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Per cambiare l’economia, 100 miliardi: ecco dove prenderli

Il ” XII Rapporto sull’Economia Italiana”, presentato a Roma, analizza l’impatto della guerra dei dazi e scandaglia settori come l’occupazione, le tax expenditures e le pensioni. Guardando alle previsioni al 2022, la ricetta per il cambiamento è chiara: prima occorre individuare dove tagliare le spese e solo dopo dove spendere i soldi pubblici. Con alcune indicazioni precise. Bocciata la flat tax

Per cambiare l’economia, 100 miliardi: ecco dove prenderli

Questo nostro XII Rapporto sull’economia italiana presenta, nella prima parte, cinque Analisi e, nella seconda parte, le Previsioni per gli anni 2018-2022, a partire dalla Previsione Base Tendenziale a Legislazione Vigente (che per legge prevede l’aumento dell’Iva e delle accise nel 2019 e nel 2020).

Quest’ultima viene poi confrontata con le varie proposte di politica economica dei maggiori partiti per valutare i loro effetti sull’economia e la finanza pubblica italiane. Infine, attraverso una analisi puntuale delle varie voci di spesa pubblica, il Centro Studi Economia Reale individua una quantità “forte e strutturale” di risorse da destinare alla copertura delle maggiori proposte dei partiti oppure ad una specifica proposta del nostro stesso Centro Studi.

CRESCITA ECONOMICA E COMMERCIO MONDIALE

Nella prima Analisi si tenta di quantificare gli effetti che si potrebbero produrre sulla nostra economia a seguito di un rallentamento del commercio mondiale come possibile risultato di una più o meno forte e prolungata “guerra dei dazi”. Se il commercio mondiale dovesse passare dal 4% annuo della precedenti previsioni di crescita al 2% si determinerebbe un effetto di frenata sulla crescita italiana pari al -0,4% già nel 2019 con effetti sul periodo 2019-2022 pari al -1,6% sulla nostra crescita cumulata nei quattro anni. Questa frenata andrebbe a determinare un rilevante effetto negativo sulla nostra crescita tendenziale a legislazione vigente che si porterebbe ad appena qualche decimale sopra lo zero.

Una seconda Analisi è volta a misurare l’effetto di una eventuale uscita dall’euro sull’ammontare di interessi sul debito pubblico che dovremmo pagare in più. Dalle nostre pur grossolane stime risulta che con la eventuale uscita dovremmo pagare 66 miliardi di euro in più.

La terza Analisi tenta di spiegare perché l’aumento dell’occupazione degli ultimi anni non si è pienamente riflesso sull’andamento dei consumi. Ciò appare in gran parte dovuto alla tipologia ed alla precarietà dei posti di lavoro che si sono creati.

Il quarto tema di Analisi riguarda un esame delle Tax-Expenditures dal quale emerge che, a fronte dei 161 miliardi contabilizzati dal Mef, soltanto 40 miliardi sembrerebbero effettivamente eliminabili.

Infine, nella quinta Analisi si propone un confronto tra metodo retributivo e metodo contributivo nel sistema pensionistico italiano cercando di capire e di quantificare chi e quanto guadagna con una pensione retributiva rispetto ai versamenti contributivi effettuati durante la vita lavorativa.

LE PREVISIONI PER IL 2018-2022….

La seconda parte del Rapporto è riferita alle Previsioni 2018-2022. Il benchmark di riferimento è rappresentato dalla Previsione Base a Legislazione Vigente. Era intenzione confrontare questa’ultima con quella che formulata con analoghi criteri di legislazione vigente nel Def che avrebbe dovuto essere reso noto il 10 aprile scorso ed inviato alla Commissione Europea entro il 30 Aprile prossimo.

Ad oggi il Def non è disponibile e pertanto questo confronto sarà presentato nelle prossime settimane non appena il documento sarà reso noto. La Previsione a Legislazione Vigente, a seguito dello scatto delle clausole di salvaguardia, indicherebbe una frenata preoccupante nella crescita italiana dei prossimi anni che sarebbe per di più ulteriormente compressa a seguito di un eventuale rallentamento del commercio mondiale.

Di conseguenza l’andamento dell’occupazione sarebbe del tutto insoddisfacente e le nostre condizioni di finanza pubblica, nonostante l’ipotizzato aumento dell’Iva e delle accise, rimarrebbero fragili. Il deficit pubblico non si azzererebbe neanche al 2022, il Debito Pubblico continuerebbe a crescere in valore assoluto fino a 2343 miliardi di euro ed il suo rapporto con il Pil si ridurrebbe a fine periodo al 120%, prevalentemente come effetto dell’aumento del Pil Nominale conseguente alla maggiore inflazione dovuta all’aumento dell’Iva e delle accise.

.…E LE PROPOSTE AVANZATE DAI PARTITI

Presentiamo poi tutte le altre simulazioni relative alla diverse proposte di Politica economica dei maggiori partiti e, per misurarne gli effetti, le poniamo a confronto con la Previsione Base Tendenziale che, come detto, rappresenta il bechmark di riferimento, cioè il punto di partenza … a bocce ferme.

Come si vede più analiticamente nel testo del Rapporto, tutte queste ipotesi tendono a dare un qualche sostegno alla crescita ed all’occupazione nel primo anno di applicazione, ma tale impulso si mostra in esaurimento progressivo dal terzo al quarto anno della simulazione. Con esclusione delle proposte del PD che risultano essere quelle quantitativamente più contenute e per questo meno in grado di modificare il profilo tendenziale a legislazione vigente, tutte le altre provocherebbero un superamento del 3% di deficit pubblico ed un profilo di aumento del debito pubblico in valore assoluto con un riduzione molto limitata del suo rapporto con il Pil.

Per queste ragioni, proponiamo una “inversione dell’ordine dei fattori” che, come noto, in matematica non cambia il risultato ma in economia ed in politica economica porta a conseguenze notevolmente diverse. Il confronto politico è infatti quasi esclusivamente condotto in termini di provvedimenti di riduzioni di tasse ed aumenti di spesa pubblica con incerti e vaghi riferimenti alle necessarie coperture.

ECCO DOVE TROVARE LE COPERTURE

Al contrario in questo nostro Rapporto proponiamo di definire “prima” dove prendere le risorse e “poi” dove andare ad utilizzarle. Dalla nostra rapida ma puntuale “spending review” emergono tre specifiche voci di copertura che, al massimo possibile, potrebbero rendere disponibili 100 miliardi di risorse, cioè circa il 5% del Pil. Questa ci sembra essere minima adeguata per poter parlare di “cambiamento”. Con manovre da 0,5-1% del Pil non si cambia niente, si accetta di fatto il profilo tendenziale e soprattutto non si va da nessuna parte.

Tali coperture potrebbero provenire per 40 miliardi dal taglio massimo possibile delle Tax Expenditure, per 40 miliardi dal taglio massimo possibile nei Fondi perduti in conto corrente ed in conto capitale e per 20 miliardi dal contenimento della voce Acquisti di Beni e Servizi di tutte le pubbliche amministrazioni. Di queste coperture si dovranno destinare, con priorità assoluta, 12,5 miliardi nel 2019 e 19 nel 2020 per evitare che scattino gli aumenti di Iva ed accise che frenerebbero ulteriormente la crescita ed aumenterebbero l’inflazione.

Le notevoli risorse che comunque resterebbero a disposizione potrebbero allora essere usate a copertura delle eventuali decisioni di taglio di tasse ed aumenti di spesa indicate dai vari partiti. Abbiamo pertanto simulato che, con in testa quelle coperture, si vari sia la flat-tax al 23%, sia il Reddito di cittadinanza.

CAMBIARE E’ POSSIBILE

I risultati che abbiamo ottenuto indicano che tali provvedimenti sarebbero fattibili e produrrebbero effetti positivi sulla crescita che si attesterebbe stabilmente sopra l’1% e sulle condizioni di finanza pubblica, con un deficit che si porterebbe a zero sin dal primo anno ed un avanzo primario al 4% del Pil, ovviamente a condizione che abbiano in testa e come priorità le coperture finanziarie che abbiamo indicato.

Rispetto a questa ipotesi abbiamo infine voluto simulare una nostra proposta di politica economica che, sempre sulla base di quelle stesse coperture e di quanto necessario a non far aumentare Iva ed accise, vada ad impiegare quelle risorse in una riforma strutturale Irpef a tre aliquote (20% fino a 35.000 euro di reddito, 30% fino a 100.000 e 40% sopra 100.000) che comporterebbe uno sgravio fiscale di circa 40 miliardi contro i 60 miliardi determinati dalla Flat-Tax al 23%. Si propone poi l’azzeramento dell’Irap per 20 miliardi di euro e l’aumento degli investimenti pubblici per 20 miliardi di euro.

Gli effetti che si determinerebbero da questa nostra strategia di politica economica si mostrano, a parità di risorse rese disponibili dai tagli proposti, notevolmente superiori a quelli, pur positivi, prodotti congiuntamente dalla Flat Tax e dal Reddito di cittadinanza. In termini di crescita del Pil ci si attesterebbe strutturalmente attorno e sopra il 2%, contro poco più dell’1% del caso di Flat Tax e Reddito di cittadinanza.

In realtà, la riforma Irpef a tre aliquote risulta dare maggiore stimolo ai consumi perché gli sgravi fiscali sarebbero più concentrati sui redditi medio bassi. Infatti, i 60 miliardi di sgravi previsti dalla Flat Tax sono maggiori dei 40 miliardi previsti dalla riforma Irpef a tre aliquote, ma i 20 miliardi in più andrebbero a redditi elevati sopra ai 100.000 euro per i quali è ragionevole attendersi solo un modesto impulso ai consumi. Anche da qui la nostra proposta di dedicare quei 20 miliardi all’azzeramento dell’Irap. Per di più con l’Irpef a tre aliquote si otterrebbe anche un effetto di migliore equità sociale. Le maggiori risorse destinate ad investimenti pubblici, provenienti dai 20 miliardi di tagli di spesa corrente (Acquisti di beni e servizi) darebbero un forte impulso alla crescita conseguente al noto maggiore effetto moltiplicatore-acceleratore di tali spese rispetto ad aumenti di spesa corrente o a tagli di tasse.

L’aumento degli occupati (circa 700.000 posti in più rispetto alla ipotesi CD+M5S e circa 1.200.000 rispetto al 2018) sarebbe molto superiore e tale da indurre a dire che la maggiore occupazione in gran parte rappresenterebbe un reddito di cittadinanza non per chi è senza lavoro e ci resta, ma per chi è senza lavoro e lo trova.

I migliori e maggiori effetti sull’economia reale produrrebbero determinanti effetti positivi sulla finanza pubblica tali da determinare un deficit zero nel primo anno ed avanzi di bilancio negli anni successivi, con avanzi correnti in grado di finanziare gli investimenti pubblici ed un avanzo primario che si attesterebbe al 5% del Pil.

Queste condizioni di avanzo di bilancio potrebbero quindi creare spazi crescenti per eventuali ulteriori interventi di sostegno a chi comunque, cittadino o famiglia, fosse in condizioni di necessità. Pertanto, maggiore crescita, zero deficit subito ed avanzo di bilancio negli anni successivi ridurrebbero il Debito Pubblico in valore assoluto dagli attuali 2.290 a 2.227 miliardi ed il suo rapporto con il Pil si porterebbe al 110% in quattro anni, cioè il 5% all’anno e pertanto rispetteremmo “financo” il famigerato Fiscal Compact senza chiedere o pietire sconti e flessibilità all’Europa.

Miracolo o utopia? No, coraggio politico necessario in quantità industriali per indicare “prima” quei 100 miliardi di coperture che implicano sottrazione di risorse a tutte le corporazioni, congreghe e magari anche cosche che con quei miliardi prosperano da anni accumulando ingenti patrimoni personali o di sodalizio perverso.

Questo sarebbe un “vero” cambiamento.

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