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Uk dopo Brexit: Covid incalza ma il Recovery Fund non c’è

INTERVISTA A CHRISTOPHER HILL, Professore a Cambridge e autore del saggio sul Regno Unito dopo Brexit – “I giovani inglesi si considerano europei e questa tendenza è più forte della Brexit ma Johnson ha in mano il partito e per i prossimi 4 anni può fare ciò che vuole” – Prima o poi Londra dovrà fare i conti con i suoi errori – “Draghi è un esperimento a cui tutti guardano con favore”

Uk dopo Brexit: Covid incalza ma il Recovery Fund non c’è

Il regolamento sul Recovery Fund andrà in Gazzetta ufficiale il prossimo 18 febbraio. Per l’Unione si tratta della più formidabile iniezione di risorse nell’economia reale dall’inizio della storia dell’integrazione europea. Secondo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il Next generation è “qualcosa di più grande che un semplice fondo, è un forte messaggio di solidarietà e di fiducia nell’UE”. Dall’altra parte del canale della Manica, i britannici invece non avranno probabilmente piani straordinari per risollevare l’economia interna e si dovranno confrontare con le grandi incognite della Brexit. Se è vero che il piano vaccinale contro il Covid sta proseguendo in maniera spedita, tutte le analisi ufficiali concludono che la Brexit avrà effetti negativi sull’economia britannica.

Si rifarà viva anche l’inflazione salirà, per effetto del cambio e dei dazi. «Siamo ancora divisi tra “remainers” and “brexiters”, ma nel dibattito pubblico la Brexit ha perso centralità, si parla solo della pandemia e delle sue conseguenze sanitarie ed economiche. “We are where we are”, ormai facciamo i conti con la realtà fuori dall’Europa», osserva Christopher Hill, professore emerito di Relazioni Internazionali a Cambridge e autore del saggio “The Future of British Foreign Policy: Security and Diplomacy in a World after Brexit”.

Qual è ad oggi, dopo poco più di un mese, l’opinione prevalente delle classi dirigenti inglesi sulla Brexit?

“Dal punto di vista politico Boris Johnson ha in mano il suo partito e per i prossimi quattro anni potrà fare ciò che vuole. Abbiamo avuto dei problemi nel porto di Dover in gennaio ma ora tutto sembra scorrere liscio. Ormai la questione è nelle mani delle prossime generazioni, sicuramente i giovani inglesi si considerano europei e questa tendenza è più forte della Brexit. Vedremo i risultati del voto giovanile alle prossime elezioni fra quattro anni, ma è vero anche che in politica è molto facile dimenticare il passato”.

Il Covid evidentemente porta ad accentrare la discussione sull’emergenza pandemica, ma cominciano ad emergere i grandi nodi delle barriere tariffarie e delle esportazioni: sono simboliche le file interminabili di centinaia di Tir al porto di Dover. Inoltre l’economia reale inglese deve ancora toccare le conseguenze della Brexit.

“I dati sul costo economico e finanziario della Brexit tra un po’ potremo analizzarli non solo come previsioni, con il rischio purtroppo che siano davvero molto penalizzanti per il Regno Unito. Il Tesoro inglese ha speso cifre enormi per contrastare la pandemia, gli effetti sul deficit e sulla possibilità di spesa nei prossimi mesi sono tutti da valutare. Il rischio è che la Brexit diventi un problema addirittura secondario. I “brexiters” enfatizzano i successi inglesi sulla distribuzione del vaccino e dicono che l’Europa è troppo grande e farraginosa per gestire una emergenza così diffusa. E’ un loro ulteriore punto di forza per motivare l’addio all’Europa”.

L’Europa invece si appresta a distribuire nel Vecchio Continente risorse gigantesche con i fondi del Next Generation Eu, una sorta di nuovo Piano Marshall. Londra che risposta può mettere in campo per il rilancio dell’economia inglese?

“La maggior parte dei giornali e dei media inglesi non parlano dei vantaggi del Recovery Fund, solo il Financial Times si occupa dell’argomento, ma è un mezzo di informazione elitario rivolto a chi si occupa di finanza ed economia. I “brexiters” non vogliono sapere cosa succede ora in Europa, i “remainers” – e io rientro tra questi – sperano in effetti positivi di questo storico dispiegamento di risorse per l’economia. Come dicevo prima, il governo di Londra è occupato solo dalla pandemia. Boris Johnson e il ministro della Sanità Matt Hancock sono più cauti nelle ipotesi di riapertura, non vogliono avere sulla coscienza le vite degli inglesi. Mentre Rishi Suniak, Cancelliere dello Scacchiere, è più “aperturista” ed è più sensibile alla crisi economica. Siamo tra Scilla e Cariddi in questo dilemma, o “Between a stone and a hard place” come dicono gli americani”.

I sovranisti stanno ripiegando un po’ in ritarata quasi dappertutto in Europa, proprio perché adesso Bruxelles diventa un centro di spesa e non più un “cattivo” impositore di regole. Anche in Inghilterra il sovranismo, ovviamente nell’accezione inglese, è sulla difensiva?

“Non c’è all’orizzonte nel Regno Unito un Marshall Plan, abbiamo già speso tanti soldi e non si sa se sarà possibile trovare nuove risorse. Questo sarà il vero problema che farà la differenza tra l’economia europea e quella inglese nel post Covid. Non credo inoltre che Boris Johnson, per la sua visione ideologica, abbia la volontà di chiedere più tasse agli inglesi. I sovranisti sono già all’angolo in Inghilterra, il primo ministro Johnson ha preso tutto il consenso del nazionalista Nigel Farage e lo ha “istituzionalizzato” nelle politiche del suo governo. Ora Johnson ha già messo nel cassetto il tema dell’immigrazione e parla di un Regno Unito aperto al mondo e al commercio. Il sovranismo di Johnson è visibile solo nell’uso sistematico della bandiera: dove parla un leader di partito o governativo c’è sempre l’Union Jack”.

Con la presidenza di Joe Biden cosà cambierà per i rapporti atlantici? Per Londra l’Atlantico si farà più stretto?

“Il Primo Ministro spera che diventi molto più stretto. Bojo aveva provato ad essere un grande amico anche di Donald Trump, ora vuole esserlo sicuramente di Joe Biden. Ma Biden è molto più furbo, teniamo presente che ha radici irlandesi e potrebbe essere interessato a quello che succede nelle terre dei suoi avi. Io sostengo che il destino degli inglesi è di essere comunque europei anche al di fuori dell’Unione. Lo stesso Boris Johnson ha bisogno di una Europa ricca e forte nel futuro, visto che rappresenta un enorme mercato per gli inglesi e un partner economico in ogni caso strategico. Ma in questo momento non apre molto ai suoi “ex partner”. Per esempio, non vuole riconoscere l’ufficio dell’Unione a Londra come una ambasciata vera e propria”.

Il nuovo Presidente del Consiglio italiano è un europeista di primo piano, l’uomo che ha salvato l’eurozona sotto il motto “whatever it takes”. Mario Draghi a Palazzo Chigi che effetto fa a Londra?

“Un grande effetto, ma solo per chi capisce di politica, per la stragrande maggioranza degli inglesi è uno sconosciuto. Mario Draghi è uno dei più importanti leader europei e sarà interessante vedere come i tecnici “coabiteranno” con i politici, un esperimento a cui tutti guardano con favore”.

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