Condividi

Pensioni e flessibilità: ecco le 5 novità più importanti

Dalle ipotesi per aumentare la flessibilità in uscita al prestito pensionistico, dalla riduzione delle tasse sui fondi pensione alla possibilità di estendere l’opzione donna agli uomini, passando per la misura già varata del part time agevolato per gli over 60: ecco le novità e le idee allo studio in tema di pensioni.

Pensioni e flessibilità: ecco le 5 novità più importanti

Flessibilità in uscita, prestito pensionistico, taglio delle tasse sui fondi pensione, opzione donna anche per gli uomini. Non sarà una vera controriforma Fornero, ma i progetti allo studio del governo per correggere l’assetto del sistema previdenziale sono diversi, e si sommano al decreto già varato sul part time agevolato per gli over 60.

A rilanciare il tema pensioni è stato Pier Carlo Padoan: “Ci sono margini per ragionare sugli strumenti, sugli incentivi e sui legami tra sistema pensionistico e mercato del lavoro per migliorare le possibilità” in entrata e in uscita, ha assicurato ieri il ministro del Tesoro nell’audizione sul Def davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Padoan si è detto “favorevole a un ragionamento complesso” sulle pensioni che tenga conto “di fonti di finanziamento complementare”, coinvolgendo anche banche e assicurazioni, visto che il sistema previdenziale è “uno dei pilastri della sostenibilità” dei conti pubblici.

Poche ore dopo, l’urgenza di un intervento è stata ribadita da Tito Boeri, che ha lanciato l’allarme per i nati dopo il 1980: in caso di contribuzione discontinua – ha affermato il presidente dell’Inps – rischiano di andare in pensione a 75 anni.

1. LA FLESSIBILITÀ IN USCITA

Il primo capitolo da affrontare, perciò, è quello della cosiddetta flessibilità in uscita, che significa correggere la riforma Fornero per permettere di andare in pensione con qualche anno di anticipo in cambio di una penalizzazione sull’importo dell’assegno. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si è sempre detto favorevole a interventi che vadano in questa direzione, ma il governo è obbligato alla cautela, perché una marcia indietro troppo disinvolta rispetto alla legge Fornero metterebbe in allarme Bruxelles.

D’altra parte, nel Piano nazionale di riforme appena varato con il Def si legge che l’Esecutivo valuterà “la fattibilità di una maggiore flessibilità nelle scelte individuali, salvaguardando la sostenibilità finanziaria”.

Meno di un anno fa, Matteo Renzi aveva aperto la questione con l’ormai celebre apologo della nonna: “Se una donna a 61, 62 o 63 anni vuole andare in pensione due o tre anni prima rinunciando a 20-30-40 euro per godersi il nipotino anziché dover pagare 600 euro la babysitter – aveva detto il Premier –, bisognerà trovare le modalità per cui, sempre con attenzione ai denari, si possa permettere a questa nonna di andarsi a godere il nipotino. Le normative del passato sono intervenute in modo troppo rigido”.

Un pacchetto di proposte sul tema è già stato presentato da Boeri, ma prevede fra le coperture un taglio delle pensioni più alte in corso di erogazione, misura respinta dal governo. La proposta Baretta-Boeri, contenuta in un disegno di legge, prevede la possibilità di andare in pensione con un anticipo fino a 4 anni rispetto ai requisiti previsti per la pensione di vecchiaia, a fronte di un taglio dell’assegno pari al 2% per ogni anno (perciò fino a un massimo dell’8%). Secondo stime informali dell’Inps, l’aggravio per le casse pubbliche sarebbe di 3,6 miliardi nel 2017 e di 7,5 miliardi nel 2026. Se si ipotizza una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo e un’adesione pari al 70% della platea potenzialmente interessata dal prepensionamento, l’intervento costerebbe 1,5 miliardi l’anno prossimo, ma il conto salirebbe a 3,7 miliardi nel giro di dieci anni.

Oggi la pensione di vecchiaia scatta a 66 anni e 7 mesi per gli uomini (lavoratori dipendenti e autonomi), a 65 anni e 7 mesi per le donne lavoratrici dipendenti e a 66 anni e 1 mese per le autonome. Dal 2018 i requisiti per le donne saliranno in entrambi i casi a 66 anni e 7 mesi, mentre dal 2019 tutti i requisiti saranno modificati ogni due anni per l’adeguamento alla speranza di vita. Per la pensione anticipata, invece, servono oggi 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.

Il sottosegretario alla presidenza Tommaso Nannicini ha detto martedì che introdurre nuova flessibilità per tutti costerebbe troppo: “Se il costo fosse interamente a carico della finanza pubblica, al di là delle diverse proposte, saremmo intorno ai 5-7 miliardi di euro”, perciò servono “uno sforzo di creatività e soluzioni di mercato”.

Del resto, anche a fronte di un taglio dell’assegno, abbassare tout court l’età pensionabile non è possibile, perché costerebbe molto nell’immediato e inciderebbe notevolmente sul deficit. I soldi spesi oggi sarebbero più che recuperati nel tempo (è vero che l’Inps pagherebbe per più anni, ma le pensioni sarebbero più basse), tuttavia le regole europee non consentono valutazioni di medio-lungo periodo. Per questo serve “creatività”.

2. IL PRESTITO PENSIONISTICO

Una delle idee sul tavolo è quella del prestito pensionistico. Il meccanismo è semplice: chi è vicino alla pensione potrebbe ritirarsi in anticipo dal lavoro e ricevere ogni mese un prestito da circa 800 euro fino alla maturazione dei requisiti per ottenere l’assegno previdenziale vero e proprio. A quel punto, tramite l’Inps, dovrebbe restituire a rate la somma ricevuta a titolo di credito nei due-tre anni precedenti, perciò la sua pensione sarebbe decurtata mensilmente di una quota fissa.

Si è detto che per limitare al massimo i costi l’Inps potrebbe stipulare convenzioni con banche e assicurazioni, le quali fornirebbero l’anticipo sotto forma di prestito, consentendo allo Stato di sostenere solo il costo degli interessi.

In passato i tecnici del Tesoro avevano valutato anche l’ipotesi di far pagare il prestito alle aziende, che avrebbero versato anche i contributi mancanti del lavoratore con l’obiettivo di aumentare il turn over e svecchiare così il personale.

3. MENO TASSE SUI FONDI PENSIONE

Per quanto riguarda la previdenza complementare, nel 2015 il governo ha alzato l’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%, mentre per le casse di previdenza il prelievo è salito dal 20 al 26%. Le percentuali riscendono tuttavia rispettivamente all’11% e al 20% nel caso in cui fondi e Casse investano nell’economia reale.

Anche se quindi l’opzione più logica sembrerebbe quella di riportare genericamente le aliquote al livello pre-2015, l’intenzione prevalente, riferiscono fonti vicine al governo, sarebbe invece quella di mantenere viva la condizione favorevole all’investimento in attività non speculative. Di qui la probabilità che la riduzione non sia di 9 e 6 punti, ma leggermente inferiore, con la possibilità di ampliare comunque il vantaggio fiscale investendo nell’economia reale. Si parla anche di un possibile incremento della deducibilità fiscale dei versamenti effettuati, che oggi non deve superare i 5.164,57 euro.

4. OPZIONE DONNA ANCHE PER GLI UOMINI

Un’altra idea su cui si discute da tempo è l’estensione agli uomini dell’opzione donna, il meccanismo (esteso anche al 2016) che consente alle lavoratrici di andare in pensione con almeno 57 anni d’età e 35 di contributi, ma percependo un assegno interamente calcolato con il metodo contributivo (e perciò più basso di almeno il 25-30%). Anche in questo caso, però, i costi sarebbero troppo elevati nell’immediato.

5. PART TIME AGEVOLATO PER GLI OVER 60

Per quanto riguarda il part time agevolato per gli over 60, la situazione è diversa: non si tratta di una proposta allo studio, ma di una misura prevista dalla legge di Stabilità 2016 e regolata da un recente decreto del ministro Poletti. In sostanza, i lavoratori del settore privato con contratto a tempo indeterminato e orario pieno che possiedono il requisito contributivo minimo per la pensione di vecchiaia (20 anni di contributi) e che maturano il requisito anagrafico entro il 31 dicembre 2018 potranno concordare con il datore di lavoro il passaggio al part-time con una riduzione dell’orario tra il 40 ed il 60%. Ogni mese riceveranno in busta paga (oltre alla retribuzione per il part-time stesso) una somma esentasse a carico del datore di lavoro pari ai contributi previdenziali sulla retribuzione per l’orario non lavorato. Per il periodo di riduzione della prestazione lavorativa, lo Stato riconosce al lavoratore la contribuzione figurativa corrispondente alla prestazione non effettuata, in modo che alla maturazione dell’età pensionabile il lavoratore percepirà l’intero importo della pensione, senza alcuna penalizzazione.

Secondo calcoli effettuati dai Consulenti del lavoro su classi di retribuzioni annue lorde che vanno dai 25mila ai 43mila euro, un lavoratore che firma un contratto di part time agevolato al 40% delle ore (16 a settimana a fronte delle 40 dell’orario intero) avrà in busta paga il 72% della retribuzione mentre l’impresa avrà una riduzione del costo del lavoro del 49% (a fronte di una riduzione dell’orario del 60%).

Commenta