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RdC, l’insostenibile stretta su stranieri e divorziati

Se diventeranno legge gli emendamenti presentati dalla Lega sul reddito di cittadinanza al Senato sarà molto complicato per gli stranieri extracomunitari e per i divorziati ricevere il sussidio ma così il caso Lodi diventa il triste caso Italia

RdC, l’insostenibile stretta su stranieri e divorziati

Ci risiamo. Questa maggioranza non rinuncia a perseguitare gli stranieri, in violazione non solo delle regole del vivere civile, ma anche delle norme di legge. E nel caso in esame non si tratta degli “invasori” che arrivano sulle bagnarole attraverso il Mediterraneo, ma di coloro che sono regolarmente residenti in Italia e vivono in condizioni di disagio. Non si dimentichi mai che quando, da noi, si parla di 5 milioni di poveri, si è soliti non precisare che vi sono inclusi – nei gironi più bassi – 1,5 milioni di stranieri Ue ed extra Ue. Veniamo al punto.

In Commissione Lavoro del Senato è in corso l’esame (già in fase di emendamenti) del decreto legge n.4/2019 (AS 1018) recante le misure relative al reddito di cittadinanza (RdC) e alle pensioni (quota 100 e dintorni). Inizialmente, la maggioranza giallo-verde intendeva riconoscere il RdC soltanto agli italiani. Quando si è resa conto che gli stranieri – sia comunitari che extracomunitari con permesso di soggiorno di lunga durata – non potevano essere discriminati sia in base alle leggi che ad una giurisprudenza consolidata (anche di rango costituzionale), la maggioranza ha dovuto fare un’inversione di marcia, inserendo il requisito dei dieci anni di residenza, di cui gli ultimi due continuativi, a questo punto, però, dovendolo applicare pure agli italiani.

Così, anche un cittadino italiano immigrato che, ad esempio, rientrasse dal Venezuela povero in canna, non avrebbe diritto al reddito di cittadinanza. Il livore del “prima gli italiani” non si è placato: in Commissione, sono state previste regole più severe per gli stranieri che intendono fare domanda per il reddito di cittadinanza. La Lega ha fatto approvare una norma in forza della quale gli stranieri extracomunitari che richiedono l’accesso al reddito di cittadinanza dovranno presentare una certificazione di reddito e patrimonio del nucleo familiare rilasciata dallo Stato di provenienza, tradotta in italiano e legalizzata dall’Autorità consolare italiana.

Le nuove regole non valgono (bontà loro) per i rifugiati politici e per gli stranieri che provengono da Paesi dai quali non è possibile ottenere la documentazione richiesta. Nei prossimi tre mesi, il ministero del Lavoro stilerà una lista dei suddetti Paesi. Così, gli immigrati che fossero interessati a chiedere il reddito di cittadinanza dovranno attendere – ulteriore cattiveria – il varo di tale elenco prima di presentare la relativa domanda. Se la cosa non fosse grave, presenterebbe dei tratti paradossali.

Come si farà a stabilire quali Paesi, tra i tanti di provenienza degli stranieri residenti nel territorio nazionale, non sono in grado di rilasciare la certificazione? Si manderanno degli ispettori in giro per il mondo a verificare la funzionalità delle amministrazioni, delle anagrafi, dei catasti e degli archivi fiscali locali? Poi si pubblicherà una guida con tanto di stelle a fianco di ogni Stato, in base alla (in)efficienza riscontrata? Ovviamente, dicono i presentatori dell’emendamento, per gli stranieri non basta la certificazione Isee richiesta agli italiani: sappiamo bene che questi scrocconi nascondono in patria ingenti capitali mobiliari ed immobiliari e vengono qui a cercare la pacchia!

E le badanti? Arrivano da noi soltanto per circuire il nonno e farsi sposare (venne varata, nella XVI legislatura, addirittura una norma in una legge di bilancio per contrastare matrimoni; la disposizione venne, in seguito, dichiarata incostituzionale su istanza di una signora italiana, che era rimasta vedova di una persona molto più anziana di lei).

A pensarci bene, la ratio della norma sul surplus di certificazione a carico degli stranieri non comunitari è la medesima che sollevò tanto scalpore mesi or sono in seguito ad una delibera del Comune di Lodi (sindaco la leghista Sara Casanova) per quanto riguardava le rette agevolate della mensa scolastica e dei servizi di scuolabus per i bambini stranieri. Il caso scoppiò nell’autunno scorso e fece il giro del mondo (ne scrisse pure il Guardian). Un nuovo regolamento stabiliva che, in aggiunta all’Isee, ai genitori stranieri fossero richieste anche le certificazioni che dimostrassero che non possedevano case, conti correnti e auto nel loro Paese di origine.

Documenti da recuperare in originale e per i quali non valeva l’autocertificazione; quindi molto difficili da reperire, soprattutto in alcuni Stati africani e sudamericani. Quei servizi divennero così inaccessibili a oltre 200 bambini figli di extracomunitari. Si mobilitò l’opinione pubblica, furono organizzate raccolte di fondi e soprattutto venne presentato un ricorso alla magistratura che accolse quel ricorso considerando discriminatoria la delibera. Le forze politiche della maggioranza si divisero.

Il caso Lodi fu giudicato un esempio da seguire per la componente leghista, una stortura per i Cinque stelle. Da una parte Matteo Salvini, parlava di una «norma antifurbetti», dall’altra, Luigi Di Maio affermava: «Questo Stato sarà sempre dalla parte dei bambini». Lo seguiva il presidente della Camera, Roberto Fico: «Chi crea discriminazioni chieda scusa». Se l’emendamento resterà a far parte del decreto convertito in legge, il caso Lodi diventerà un caso Italia (nonostante la foglia di fico dell’esonero degli ‘’Stati canaglia’’).

Un’altra modifica è rivolta a scongiurare il ricorso ai divorzi “truffa”, ovvero quelli che, per la data in cui sono avvenuti, possono far supporre che fossero finalizzati alla riscossione del RdC. La proposta approvata in Commissione al Senato prevede, infatti, che, se due coniugi si separano o divorziano dopo il primo settembre 2018, per poter accedere al reddito di cittadinanza dovranno certificare di non risiedere più nella stessa casa con “apposito verbale della polizia municipale”. I vigili urbani eseguiranno dunque controlli molto scrupolosi per verificare se gli ex coniugi dicono la verità oppure no.

Ad avviso di chi scrive la procedura sfiora il ridicolo. Pensare al vigile urbano che si reca al domicilio del divorziato (o della divorziata) la mattina presto, ispezionando con cura gli armadi e guardando se qualcuno si nasconde sotto il letto, è un caso che farebbe la sua figura in una pochade. Che a due cittadini sia proibito di “fare i separati in casa” appartiene al novero delle regole assurdamente dirigistiche della disciplina prevista per il RdC. Non si è mai visto che due ex coniugi – memori dell’antica passione – siano costretti a consumare una notte d’amore in albergo, per non correre il rischio di essere sorpresi, a domicilio, da un vigile, il quale non suona sempre due volte come il postino. Un atto d’amore tra due adulti consenzienti potrebbe costare loro la galera.

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