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Pensioni: la “sindrome cinese” del calcolo contributivo

Molti pensano che se la pensione fosse commisurata ai versamenti contributivi non vi sarebbero riserve per applicare il criterio agognato della flessibilità in uscita: ma questa teoria è inconsistente, ecco perché.

Pensioni: la “sindrome cinese” del calcolo contributivo

La “sindrome cinese” del calcolo contributivo, quale specchio di preclare virtù previdenziali, ha riportato indietro di una ventina di anni il dibattito sulla riforma delle pensioni, facendo smarrire dalla vista taluni elementi fondamentali. A sentire certe considerazioni sembra che il sistema pensionistico funzioni secondo le regole di un’assicurazione sulla vita contraddistinta da un pacchetto di regole truffaldine. 

Nessuna polizza-vita, infatti, consente ai sottoscrittori di ottenerne la liquidazione ad nutum, a qualsiasi età si ritenga opportuna, ma viene sempre prevista una soglia anagrafica, che, nelle forme di previdenza complementare, ad esempio, coincide con l’età stabilità per il pensionamento obbligatorio. Circola, invece, l’idea per cui, se la pensione fosse commisurata ai versamenti contributivi, non vi sarebbero riserve per applicare il criterio agognato della flessibilità della quiescenza. 

Queste teorie circolano senza che nessuno si adoperi a dimostrarne l’inconsistenza. Nei giorni scorsi, a chi scrive, è capitato di leggere una lettera ad un grande quotidiano nella quale un signore “fulminato sulla via di Damasco” dalle “magnifiche sorti e progressive” del calcolo contributivo, sosteneva che sarebbe giusto e corretto consentire la possibilità di andare in pensione, per ipotesi, anche a trent’anni se l’interessato si accontentasse di un assegno miserabile, come quello risultante dall’entità dei pochi contributi versati. 

Il che significherebbe ridurre lo Stato sociale (inteso come istituzione che predispone ed organizza la sicurezza dei cittadini) ad una sorta di biscazziere. L’articolo 38 della Costituzione, infatti, è molto chiaro, quando afferma, nel secondo comma, che «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». 

E stabilisce che, a questi compiti, devono provvedere organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato, il quale, non può limitarsi ad assicurare una tutela purchessia, ma a garantire una soglia di adeguatezza la quale non può prescindere dalle risorse disponibili (i diritti sociali devono sempre fare i conti con le esigenze improcrastinabili di sostenibilità economica e finanziaria), ma che deve anche farsi garante di uno standard congruo con riferimento alle “esigenze di vita”. 

Non a caso il legislatore costituzionale si avvale di aggettivi appropriati quando si tratta di definire i “mezzi” a cui hanno diritto, da un lato, il cittadino inabile al lavoro ed indigente (di cui al primo comma); dall’altro, i lavoratori. Nel primo caso, la norma si limita ad indicare un concetto di “necessità”; nel secondo si spinge, invece, sul terreno della “adeguatezza”. 

Si tratta, comunque, di concetti che includono il valore – più o meno esteso – del limite, in quanto l’organizzazione del sistema di protezione sociale deve essere sostenibile e tale da garantire, persino, un relativo equilibrio tra le generazioni, mediante un’attenta valutazione degli andamenti demografici, economici ed occupazionali previsti nell’arco di alcuni decenni. 

Ciò è tanto più vero quando il finanziamento del sistema pensionistico avviene con il criterio della ripartizione, una regola in base alla quale lo stock delle pensioni in essere è “pagato” mediante l’ammontare dei contributi (e delle tasse) riscosse a carico delle generazioni dei lavoratori attivi, con la promessa, garantita dallo Stato, che, quando verrà il loro turno per uscire dal mercato del lavoro, saranno le nuove generazioni di occupati ad onorare gli impegni che il sistema ha assunto e a riconoscere loro i diritti maturati. 

Basterebbe riflettere sulle trasformazioni intervenute, in particolare nel mercato del lavoro, per rendersi conto di come sia difficile mantenere il corretto funzionamento della “catena di S. Antonio” che lega tra le generazioni, nell’ambito di un sistema pensionistico obbligatorio. Soffermandosi, tuttavia, su uno solo degli aspetti, è corretto osservare che anche nel modello contributivo (ugualmente finanziato “a ripartizione”) non vi è effettiva corrispettività tra contributi versati e prestazione erogata (come vi sarebbe sulla base del criterio della capitalizzazione). 

La formula di calcolo serve soltanto a combinare i parametri utili a definire l’ammontare della prestazione, (solo gli esteti e gli imbroglioni si azzardano a parlare di “capitalizzazione simulata”). Il meccanismo di calcolo (montante contributivo rivalutato secondo il Pil X i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età del pensionamento) è soltanto un modo (senza dubbio più equo di quello retributivo “all’italiana”) per determinare l’importo dell’assegno. 

Ma l’equilibrio del sistema – negli anni a venire anche quando il contributivo andrà pienamente a regime – dipenderà dal rapporto tra il numero dei contribuenti e quello delle pensioni erogate ovvero dalla “solita vecchia storia” dell’equilibrio tra entrate (siano esse contributive o fiscali) ed uscite (la spesa pensionistica nel suo rapporto con il Pil). 

Quando vi è stata la reintroduzione della sistema contributivo con la legge n. 335 del 1995, le solite “anime belle” profetizzarono che sarebbe intervenuta una significativa inversione di tendenza in quanto il principio di solidarietà sarebbe stato sostituito da quello della rigorosa corrispettività tra contributi versati e prestazioni pensionistiche. 

Invece, come ha scritto autorevolmente Mattia Persiani, «va osservato che la differenza tra la cosiddetta pensione retributiva e quella contributiva si riduce, a ben guardare, a ciò: nella prima, l’ammontare della pensione è determinato direttamente sulla base delle retribuzioni percepite, mentre nella seconda, si fa riferimento alla contribuzione previdenziale ed all’età di ingresso in pensione. Riferimento – prosegue Persiani – che non esclude affatto la rilevanza delle retribuzioni percepite (omissis). Ne deriva che il diverso sistema di calcolo dell’ammontare delle pensioni introdotto dalla legge n. 335 del 1995, in quanto modifica solo parzialmente il rapporto “retribuzione-contributi-pensioni”, non è sufficiente , da solo, a modificare la funzione assegnata alla tutela previdenziale». Ipse dixit.

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