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Perché Google fa tanta paura ai tedeschi: è la raccolta dati che ricorda una storia tragica

Google sembra diventato il nemico numero uno della Germania: la raccolta dati del motore di ricerca tocca nel profondo la sensibilità dei tedeschi che ricordano le pagine più tragiche della loro storia, dalla caccia agli ebrei alla Stasi – Ma la strategia europea verso le novità della Silicon Valley deve essere più lungimirante

Perché Google fa tanta paura ai tedeschi: è la raccolta dati che ricorda una storia tragica

Caccia alla volpe

In Europa è tornata la caccia alla volpe. Ci sono battute ogni giorno e se ne annunciano d’ancor più efficaci. La volpe è giovane, astuta e corre veloce, si chiama Google. I parrucconi europei sono determinati a toglierla di mezzo dai loro territori. La Germania è alla testa di questo poco edificante plotone di cacciatori. C’è una ragione che non è così banale come sembra: non si tratta solo di protezionismo economico, dietro ci sono ragioni legate alla storia dei tedeschi e dei popoli europei che i nerd di Google, figli dei baby boomer e cresciuti in una democrazia piena, non riescono non solo a comprendere, ma neppure ad afferrare nella loro essenzialità.

Google sembra essere diventato il pericolo pubblico numero uno dei tedeschi, molto più temuto di Putin e del suo gas. La vicenda Snowden/Prism ha fortemente acuito il sentimento negativo degli europei e in particolare dei tedeschi, per via anche delle intercettazioni dello smartphone della Merkel, nei confronti dei gruppi tecnologici della Silicon Valley e della loro cultura à la John Wayne, fra l’altro un attore molto amato in Europa.

Se solo Google conoscesse la storia…

Un episodio della storia europea basterebbe per tutti a dimostrare quanto le informazioni raccolte a fini puramente statistici o anagrafici possano indirettamente nuocere alle persone in particolari circostanze storiche non prevedibili al momento della raccolta dei dati.

L’accurata anagrafe tenuta dal governo olandese, costituì la fonte dei nazisti per organizzare la deportazione e lo sterminio degli ebrei olandesi e così l’Olanda pagò un tributo altissimo alla shoah: dei 140mila ebrei censiti nel Paese nel 1941, 105mila furono deportati e solo 5mila sopravvissero ai campi nazisti.

Dell’intera popolazione ebraica olandese solo il 27% sopravvisse all’Olocausto. Nel vicino Belgio si salvò il 60% della popolazione ebraica e in Francia il 75%. L’eccellente ed efficiente organizzazione delle informazioni e la deferenza della popolazione verso l’autorità costituita sembrano essere le cause maggiori dell’enorme sacrificio di vite umane patito dall’Olanda. Ecco che dietro questa sensibilità europea nei confronti dei dati c’è qualcosa di molto più profondo del semplice concetto di privacy; c’è una storia tragica.

La paura dei dati

Il mass-mediologo tedesco Alexander Pschera in un recente saggio, Dataismo, tradotto anche in italiano, scrive: “Il nostro rapporto con i dati, che ha assorbito il mondo della politica, della medicina e della cultura, è profondamente governato dalla paura”. La paura appunto, Angst. Secondo lo studioso tedesco per via della paura gli europei non riescono a vedere “ll guadagno produttivo che può derivare per la nostra società dalla racconta e dall’analisi dei dati”. Solo delle scelte etiche sui dati, da parte dei loro custodi, possono dissipare questo sentimento negativo. Ma un atteggiamento etico ancora non si vede nonostante che il motto di Google sia “Don’t be evil” e tra i giovani imprenditori della Silicon Valley abbondino le dichiarazioni che più del business sta a cuore “rendere il mondo un posto migliore”.

C’è poi la questione, ancor più seria, del tracciamento e della classificazione da parte di Google dei comportamenti di navigazione e di acquisto degli utenti, a loro parziale insaputa. La raccolta di dati e il loro utilizzo a scopi pubblicitari è addirittura il più importante modello di business di Google. Si tratta di una schedatura, in linea di principio, non proprio così dissimile da quella effettuata dalla STASI, con metodi più primitivi ma altrettanto efficaci, nei confronti di alcuni cittadini nell’ex-DDR. Questo tipo di spionaggio, praticato anche nei Paesi oltre la cortina di ferro durante la guerra fredda, ha portato alla discriminazione, emarginazione e prevaricazione di milioni di cittadini europei. Un fenomeno che, a parte il maccartismo, gli Stati Uniti hanno conosciuto in forma attenuata.

La questione del tracciamento

Tutto il contendere sul tracciamento è intorno a una checkbox che adesso, per default, è impostata su “Track me”, quando invece dovrebbe essere su “Do not track me”. Se Google spostasse la spunta su quest’ultima opzione per farne il default, tutto questo chiasso finirebbe senza troppi danni per il business di Google. Se correttamente comunicata ed efficacemente pubblicizzata, moltissimi utenti sceglierebbero spontaneamente l’opzione del tracciamento per due motivi molto semplici.

a) Considerano il tracciamento una sorta di necessaria compensazione per garantire un servizio gratuito a un buon livello di qualità. Sostanzialmente si fidano di Google, e pensano che le informazioni che può raccogliere con il tracciamento siano, in ultima analisi, di natura commerciale e tali da non produrre un danno significativo alle loro persone. L’equazione è: gratuito > tracciamento.

b)  Il tracciamento è alla base di un servizio importante per reperire informazioni più accurate, compiere scelte più vantaggiose e risparmiare tempo ed energie. E, in effetti, è proprio così e con il passar del tempo questi servizi miglioreranno sempre più fino a diventare indispensabili per il cliente. In questo caso l’equazione è servizio > disagio.Chi dà più valore alla privacy o è particolarmente sensibile al tema del controllo sociale, mantenendo l’opzione di default, impostata su “Do not track me” potrà tornare ad usare Google, la cosa migliore del web, senza paura di essere spiato o di vedere i propri dati personali venduti al miglior offerente.

Se i tedeschi non fossero così angosciati

A Berlino Sigmar Gabriel, vice cancelliere e ministro socialdemocratico dell’economia – anch’egli proveniente come la Merkel dall’ex DDR –, ha dichiarato che il governo federale sta considerando la proposta di dichiarare Google un servizio di pubblica utilità, come la distribuzione dell’acqua, e quindi di sottometterlo a una stretta regolamentazione che tuteli l’interesse pubblico.

Pubblica utilità è l’espressione che ha usato Obama per sostenere il concetto di neutralità della rete, con la differenza, però, che Google non è l’infrastruttura della rete. C’è dell’eccessivo nella posizione tedesca. Si sa inoltre che esiste un rapporto della Commissione europea per separare il motore di ricerca dalle altre attività commerciali di Google su cui potrebbe esprimere il Parlamento europeo con un voto che si preannuncia favorevole alla proposta.

A capo del movimento antiGoogle c’è il boss di una dei più potenti gruppi di pressione europei con un’enorme influenza sull’opinione pubblica tedesca: Mathias Döpfner, CEO e Presidente del gruppo editoriale Axel Springer. Recentemente il gruppo di Berlino è riuscito a condizionare il governo tedesco nella scelta del Presidente della Commissione europea indirizzandolo verso Jean-Claude Juncker che è notoriamente un falco nei confronti della SIlicon Valley. I tedeschi si sono presi anche il Commissario europeo all’economia digitale così da poter pesare in modo decisivo sulle decisioni dell’Unione europea in queste materie.

Le intenzioni di Döpfner sono anche encomiabili: vuol difendere lo spazio di mercato europeo dal totale asservimento ai gruppi della Silicon Valley che hanno un vantaggio quasi incolmabile sui concorrenti europei. Viene da chiedersi, però, se questo proposito sia eseguito nel modo giusto o se invece la strategia di brutale contenimento condotta con leggi e regolamentazioni di tipo protezionistico danneggi alla fine proprio l’industria europea dei media e della tecnologia.Per il momento il campione tecnologico europeo del web è Rocket Internet una specie di aggregatore che replica nei paesi a forte divario digitale i servizi clonati da quelli inventati nella Silicon Valley. Piuttosto deprimente!

Ma anche volendo essere benigni con le strategie dei grandi gruppi media tedeschi ed europei viene da domandarsi se esista davvero la consapevolezza di quello che sta succedendo nel passaggio dai mass media ai personal media? Non è che si sta difendendo una rendita di posizione? Il Parlamento europeo può spezzare Google perché danneggia i giornali e l’informazione organizzata, come non si stanca di ripetere Döpfner; il Bundestag può decretare per legge l’ancillary copyright, subito definita la Google Tax, in vigore in Germania dall’Agosto 2013; ma che cosa si può fare contro un fenomeno ancor più profondo e spontaneo come i social media dove sono le persone stesse a creare i e raccomandare i contenuti, i film, le canzoni, i libri e gli articoli? Altro che Google News!

Dopo Google, c’è Facebook, dopo Facebook, c’è …

Annullata la presunta minaccia di Google, ecco che c’è subito un’altra ancor più insidiosa. Negli Stati Uniti il 30% dei lettori di notizie e di articoli atterrano sui siti d’informazione grazie alle segnalazioni che Facebook elabora direttamente attraverso Facebook’s News Feed o tramite i meccanismi sociali. Che si fa in questo caso? Si scorpora il servizio di feed? Non accade che, semplicemente, Facebook, al pari di Twitter e Google, sta facendo bene il suo lavoro e che il servizio alla fine giova anche ai giornali. Le grandi testate americane stanno parlando con Facebook per migliorare il servizio di feed, non con il governo americano per regolarlo o limitarne le funzionalità.

È chiaro che la strategia dell’Europa verso i gruppi della Silicon Valley deve essere diversa: prima di tutto è tardiva e differita rispetto agli sviluppi reali e soprattutto tende a considerare queste realtà non come una risorsa ma come una minaccia.

Tra le grandi nazioni dell’Europa continentale sembra esserci un unico governo che comprende i meccanismi dell’innovazione operata sul web dalle grandi società tecnologiche della Silicon Valley. Questo governo è il governo italiano. Il suo giovane premier è un utente quotidiano e seriale dei social media che conosce a fondo, ha parole di elogio per servizi come Uber, è abbonato a Prime di Amazon e non manca di farsi un giro, l’ultimo da primo ministro, nella Silicon Valley. Sa che l’approccio tedesco è deleterio per la stessa Europa. Speriamo che la tranquillità italiana prevalga sulla German Angst come mood degli europei nei confronti della Silicon Valley, il motore di un cambiamento non violento e globale. A patto, però, che i nerd di Google & Co. assimilino la storia europea e mettano in atto comportamenti conseguenti.

Per un’opinione differente è interessante quest’apologia del punto di vista tedesco. Proponiamo di seguito la traduzione italiana dell’articolo di Anna Sauerbrey, opinionista del “Tagenspiegel”, dal titolo “Why Germans are afraid of Google” pubblicato sulla pagina op-ed del “New York Times”.


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