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Riforma Bcc, Corsini: il prezzo della way out non può essere fiscale

Il decreto di riforma delle Bcc va migliorato e reso più europeo – Una volta risolta l’indivisibilità delle riserve, le barriere all’uscita dalla holding unica delle Bcc non possono essere rappresentate da un’ambigua imposta del 20% ma da altri parametri come le dimensioni (totale degli attivi), le strategie di sviluppo, la governance e le modalità organizzative

Continuano vivaci polemiche e si susseguono ipotesi, anche fantasiose, conseguenti all’approvazione del decreto sulla riforma del credito cooperativo. La questione centrale resta quella dell’affrancamento delle riserve in cambio della corresponsione di un’imposta sostitutiva pari al 20% del patrimonio, per evitare l’ingresso nel gruppo bancario cooperativo (cosiddetta way out). Questa possibilità è al momento accessibile a una quindicina di BCC, aventi patrimonio superiore ai 200 milioni di euro, che potrebbero cercare di trasformarsi in società per azioni ovvero cedere in blocco attività e passività ad una banca spa da costituire o già operativa.

Perché ci si augura che questo impianto, basato su uno strumento fiscale per di più di tanta penalizzante portata, venga sostanzialmente modificato nell’iter di conversione in legge del decreto? Semplicemente perché non se ne comprende il fondamento. Da un lato vi sono le critiche di chi sottolinea il vulnus, considerato inaccettabile, ai principi della cooperazione, dall’altro vi è chi osserva che, innalzando una proibitiva barriera all’uscita, si vanifichi di fatto qualsiasi possibilità di scelta diversa dall’adesione al gruppo cooperativo.

Dovrebbe pertanto cadere, in fase di conversione, il riferimento all’affrancamento delle riserve, che, in base all’attuale ordinamento, non possono che rimanere indivisibili, pena modifiche sostanziali dei diritti di proprietà del socio cooperativo, obiettivo che non è certamente tra quelli della riforma. Ripristinata la indivisibilità delle riserve, le correzioni dovrebbero riguardare la dimensione della menzionata imposta.

Questo punto si ricollega alla non condivisibile motivazione dell’imposta stessa, come emerge dalle dichiarazioni di chi se ne è fatto promotore presso il governo (da Il Corriere della Sera 15/2/2016 “Così ho modificato la riforma delle BCC”, intervista di Dario Divico all’economista Nicola Rossi).

Secondo questa visione, l’imposta si renderebbe necessaria per evitare un vantaggio competitivo a quelle banche che, avendone i requisiti, vogliano lasciare la veste di cooperativa di credito, per una configurazione profit, entrando in un nuovo regime fiscale rispetto a quello, più favorevole, finora goduto.

Sfugge perché si dovrebbe far uso di uno strumento fiscale che agirebbe sul pregresso regime, dato che questo favor non rappresenta un’elargizione dello Stato alla Cooperazione, quanto una forma di compensazione delle minori possibilità di accumulazione del capitale consentite all’impresa cooperativa, limitandone la propensione al rischio e, di conseguenza, l’accesso alle opportunità di massimizzazione del profitto.

Questi connotati, per tutte le cooperative rappresentati dalla non contendibilità del capitale (le riserve sono indivisibili in quanto di pertinenza della cooperazione), dai limiti alla distribuzione degli utili e all’accesso al mercato dei capitali, sono ancora più visibili nel mondo del credito, stanti le regole di vigilanza ancor più restrittive cui le BCC sono soggette rispetto ad altre tipologie di banche (casse di risparmio, fino a quando rimaste in vita, banche popolari, banche spa).

Basti pensare ai limiti all’operatività con non soci e alla competenza territoriale, ai vincoli sull’assunzione di partecipazioni e sulla concentrazione dei rischi. Se questo bilanciamento è nel tempo riuscito, non si vede perché oggi quei vantaggi dovrebbero essere penalizzati, restituendone buona parte, dato che, banalmente, non potrebbero essere ripristinate, a ritroso, le condizioni per un diverso binomio rischio/rendimento; e ciò, tra l’altro, proprio a carico di chi ha saputo svolgere meglio di altri il compito di competere con il mondo profit, accumulando più di 200 milioni di patrimonio. La macchina del tempo cooperativo non è stata ancora inventata e rinunciare per questi motivi alla way out non sarebbe certamente una condizione di ottimo.

D’altro canto, il percorso attraverso il conferimento di attività (con la cooperativa di origine che rimane controllante del nuovo soggetto bancario e i propri soci che rimangono nella stessa posizione primigenia, salvo il diverso oggetto della società) è stato seguito con successo da molte cooperative di produzione e di consumo, anche per creare soggetti finanziari controllati, senza che nessuno abbia mai sollevato questioni di concorrenza e chiesto di restituire all’erario somme calcolate secondo il precedente regime fiscale.

La parità concorrenziale si ha con uguali regole di massimizzazione del profitto e di accumulazione del capitale e non intervenendo su situazioni antecedenti alla trasformazione societaria.

In buona sostanza, non può essere una fiscalità ambigua nei fini ed esasperata nella misura a gestire le eccezioni. E ciò senza nulla dire dell’impatto sui requisiti patrimoniali che sono richiesti ad una banca dalle regole di vigilanza; essa si vedrebbe impegnata a recuperare la riduzione del patrimonio così prodotta, assumendo rischi in misura maggiore di qualsiasi altra banca nata fin dall’origine come società per azioni.

Si potrebbe al massimo esaminare la possibilità di agire sull’imposta di registro che attualmente grava su ogni soggetto conferitario nella misura del 3% del patrimonio risultante dalla differenza tra attività e passività acquisite. Questa imposta potrebbe, in via straordinaria, essere aumentata di qualche punto, diciamo fino ad un 5/6 per cento.

Ma non si coglierebbe ancora il punto vero della questione.

Le barriere all’uscita dalla configurazione basata sul patto di coesione, voluto dal decreto per irrobustire i fragili connotati della cooperazione bancaria in Italia, debbono essere di altra natura. Quali condizioni necessarie possono senza dubbio essere stabiliti per legge criteri dimensionali (patrimonio, ma ancor meglio totale degli attivi), ma questi potranno difficilmente essere considerati anche condizioni sufficienti.

Come abbiamo già sostenuto su questo giornale, dette condizioni debbono essere frutto di un progetto che dimostri che le eccezioni rispetto all’adesione al gruppo cooperativo portino indubitabilmente a situazioni finanziariamente più solide.

L’ effort dimostrativo di chi vorrà tentare altre strade dovrà fondarsi su strategie di sviluppo coerenti e sostenibili, capacità di rinnovamento della Governance, modalità organizzative di gestione del business e della macchina operativa. Difficilmente questo percorso potrà essere appannaggio di casi individuali, quanto piuttosto scaturire da soluzioni aggregative, dalle quali emergano indubitabilmente vantaggi in termini di efficienza allocativa e operativa.

Non dovrà essere trascurata la capacità di promuovere investimenti in tecnologia, vera condizione per incidere sulla redditività delle gestioni bancarie.

L’argomento, pressoché ignorato in ogni confronto sui rimedi alla condizione di arretratezza di buona parte del sistema bancario italiano, assume rilevanza anche per il rilancio delle BCC. E dovrà essere la Banca d’Italia, quale autorità nazionale di vigilanza sul banking minore, a interpretare queste situazioni, selezionando con criteri di severità quelle veramente virtuose.

Progetti per rinnovare il credito e i servizi a favore del territorio e progetti d’ordine tecnologico per assistere adeguatamente questo processo di ammodernamento sono i due pilastri portanti per una via autonoma rispetto alla integrazione nel gruppo cooperativo, tuttora privo di un vero e proprio programma di rinnovamento industriale.

Pochi sono in verità i soggetti che possono dare corpo a questo binomio ed essere quindi in grado di meritare autonome vie d’uscita.

Non sono questi i temi di cui si deve occupare un decreto legge, ma compiere passi irreversibili che limitino oltre ogni misura i gradi di libertà potrebbe danneggiare proprio coloro che hanno creato modelli di impresa bancaria cooperativa caratterizzati da visibili parametri di efficienza, per di più non sempre allineandosi agli indirizzi del movimento.

Agli interventi d’ordine legislativo si deve invece chiedere di essere attenti a che le peculiarità delle nostre riforme non ci allontanino troppo dal banking cooperativo europeo, che in molti paesi appare in questa fase propenso a interventi di razionalizzazione meno complessi di quelli che, con il gruppo cooperativo e il contratto di coesione, si stanno allestendo per il sistema delle BCC italiane.

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