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Ripresa illusoria se gli imprenditori non ricapitalizzano: Renzi rispolveri la regoletta di Carli

Se gli imprenditori non fanno la loro parte ricapitalizzando le imprese non c’è da illudersi sulla ripresa – Sempre attuali le prediche di Menichella e di Guido Carli – Quest’ultimo sosteneva che i nuovi investimenti dovrebbero essere finanziati per 1/3 da capitali delle imprese, per un 1/3 da ammortamenti e per 1/3 da debiti ma oggi ci sono solo debiti.

Ripresa illusoria se gli imprenditori non ricapitalizzano: Renzi rispolveri la regoletta di Carli

Chi invoca la riapertura del credito alle imprese e la riduzione del costo del lavoro per dare slancio all’economia italiana si illude di avere trovato le soluzioni necessarie e anche sufficienti per una ripresa stabile e di lungò periodo in discontinuità con il passato.

Per non coltivare pericolose illusioni, si deve sottolineare che se da un lato il fardello nei conti bancari costituito dalle sofferenze dei crediti non rimborsati dalle imprese indebitate, imporrà agli istituti di credito (che sono imprese private che perseguono il profitto e non istituti di servizio pubblico) una più attenta politica nella valutazione del merito di credito delle imprese stesse; dall’altro lato le medesime sofferenze sono la dimostrazione più evidente della gracilità finanziaria delle imprese prenditrici di fondi: troppo esposte nell’indebitamento a breve termine; troppo cariche di capitale di debito anche a medio e lungo termine; troppo poco ricche per effetto di quasi inesistenti apporti del capitale di rischio da parte della proprietà. Con tale struttura del passivo delle imprese la ripresa non può essere che di breve periodo, con effetti nulli sull’occupazione e comunque esposta ad ogni rischio proveniente dall’estero.

Sono problemi assai vecchi e mai risolti che al Governo Renzi, nato all’insegna della discontinuità con il passato, vanno ricordati riportandogli due vecchie prediche che se in passato fossero state ascoltate e seguite avrebbero determinato non soltanto una vera discontinuità con il passato di allora, ma anche contribuito a non lasciare l’economia italiana sul sentiero di bassa crescita che da molti anni l’affligge.

Sono due prediche cui oggi, dopo la tempesta finanziaria, si dovrebbe dare ancora più attenzione che nel passato. La prima predica è di Donato Menichella che nel 1951 – poi ancora nel 958 – scrisse “E’ veramente grave che il più grande gruppo italiano abbia chiesto ai propri azionisti solo pochi soldi, non abbia ottenuto un soldo di finanziamento dall’estero e tutta la sua politica finanziaria sia consistita nell’indebitarsi all’interno con le obbligazioni e verso lo Stato con i prestiti Erp” (…) il pubblico ha dimostrato in questi ultimi tempi un’accentuata propensione all’investimento azionario, cui ha fatto riscontro un volume limitato dell’offerta (…) voci autorevoli si levano per sollecitare le aziende industriali ad aumentare i capitali azionari, vincendo le eventuali remore che discendessero dal timore dei gruppi di comando di vedere scemare la loro influenza relativa”. Come evidente anche per l’oggi, il problema sta nel lato dell’offerta di titoli non sul lato della domanda.

La seconda predica e di Guido Carli che nel 1995 scrisse “nessun progresso è stato compiuto verso la soluzione del problema del finanziamento delle imprese in forme diverse dall’assunzione di debiti; il declino del capitale di rischio è un fenomeno sul quale abbiamo attirato l’attenzione nel corso degli anni (…); venne abbandonata la “regoletta” che in tempi ormai lontani gli amministratori del credito applicavano: i nuovi investimenti si finanziano per un terzo con capitali propri, per un terzo con ammortamenti, per un terzo con debiti. Oggi quella regoletta è stata sostituita da quella seguente: i nuovi investimenti si finanziano per un terzo con debiti, per un terzo con debiti, per un terzo con debiti”. Oggi si riferisce che, secondo le stime della Banca d’Italia, la raccolta di capitale di rischio da parte delle società quotate è scesa al livello minimo degli ultimi dieci anni e l’incremento netto del patrimonio delle imprese si è ridotto da 21 miliardi nel 2011 a tre miliardi nel 2012. Riportare in vigore la “regoletta” èsfida addai ardua sia per le banche che poer le imprese.

Si aggiunga che nel corso della crisi finanziari di questi ann, molti imprenditori ne hanno approfittato per imboccare la via del concordato preventivo che consente agli imprenditori medesimi di liberarsi dei debiti in misura cospicua e di svuotare l’impresa dei suoi pezzi migliori, caso mai per riprendere l’attività di impresa da sostenere con nuovi debiti. Una eccellente discontinuità con il passato sarebbe una legge che salvasse l’impresa e non l’imprenditore incapace e furbetto.

E’ poi ragionevole supporre che, dopo quasi sette anni di crisi finanziaria ed economica, molte imprese abbiano rinunciato agli investimenti di lungo periodo da cui dipende in gran parte la produttività di lungo periodo di tutte le economie. Oggi, è illusorio immaginare che i nuovi investimenti di lungo periodo in innovazione di processo e di prodotto possano essere eseguiti soltanto con capitale di debito e in assenza di capitali propri dell’imprenditore. Passare da “imprese povere e famiglie ricche” che caratterizza il capitalismo italiano ad altro scenario di “imprese ricche e famiglie un po’ meno ricche” sarebbe una vera e propria eccellente discontinuità.

In questo contesto, la pura e semplice riduzione del costo del lavoro attuata per via fiscale rischia di avere soltanto effetti di breve periodo, al pari delle svalutazioni competitive degli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Svalutazioni del cambio che consentirono alle imprese di allora di sopravvivere nei mercati internazionali senza dover procedere alle innovazioni tecnologiche che meglio le avrebbero difese nel lungo periodo, sostenendo una crescita economica e occupazionale duratura.

Infine se, in discontinuità con il passato, si potesse uscire dalla logica infantile e ideologica che porta a sostenere che vi è troppo Welfare in Italia e che ciò rende non competitiva la società italiana e se si volesse analizzare più attentamente il conto economico delle amministrazioni pubbliche, si scorgerebbe che la spesa pubblica destinata ai contributi alla produzione e agli investimenti  supera la cifra di trenta miliardi di Euro, di cui mai nessuno ha valutato l’efficacia in seno alle imprese beneficiarie oppure soltanto assistite dalla spesa pubblica in una sorta di welfare per le imprese. Si potrebbe così trovare lo spazio sia per le norme a favore del capitale di rischio, sia per quelle destinate alla riduzione strutturale del costo del lavoro.

Concludendo. Una eccellente discontinuità sarebbe quella che chiede agli imprenditori la ricapitalizzazione e la ristrutturazione finanziaria delle loro imprese per effettuare investimenti innovativi di prodotto e di processo a fronte della riduzione del costo del lavoro. Si accrescerebbero la produttività del lavoro per unità di capitale investito nell’impresa, la produttività generale dell’economia italiana e con essa l’occupazione duratura e crescente. E’ giunto il, momento che anche che anche l’imprenditoria italiana sia discontinua con il proprio passato.

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