli stessi giorni quattro anni prima, il 24 gennaio, se ne era andato anche Gianni Agnelli, quasi che il destino avesse voluto per l’ultima volta accomunare anche nell’addio alla vita, i due personaggi protagonisti della grande industria privata del dopoguerra, l’Avvocato e l’Ingegnere, leader indiscussi di mezzo secolo del capitalismo italiano legato a filo doppio alla Mediobanca di Enrico Cuccia.

Era il 1965 quando Leopoldo Pirelli saliva alla presidenza, ma era dal 1959, allora 34enne, che aveva affiancato come vicepresidente il padre Alberto colpito da un malore e che morirà nel 1971. Di grande garbo e straordinaria cultura, quando ereditò il gruppo fondato dal nonno nel 1872 aveva già intuito quelle che sarebbero state le dinamiche della concentrazione dell’industria mondiale.

La Pirelli era l’unica vera multinazionale italiana con i suoi cavi e gomme conosciuti in America e prodotti in più continenti ma nel campo specifico degli pneumatici Pirelli capiva che per reggere la concorrenza e stare sul mercato era inevitabile crescere di dimensione. Un traguardo che non cesserà mai di perseguire, quasi un’ossessione industriale che lo porterà anche a cocenti delusioni nell’arco dei suoi quasi 40 anni di presidenza.

Il trapasso dalla seconda alla terza generazione in Pirelli avveniva ancora in un’Italia che stava ancora assaporando la scia del boom arrembante del dopoguerra anche se il Pil stava frenando e i primi governi di centro-sinistra avevano nazionalizzato l’energia elettrica, inflazionando il mercato obbligazionario di emissioni statali per i risarcimenti miliardari mentre le azioni in Borsa dopo tanto correre subivano i primi tracolli.

Il grattacielo Pirelli, che ancora oggi è per tutti il Pirellone anche se la Pirelli da decenni non l’abita più, sapeva ancora di nuovo e di magico: progettato da Giò Ponti, ultimato nel 1961, era subito diventato il simbolo non solo della Pirelli, ma di un intero Paese tornato a competere a livello mondiale dopo le rovine della guerra. La Bicocca era un immenso quartier generale di pneumatici e cavi ai confini con le ciminiere della Breda e le acciaierie della Falck di Sesto. 

Era la Milano delle grandi fabbriche, tutta industria e manufatti, l’immagine più autentica del miracolo italiano che aveva ormai raggiunto il suo apogeo. Anche in Fiat, come in Pirelli, la terza generazione prendeva il comando con Giovanni Agnelli che assumeva la presidenza al posto di Vittorio Valletta. Ma a Torino come a Milano presto vennero tempi difficili con la grande contestazione del 1968 e la crisi petrolifera mondiale degli anni Settanta che paralizzò il mercato dell’auto con immediate ricadute anche sull’industria dei pneumatici.

Il Paese era sconvolto dal terrorismo di matrice rossa e nera, attentati, sequestri, uccisioni anche di quadri e dirigenti industriali, lunghi anni di piombo e di strategia della tensione culminati con il rapimento e l’omicidio di Moro. Scioperi, fabbriche bloccate, la protesta sindacale dilagava con cortei che bloccavano le città al grido di “Agnelli-Pirelli, ladri gemelli”.

Principale bersaglio della contestazione finiva per essere proprio l’imprenditore che, per primo e più di tutti, si era battuto per svecchiare una Confindustria arroccata a difendere posizioni ormai insostenibili, chiusa al nuovo che emergeva dalla società, retta da personaggi sempre meno credibili. Il documento che porta il suo nome è del 1970. Già due anni prima Pirelli aveva proposto la settimana  lavorativa di 5 giorni, le ferie scaglionate, i turni di lavoro.

Un’attenzione del tutto nuova verso il mondo del lavoro, che Pirelli introdusse anche nei confronti delled migliaia di soci del gruppo, introducendo l’usanza della Lettera agli azionista con cadenza semestrale. La Consob la renderà obbligatoria solo nel 1974.

Anni durissimi per Pirelli che li affrontò senza mai rinunciare al suo stile e alle sue idee, trovando la forza di resistere nella storia di una società e di una famiglia che si sono sempre dimostrate aperte al nuovo e ai cambiamenti sociali. Con la Union avviata nel 1971 con gli inglesi della Dunlop, attraverso uno scambio di azioni al 49% delle rispettive società operative, era nato un colosso con 200 fabbriche nel mondo, 178mila dipendenti e un fatturato annuo di 2 miliardi di dollari che allora lo collocava al terzo posto nel settore delle gomme dopo i giganti americani Goodyear e Firestone. Un’operazione mai vista in Italia, che fece clamore in tutta Europa. 

Ma sebbene i due gruppi fossero complementari, la fusione non riuscì. La Union rimase solo la somma delle parti costituenti e non una nuova entità capace di produrre le sinergie e i risparmi previsti dai due partner. Non era passato molto tempo che la Dunlop, anch’essa finita in cattive acque, si rifiutò addirittura di sottoscrivere la sua quota dell’aumento di Industrie Pirelli, la società operativa della Bicocca, lasciando la Pirelli a sobbarcarsi da sola l’onere dell’intero finanziamento.

Per colmo di sventura, nel pieno della crisi aziendale, nell’aprile 1973 Pirelli fu colpito anche dalla tragedia della morte del fratello maggiore Giovanni, trasformato in una torcia, dopo un tremendo incidente automoblistico che lasciò tracce anche sul volto di Leopoldo. Mesi di sofferenze durante il quale a Pirelli venne la tentazione di lasciare, ma alla fine il dovere di non tradire la missione cui era stato chiamato dal padre Alberto – di essere il leader della terza generazione – ebbe di nuovo il sopravvento.

E l’Ingegnere riprese il suo posto in azienda e nella vita economica del Paese. Alla Bicocca, fallita la Union, restava sempre da colmare lo svantaggio competitivo con la Michelin che, forte delle collaborazione con Citroen di cui controllava un importante pacchetto di azioni, aveva lanciato da anni il radiale, uno pneumatico la cui struttura rinforzata da strisce d’ acciaio garantiva un uso di più lunga durata.

Gap tecnologico che venne in parte recuperato grazie al lancio del Cinturato. Fuori dell’azienda a metà degli anni Settanta Pirelli, in pieno accordo con Agnelli, si impegnò in prima persona per sbarrare la strada a Eugenio Cefis, che dopo aver usato i soldi pubblici dell’Eni per scalare la Montedison e diventarne presidente, puntava anche al vertice della Confindustria.

Ma il piano del manager che più di tutti ha incarnato il prototipo della razza padrona venne stoppato. A presiedere la Confindustria arrivò lo stesso Agnelli. Vi resterà per un biennio per poi lasciare il posto a Guido Carli e tornare in Fiat. La crisi picchiava ancora duro.

In aiuto di Torino, a corto di liquidità, arrivarono i capitali della Lafico, la finanziaria libica del colonnello Gheddafi. Alla Pirelli Leopoldo, per fare cassa, fu costretto a vendere nel 1978 anche il Grattacielo. Ad acquistarlo per circa 43 miliardi fu la Regione Lombarda. La Pirelli trasferì la sede in edifici più sobri e meno costosi, prima in piazza Cadorna e poi in Via Negri.

Quando finalmente, negli anni Ottanta, nei bilanci della Bicocca si cominciava a intravedere l’uscita del tunnel tornava viva e sempre più impellente la voglia di crescere. E nel 1988 nel mirino di Pirelli entrava niente meno che la Firestone: sul piatto l’Ingegnere era pronto a mettere circa 2.400 miliardi di vecchie lire lanciando un’Opa sul gruppo americano a 58 dollari per azione.

Questa volta a intralciare i piani di grandezza di Pirelli intervenne, quando i giochi sembravano volgere a favore dell’azienda milanese, la giapponese Bridgestone che praticamente raddoppiava la cifra offerta da Pirelli. Ma Pirelli non si dava per vinto: gli acquisti riusciti della tedesca Metzeler e dell’americana Armstrong Tyre non appagavano il suo sogno di grandezza. Passò così poco tempo che mise in cantiere la terza offensiva: l’obiettivo era la tedesca Continental.

In Bicocca si era tornati a respirare un clima euforico dopo il collocamento alla Borsa di Amsterdam del 25% della Pirelli Tire Company, la holding in cui erano state concentrate tutte le attività del gruppo nel settore pneumatici. Il collocamento delle azioni avvenne a un prezzo dieci volte superiore ai profitti realizzati nello stesso 1989, che pure era considerato un anno eccezionale. Questo successo accelerò i piani per la campagna tedesca.

Era il settembre 1990 quando l’azienda milanese comunicò ufficialmente la sua volontà di effettuare una fusione amichevole con la Continental. L’offerta fu inizialmente accolta con favore e pareva avere l’appoggio – grazie alla mediazione preventiva di Mediobanca-  anche della Deutsche Bank e dell’Allianz. Ma quando oltre al cash in cambio di un’importante quota di Continental, Pirelli inserì nell’operazione anche il conferimento della Pirelli Tyre valutata a quei prezzi d’affezione, il clima si fece immediatamente difficile.

Per i tedeschi il progetto di fusione si era trasformato in una vera e propria scalata ostile da parte di Pirelli, un’operazione da bocciare in tronco. Per la Bicocca costituì un altro bruciante insuccesso che aveva bruciato nelle sabbie mobili tedesche quasi 700 miliardi, che misero di nuovo a repentaglio i conti della società. Nell’ottobre del 1986 Pirelli in un discorso pronunciato al Collegio degli ingegneri di Milano dichiarò che “dovere di un imprenditore era offrire buoni risultati agli azionisti: se ciò non era possibile una volta, ci doveva riprovare, ma se avveniva più volte era suo dovere dimettersi”.

Fedele a questo principio, con l’onestà che lo ha sempre contraddistinto, Pirelli lasciò la carica di presidente esecutivo della società agli inizi del 1992 a Marco Tronchetti Provera, l’ex genero che aveva sposato in prime nozze sua figlia Cecilia -restando solo presidente del consiglio fino al 1996 e della Pirelli & C. fino al 1999.

A differenza di Agnelli, che fino a quando la malattia glielo permise, ha di fatto retto le fila della Fiat che, poco tempo dopo il fallimentare matrimonio con Gm, sarebbe precipitata nel baratro di una pesantissima crisi, Pirelli non volle più interferire nelle vicende del gruppo una volta uscito di scena.

“Ogni età ha i suoi doveri, alla mia – disse l’Ingegnere all’assemblea di Pirelli & C. nel maggio del 1999 – tocca quello di ritirarsi dal proscenio. E io oggi considero un privilegio il poter adempiere tranquillamente a questo dovere”. 

Schivo e riservato da sempre, non avrebbe mai più parlato in pubblico, nemmeno in occasione dell’operazione Telecom. Pirelli, nei giorni precedenti all’addio ufficiale, aveva voluto incontrare nel suo ufficio di via Negri, uno per volta, anche i giornalisti delle maggiori testate che avevano seguito le vicende della sua Pirelli. Fu l’ultima volta che l’incontrai come giornalista del Sole 24Ore.

Un’ora in cui si mise a raccontare la sua vita, i suoi successi ma anche le sue sconfitte. Espresse grande stima per Cuccia e Mediobanca, la bankhaus di famiglia, anche se nell’avventura Continental che portò alla sua uscita dal comando della Pirellona qualcosa non aveva funzionato nella storica alleanza . Ribadì la piena fiducia in Tronchetti e nella sua leadership: “è lui il leader della nostra quarta generazione. È lui che deve decidere tutto”.

L’unica cosa che non condivideva delle azioni intraprese dall’ex genero era la sponsorizzazione dell’Inter. “Per me che tifo da sempre  Milan, mi può capire…”. Disse poi che continuava a diffidare di Martin Ebner, il finanziere svizzero che divenne partner di minoranza della Pirelli quando venne accorciata da Tronchetti la catena di controllo con la sparizione della Pirelli Internationale di Basilea.

Pirelli non dimenticava come un giorno di tanti anni prima Ebner avesse tramato per impossessarsi del gruppo. Da allora Pirelli non volle più vederlo. L’ingegnere parlò poi di vela, la sua passione; del ruolo di suo figlio Alberto nel gruppo facendo una riflessione generale sui trapassi generazionali: “Non basta portare un nome per occupare un posto di vertice, il ruolo di numero uno, di successore, bisogna saperselo conquistare. È evidente che l’erede non può essere il numero due o tre dell’azienda: o ce la fa a restare come capo o deve andarsene”. Con lo stile che è stato uno dei suoi asset più apprezzati, evitò di far cenno a Tangentopoli, la bufera che investì tanti grandi nomi dell’industria ma che mai sfiorò la Pirelli e il leader gentiluomo della sua terza generazione.

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