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Tim al bivio: tra raider e Bolloré, sarà public company?

L’assemblea di venerdì 4 maggio di Tim è un punto di svolta. I protagonisti affinano strategie e tattiche. Tra il Fondo Elliott e Vivendi, il ruolo di Cdp come ago della bilancia e aggregatore di Fondi. Di sicuro è finita un’epoca e la sfida sulla rete in fibra, dopo l’ingresso di Open Fiber, non si può più ignorare

Tim al bivio: tra raider e Bolloré, sarà public company?

Sarà public company? L’assemblea Tim di venerdì 4 maggio non arriverà probabilmente fino a tanto ma potrebbe decretare una prima svolta nella governance del gruppo: fuori l’azionista francese, dentro il raider americano. I giochi non sono ancora fatti ma sarebbe già questa una mezza rivoluzione per cambiare le regole di un gioco, seguito alla privatizzazione delle tlc, che ha portato Telecom Italia ai minimi storici e lasciato l’Italia con un ritardo enorme sull’infrastruttura, sulla velocità di Internet, sull’alfabetizzazione digitale del Paese.

Il Fondo Elliott, come si sa, ha rastrellato il 9,9% del gruppo telefonico e reclama posti in consiglio d’amministrazione. Accusa Vivendi di pensare solo ai suoi interessi e non a quelli di tutti i soci, vorrebbe “valorizzare” la rete Telecom (il prezioso ultimo miglio in rame), vendendola e fondendola con Open Fiber. Ciò farebbe nascere una “Terna” della rete in fibra con il compito di proiettare l’Italia nel futuro ravvicinato di un mondo a 100 Giga.

Spazio per due operatori in concorrenza – escluse una decina di città più avanzate – in Italia non c’è e i costi di una doppia rete sarebbero mostruosi come ha spiegato Franco Bassanini in tempi non sospetti in un’intervista lungimirante e premonitrice a FIRSTonline. L’operazione “Terna”, secondo il fondo americano, libererebbe risorse sufficienti per consentire a Tim di avanzare sui servizi core e crescere, distribuendo una remunerazione efficace ai suoi azionisti.

Vivendi, che ha tentato di mascherare il controllo su Tim con la foglia di fico di “un’attività di direzione e coordinamento” poi smontata dalla Consob, accusa a sua volta il Fondo Elliott di, che nel mondo ha agito spesso da fondo avvoltoio, di avere una visione a breve, tutta finanziaria, di puntare a un sostanziale spacchettamento dell’azienda che la impoverirebbe e propone in alternativa una “societarizzazione” della rete da realizzarsi in tempi più lunghi (non meno di un anno e mezzo), conservando il controllo della nuova Netco per poi cederne una quota ma solo di minoranza. Il gruppo francese possiede il 23,9% di Tim.

Fare dialogare i due rivali non è semplice e sebbene sia questo il tentativo dell’amministratore delegato Amos Genish – che minaccia di lasciare il gruppo se il suo piano industriale non sarà sostenuto dai vincitori, quali che siano – rischia di lasciare insoddisfatti gli uni e gli altri.

Fra i due contendenti l’ago della bilancia potrebbe essere la Cdp con il suo 5% circa da mettere sul piatto in assemblea anche per facilitare l’aggregazione del consenso dei Fondi sulla lista Elliott.

E’ vero che la scossa dei raider, che entrano con una quota di minoranza e tentano così di incidere su scelte e governance aziendali, non sempre ha successo. E’ vero pure che le “proxy fight” aggrediscono negli Usa un mercato molto più dinamico di quello italiano. Ma qualche risultato, talvolta, lo ottengono: vedi i casi Nestlé in Svizzera, Ansaldo in Italia e Lactalis ancora a Piazza Affari. E soprattutto, c’è da chiedersi, quale alternativa ha finora garantito il paludato sistema delle scalate a debito che dai “capitani coraggiosi” dell’epoca Colaninno in poi, ha finito per bloccare Telecom Italia, l’ha sommersa di debiti, ne ha ridotto il perimetro e l’ha spinta ad un arrocco difensivo sulla rete che ha rallentato l’evoluzione digitale del Paese. Nell’epoca dell’industria 4.0 abbiamo 7000 aree industriali dove la connessione ultraveloce è un miraggio e chissà se e quando arriverà.

L’assedio a Tim ha un suo perché e lo status quo ha dimostrato di non funzionare. L’arrivo del Fondo Elliott è solo una conseguenza di anni di scelte sbagliate. La strada gliela ha spianata Open Fiber e la scelta del governo Renzi di accorciare il gap digitale dell’Italia. Costi quel che costi.

Per chi avesse dubbi, basta guardarsi intorno: Detsche Telekom tramite T-Mobile ha appena comprato Sprint negli Usa: un’intesa da 26,5 miliardi di dollari che si propone di rivoluzionare le nuove reti wireless e fare avanzare il 5 G in uno dei Paesi tecnologicamente più avanzati del mondo. Se Telecom Italia avesse agganciato quel carro, alleandosi negli anni ‘90 con il colosso tedesco come proponeva l’allora Ad Franco Bernabè, oggi vedremmo un altro film.

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