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Se lo Stato entra nelle imprese, l’imprenditore resta o no?

Con l’intervento dello Stato nelle imprese in difficoltà, le aziende resteranno tali o si trasformeranno in agenzie pubbliche? Chi decide l’allocazione delle risorse? Non dimentichiamoci del New Deal

Se lo Stato entra nelle imprese, l’imprenditore resta o no?

Romano Prodi ha pubblicato di recente un editoriale su Messaggero che descrive i nostri giorni come lontani un’era geologica dall’inizio della pandemia. Afferma che l’intervento dello Stato a sostegno delle imprese e dell’economia, nei decenni precedenti quasi universalmente biasimato, in particolare da Bruxelles, viene ora non solo giustificato, ma richiesto a gran voce. Lo chiedono tutti, i vertici dell’Unione Europea, i governi dei paesi più forti che ne fanno parte, come la Germania e la Francia, fino a Trump, che ora è passato senza alcun argine a un’ideologia di tipo superkeynesiano.

L’Italia, naturalmente, non può non risentire di questo clima. L’intervento dello Stato ci appare necessario. Primo, per sostenere le nostre scassate imprese; secondo, per evitare che i gioielli, che pur rimangono, ci siano sottratti da predatori stranieri. Lo Stato quindi dovrebbe assumere posizioni da azionista di minoranza a salvaguardia della consistenza economica nazionale.

DUE PROBLEMI

Le posizioni di Prodi sono condivisibili; restano però alcuni nodi da sciogliere. Il primo è su quali imprese puntare, visto che non le si può aiutare tutte. Il secondo è chi ha il potere decisorio all’interno di queste imprese.

A salvaguardarne l’indipendenza da predatori stranieri dovrebbe essere sufficiente una golden share, ma il problema è: restano imprese o divengono agenzie pubbliche, sottratte al mercato e inserite in un quadro di prezzi amministrati? C’è, o no, un imprenditore?

In questo caso non intendo l’imprenditore come eroe schumpeteriano, ma come colui che decide l’allocazione delle risorse al massimo livello aziendale: cosa produrre, dove – ci ricordiamo della legge che imponeva alle società pubbliche di destinare il 60% dei loro investimenti al Sud? – con quali risorse e quale capitale umano, su quali mercati puntare e da quali eventualmente ritirarsi. L’imprenditore resta tale o deve negoziare la sua condotta con lo Stato o, addirittura, essere sostituito da pubblici poteri?

All’inizio degli anni Novanta, sul finire della prima Repubblica, ci si chiedeva se l’Eni, costretta da leggi del Parlamento a salvare le attività minerarie dell’Egam e le cosiddette “rovine fumanti della chimica italiana”, non fosse stato trasformato da capofila di aziende in una agenzia per lo sviluppo; nel più puro stile sovietico, in effetti, l’azienda veniva espropriata di poteri decisivi.

L’ESEMPIO DEL NEW DEAL

Considerando l’azione dello Stato, non è possibile evitare il riferimento al New Deal di Franklin Delano Roosevelt; pochi ricordano che, parallelamente ai grandi interventi governativi sulle regole dell’economia e sulle trasformazioni ambientali (come nel caso della Tennessee Valley Authority), le maggiori imprese private americane realizzavano la più profonda riforma organizzativa dalle origini del big business, ovvero il passaggio da una struttura accentrata – basata sulle funzioni aziendali – a una decentrata – basata sulle divisioni (definite per prodotto o area geografica).

Il New Deal, in definitiva, pur definendo un quadro legislativo di garanzia e tutela della public company e dell’azionariato diffuso, lasciava alle imprese private tutte le loro prerogative e la loro autonomia decisionale e operativa.

In forza della trasformazione organizzativa di quegli anni, che ha implicato un vasto coinvolgimento del management nel governo aziendale, la General Motors è diventata la prima impresa americana. Si rivelò un passaggio difficile, realizzato da un grigio manager, Alfred Sloan, un passaggio che Henry Ford, nel suo egocentrismo, non riuscì a compiere, tanto che allo scoppio della Seconda guerra mondiale le proporzioni di mercato fra Ford e General Motors si erano letteralmente rovesciate rispetto all’inizio degli anni Venti (allora Ford aveva il 60% del mercato e General Motors il 20%; nel 1940 era esattamente il contrario).

In definitiva, i problemi posti da Prodi sono del tutto reali. Resta però non risolto il quesito se vogliamo un’economia popolata da imprese oppure delle agenzie pubbliche.

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