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Referendum Jobs Act: l’astensionismo non è disinteresse ma civile rifiuto di un quesito farlocco e retrò

Il referendum sul Jobs Act promette il reintegro dei lavoratori nel caso di licenziamenti ingiustificati ma se vincesse il Sì il risultato paradossale sarebbe la riduzione dei mesi di risarcimento dei licenziati. Rispetto a dieci anni l’emergenza del mercato del lavoro non è più quella dei licenziamenti (oggi le aziende faticano a trovare personale) ma quella dei salari italiani troppo bassi. Ecco perché l’astensionismo di fronte a quesiti referendari sul lavoro fallaci non è una bizzarria o un segno di apatia ma una scelta ragionata e di dissenso civile

Referendum Jobs Act: l’astensionismo non è  disinteresse ma civile rifiuto di un quesito farlocco e retrò

Curiosamente, ma non del tutto, gli ultimi giorni della campagna elettorale per i referendum abrogativi di domenica 8 giugno e di lunedì 9 non si sono concentrati sul merito delle questioni in campo e sulle domande alla base della consultazione popolare ma sul posizionamento degli elettori, con particolare enfasi sull’opzione dell’astensione. Curioso, si diceva, ma non del tutto perché la vera posta in gioco non è tanto l’abrogazione o no di questa o quella norma sottoposta a referendum ma il raggiungimento del quorum del 50% più uno degli elettori partecipanti al voto, senza il quale la consultazione non avrebbe valore. Salvo rare eccezioni, come quelli sul divorzio o sull’aborto, sul nucleare o sull’acqua pubblica, i referendum degli ultimi cinquant’anni non hanno quasi mai raggiunto il quorum, un po’ per la complessità dei quesiti e un po’ perché il quorum è alto e perciò difficile da centrare. Ecco perché, prima ancora che sul merito del referendum, la sorte della consultazione si gioca sulla partecipazione o sull’astensione dal voto. Questione cruciale soprattutto nel più politico dei referendum dell’8 e 9 giugno, quello sul Jobs Act, e cioè su una parte delle complesse norme sui licenziamenti ingiustificati e sulle difese dei lavoratori introdotte nel 2016 dal Governo Renzi per modernizzare il mercato del lavoro e poi in parte modificate sia dalla Corte costituzionale che da un nuovo decreto del Governo Conte 1.

Col Jobs Act l’occupazione è cresciuta e la precarietà si è ridotta: lo dicono i dati Istat

Come la destra di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, la Cgil di Maurizio Landini ha sempre visto come il fumo negli occhi il Jobs Act (termine ereditato dalle politiche sul lavoro del Presidente americano Barack Obama e poi copiate in Francia dal Presidente Emmanuel Macron) e lo ha ferocemente combattuto malgrado fosse stato varato da un Governo a guida Pd. Per i promotori del referendum il Jobs Act è sinonimo di precarietà e di licenziamenti. Ma i dati dell’Istat raccontano altro e certificano che la flessibilizzazione regolata del mercato del lavoro introdotta dal Jobs Act non solo non ha distrutto posti di lavoro in Italia ma da allora ha contribuito ad aumentare l’occupazione di 1 milione e 100 mila unità. Ma l’Istat dice anche la precarietà del lavoro non solo non è cresciuta col Jobs Act ma è diminuita, come testimonia l’aumento dei contratti a tempo indeterminato. In terzo luogo in Italia il tasso di licenziamenti è il più basso degli ultimi vent’anni. Basterebbero queste tre considerazioni, basate su dati oggettivi, a rilevare che il referendum sul Jobs Act è un referendum farlocco, ma c’è un’altra ragione, non meno fondamentale, a renderlo del tutto incongruo e mistificante. Se infatti vincesse il Sì al referendum sui licenziamenti, non si abolirebbe affatto il Jobs Act, che in realtà non esiste già più per le modifiche intervenute nel corso degli anni, ma solo un decreto attuativo su 8 con il bel risultato non di tornare al mitico articolo 18 sull’obbligo di reintegro di fronte ai licenziamenti ingiustificati ma di tornare alla legge Monti-Fornero del 2012 che peggiora le tutele dei lavoratori abbassando da 36 a 24 mesi i risarcimenti a tutela dei lavoratori. Ecco perché il referendum sul Jobs Act – a differenza di quello sulla cittadinanza – è fallace.

Il referendum sul Jobs Act guarda al passato ma oggi l’emergenza è quella dei salari

Ma il referendum sul Jobs Act è anche retrò. Perché retrò? Perché in dieci anni il mercato del lavoro è cambiato anche in Italia e perché l’emergenza di oggi non è quella dei licenziamenti ma quella esattamente opposta e cioè la difficoltà per le aziende, sia nell’industria che nei servizi, di trovare personale. La nostra classe politica e la dirigenza sindacale apriranno prima o poi gli occhi di fronte all’esodo dei talenti e all’espatrio dei giovani più qualificati, che già oggi in Italia rende l’entità dell’emigrazione superiore a quella dell’immigrazione? Per non dire dell’altra emergenza, denunciata anche dal Presidenza della Repubblica, Sergio Mattarella, che è quella retributiva con salari – che certamente dipendono dalla bassa produttività e dalla bassa crescita economica – che sono non solo inadeguati ma più bassi della media europea per la fasce più deboli del mondo del lavoro ma anche per i lavoratori più qualificati. Che l’inadeguatezza dei salari italiani interessi poco la classe politica è grave, ma che i sindacati si occupino più di referendum che di una grande battaglia per il miglioramento dei salari non è solo grave, ma è imperdonabile.

Ecco, allora, perché di fronte a un referendum farlocco e retrò come quello sul Jobs Act astenersi è l’esatto contrario del disinteresse e dell’apatia ma è una civile e ragionata forma di dissenso e di rifiuto di quesiti incongrui di una consultazione che non affronta nemmeno da lontano i problemi centrali del mondo del lavoro e di un Paese come l’Italia che non ha bisogno di guardare la realtà dallo specchietto retrovisore ma di affrontare a viso aperto le grandi sfide epocali che ha davanti a sè.

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