Nicolas Maduro fa sul serio e ancora una volta sfida le istituzioni internazionali. Già da oltre un anno il regime venezuelano ha preso di mira il confinante territorio di Essequibo, che fa ufficialmente parte della Guyana ma sul quale Caracas rivendica la sua sovranità. Essequibo rappresenta i due terzi del territorio della Guyana: 160 mila km quadrati ricchi di petrolio offshore e anche di altre risorse minerarie che fanno gola a molti, in particolare ai soliti Stati Uniti che tramite ExxonMobil hanno acquisito nel 2015 buona parte dei giacimenti petroliferi che secondo le stime custodiscono riserve pari quasi a quelle dell’intero Brasile, che è pur sempre l’ottavo produttore di greggio al mondo. Maduro ha deciso che Essequibo debba ricadere sotto la giurisdizione di Caracas e per questo lo ha unilateralmente annesso, proclamando persino delle elezioni-farsa per formare un congresso locale a guida venezuelana. La Guyana ha dunque fatto ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, la quale si è chiaramente opposta a questo progetto e ha intimato il presidente di sospendere le elezioni, programmate per il prossimo 25 maggio.
Essequibo, il petrolio e la sfida di Maduro
Maduro però fa orecchie da mercante e tira dritto: il voto per Essequibo ci sarà e il Parlamento venezuelano lo ha già formalmente dichiarato come il 24 esimo Stato del Paese, suscitando l’irritazione dei partner sudamericani e la preoccupazione della comunità internazionale per l’ipotesi di un’escalation militare in stile invasione russa in Ucraina, per ora comunque da escludere. Le rivendicazioni di Caracas sulla striscia di territorio appartenente alla Guyana non sono tuttavia del tutto campate per aria: Essequibo è al centro di una disputa centenaria, essendo stato prima colonia britannica e poi annesso alla Guyana dopo l’indipendenza, ma un accordo firmato nel 1966 tra Venezuela e Regno Unito a Ginevra aprirebbe spiragli per ridisegnare i confini. La Guyana oggi è di fatto uno Stato satellite degli Usa, ai quali sta mettendo a disposizione enormi riserve petrolifere oltre che un avamposto strategico in America Latina, proprio ai confini con un Paese ostile a Washington come il Venezuela. Nel blocco offshore al largo di Georgetown Exxon conta di estrarre 1,3 milioni di barili di greggio al giorno, il che farebbe della Guyana, Paese di meno di un milione di abitanti, il maggior produttore di petrolio pro capite del mondo, davanti a Qatar e Kuwait.
Una crisi che mette in discussione l’ordine internazionale
L’ex colonia britannica si rifiuta, probabilmente su pressione della Casa Bianca, di aprire a qualsiasi negoziazione con Caracas e si appella per ora alla decisione dell’Aia, che è “definitiva e vincolante”. “Il diritto internazionale – sostiene invece il dittatore chavista – non permette alla Corte di interferire in questioni di esclusiva competenza interna del Venezuela”. Il Paese ispanofono non è nuovo a tensioni con l’Onu, che ha più volte negli ultimi anni accusato il regime di crimini contro l’umanità e di continue violazioni dei diritti umani attraverso “detenzioni arbitrarie, torture, rapimenti e violenze sessuali”. Le stesse elezioni che hanno confermato Maduro come presidente nel 2024 non sono state riconosciute dagli organismi internazionali e nemmeno da molti Paesi dell’America Latina, oltre che da Stati Uniti e Unione europea, che hanno denunciato brogli e violente rappresaglie contro l’opposizione e contro qualsiasi forma di dissenso. Nel frattempo, Maduro ha già nominato l’ex comandante della Marina Neil Villamizar come “governatore di Essequibo”. Soffiano venti di guerra anche in Sudamerica.