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Usa, la vera posta in gioco della battaglia di Obama sul debito è l’idea stessa di America

di Mario Margiocco – Tagliare le tasse e alzare il debito o ridurre spese e debito: attorno a questo scontro si rivela tutta la cecità ideologica dei repubblicani e tutta la debolezza dei democratici – Compromesso possibile prima del 2 agosto – Il debito pubblico americano è ufficialmente al 60% del Pil ma in realtà ammonta al 140%

La battaglia sul debito in corso a Washington non è contabilità nazionale, è politica e cultura politica: in ballo c’è l’idea stessa di America. Se l’America cioè ha i mezzi per continuare a far vivere la sua promessa di speranza, o se non ce li ha. Non nel senso che non li avrà più, ma nel senso che li deve ricostruire, operazione mai indolore, e che sa tanto di Vecchia Europa. Il solo pensiero di essere più o meno in una situazione europea irrita profondamente quasi tutti i buoni americani, che vivono questo come la negazione di due secoli di orgogliosa storia nazionale.
Prima di tutto, non confondere procedura e sostanza. Il fatto che vi sia adesso una grande trattativa, e una grande battaglia, a Washington, sull’innalzamento del tetto legale del debito federale, ormai superato da circa un mese e fissato l’ultima volta a poco più di 14 mila miliardi di dollari, è una cosa in parte procedurale: la legge impone o di alzare il tetto, o di ridurre la spesa, selvaggiamente, e fermare il debito.
L’entità del debito, che è e sarebbe comunque un problema serissimo, è la sostanza, con o senza tetto. Di innalzamenti del tetto ve ne sono stati dieci dal 2000 e in totale quasi 80 dal 1940, ma mai la battaglia è stata così serrata perché, e questa è la sostanza del problema, ormai siamo arrivati ai limiti del sostenibile. Anzi, i limiti sono stati superati, ma una contabilità compiacente non rende il tutto ufficiale. Non ancora.
E’ difficile che alla vigilia di un anno elettorale Washington raggiunga un vero accordo. I repubblicani, in una sorta di cecità che non potrà essere che autodistruttiva se non troveranno qualche personalità capace di salvarli, sono decisi a non aumentare le tasse. Quanto questo sia insensato, lo dicono i numeri e 30 anni, da Reagan in poi, di ideologica fiducia nei tagli fiscali come toccasana. Tasse più basse hanno rilanciato la crescita, con Kennedy e inizialmente con Reagan. Poi hanno creato enormi squilibri fra entrate e uscite. Ma l’idea che ogni dollaro tolto a Washington sia un dollaro per l’America, che sa farlo fruttare magnificamente, è per molti il cuore – da 30 anni, non sempre prima – del credo americano, nella sua versione radical-repubblicana che da quasi due generazioni domina in quel partito.
Barack Obama è pronto a tagli massicci di spesa, toccando, cosa finora considerata suicida, il sistema pubblico di pensioni, la Social Security. Ma vuole giustamente anche aumenti di imposte. Oggi le imposte federali equivalgono al 19% del Pil e con quelle statali e locali si arriva a un prelievo di poco inferiore al 30% secondo dati 2010 della Banca centrale europea. Nell’area euro siamo al 44%, complessivamente.
Un accordo si troverà, quasi certamente, prima del 2 agosto, quando Washington altrimenti incomincerebbe a non pagare stipendi e fatture. Ma c’è da scommettere che sarà tutto proiettato sul futuro, dopo il 2012, anno elettorale. I mercati ci crederanno se vorranno crederci. Dopo il 2012, cioè domani. La cultura del mañana ha guadato il Rio Grande.
I repubblicani sono indeboliti, sulla distanza, dalla cieca fede nella bontà della politica di “affamare Washington” che già tanti guai ha portato al paese; ma una parte notevole del loro elettorato su questo non solo li segue, li sprona, veri eredi – accecati – di una nazione nata da una rivolta fiscale. Il guaio è che una parte degli anti-tasse sono poi a favore della spesa, quando li riguarda, come succede sempre e ovunque.
I democratici di Obama sono indeboliti, quando propongono sacrifici a tutti, dal fatto che con il salvataggio di Wall Street del 2008-2009, e ancora in corso, di sacrifici alle grandi banche ne hanno chiesti pochi.
Quanto ai numeri, parlano chiaro. Ufficialmente il debito pubblico americano è al 100% del Pil o quasi, in realtà è al 140 per cento, poiché occorre aggiungere un 20% per il debito statale e locale, che in Europa viene conteggiato, e un 20% almeno per il debito delle megafinanziarie immobiliari Fannie e Freddie, che Washington da quasi tre anni garantisce in toto e il cui peso, in base a un calcolo ottimistico, non è inferiore ai 3 mila miliardi. La media dei paesi euro è di un debito inferiore al 90 per cento. Poi c’è, tralasciando per un attimo i “piccoli” Grecia e Portogallo che pure così tanti problemi danno, il caso italiano al 120%, che è comunque sempre meno del 140 reale americano. Secondo solo, fra i paesi Ocse, al Giappone. L’Italia ha un sacco di altri guai e non si può certo dire che complessivamente stia meglio degli Stati Uniti, non in realtà e tanto meno in prospettiva, ma le cifre sono queste.
Le risorse, in entrambi i casi, America ed Europa, alla fine ci sono, per quanto l’operazione sia dolorosa. E’ un problema di leadership. E il vantaggio americano, e ve ne sono altri, è che una sola classe dirigente a Washington può indicare la via. Nell’area euro bisogna sentire 17 capitali. E non è una piccola complicazione in più. Per il resto, siamo nella stessa barca.

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