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Next Generation EU: Stato e privati tra miti e pregiudizi

A differenza degli anni del miracolo economico, oggi in Italia la grande impresa privata non esiste più e non ci sono più imprenditori del calibro di Sinigaglia e Valletta – Stabilire con esattezza i confini tra Stato e imprese private è impossibile e la realtà di oggi richiede di essere esaminata in modo laico, senza schemi ideologici che appartengono al passato

Next Generation EU: Stato e privati tra miti e pregiudizi

Nell’editoriale pubblicato il 3 gennaio 2021 sul Corriere della Sera, Francesco Giavazzi afferma che, per i progetti Next Generation EU, preliminare a ogni altra definizione è stabilire quali siano i confini tra l’azione dello Stato e quella dei “privati”. L’autore sembra sicuro del fatto che il ruolo dello Stato debba essere quello di “individuare le priorità del programma”, senza esserne “l’attore principale”: appena un “regolatore”, insomma, mentre ai privati spetta definire i progetti e portarli a termine, senza disturbi da parte del potere politico e delle istituzioni.

Spesso la storia viene usata per corroborare le argomentazioni in un dibattito sul presente: il suo uso strumentale è un esercizio facile, se nessuno osa avanzare obiezioni in un contraddittorio che sottolinei le complessità dei precedenti storici a cui si fa riferimento, prima di affondare la stoccata finale, quasi sempre ideologica. Invece la storia va detta tutta, perché è più complicata di come la si presenta, e non è dato identificare alcun percorso storico contemporaneo in cui i confini fra Stato e privati in economia siano stati netti e definiti come nell’argomentazione astratta è sovente auspicato.

È lecito scrivere, per esempio, che il miracolo economico sia opera dei “privati” (“imprenditori privati” sarebbe più corretto), però non corrisponde alla realtà dei fatti. Se leggiamo le interviste condotte dalla Commissione economica dell’Assemblea Costituente a imprenditori e manager nella fase della ricostruzione postbellica, emerge che, se avessimo seguito la “filosofia” dei privati, oggi avremmo un’economia ottima per produrre orologi a cucù. È quanto proponeva come ideale per l’Italia Pasquale Gallo, commissario temporaneo per l’Alfa Romeo: il modello svizzero, l’artigianato organizzato.

Ai Falck, alfieri della siderurgia privata, quell’economia andava benissimo, ma avrebbero saputo fabbricare, dal rottame, l’acciaio per la Seicento e poi per la Cinquecento, per i metanodotti, per gli elettrodomestici, per i contenitori dell’industria alimentare? Assolutamente no. Per quei prodotti, essenziali perché l’Italia-Pollicino indossasse gli “stivali delle sette leghe” (un aumento del Pil annuo di quasi il 6% tra 1950 e 1970), era cruciale che la Finsider, società dell’Iri, ottenesse dagli americani, che erogavano le risorse del Piano Marshall, i finanziamenti per far funzionare i laminatoi continui. E l’Alfa Romeo del commissario Gallo, che la voleva produttrice di pochi modelli di lusso, da chi venne trasformata in una seria industria automobilistica, che sul finire degli anni Cinquanta fu a un passo dall’acquisire la Bmw? La risposta è facile, da Giuseppe Luraghi, manager pubblico, direttore generale della Finmeccanica che nel 1954 lanciò la Giulietta.

Siamo così sicuri che il metano della valle Padana sarebbe stato usato in modo più favorevole agli interessi del Paese dai privati, da qualche multinazionale americana, dalla Montecatini di Carlo Faina, o dalla Edison di Giorgio Valerio, piuttosto che dall’Eni di un manager pubblico come Enrico Mattei? Se rileggo le pagine di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani in Razza padrona, la differenza tra la statura di Mattei e la mediocrità dei due capi delle aziende del big business privato milanese è semplicemente abissale.

Conosco benissimo i limiti e le magagne dei manager pubblici, e come alcuni fra questi abbiano in seguito affossato l’IRI e trasformato l’ENI in un cimitero di “rovine fumanti”, ma ciò non toglie nulla alla stagione grandiosa in cui competenti ed efficienti imprenditori/manager di stato hanno costruito (più che ri-costruito) l’economia nazionale, dotando il paese di infrastrutture (autostrade, telecomunicazioni) e grandi imprese nei settori più diversi (siderurgia, meccanica, energia, petrolchimica, cantieristica). Fra questi si colloca a pieno titolo Gianangelo Giavazzi, padre dell’autore dell’articolo che sto commentando, direttore generale della Finmeccanica e presidente per 12 anni della Dalmine, allora nel gruppo IRI.

E i privati? Alcuni fra questi furono protagonisti del “miracolo”, ma ho già avuto modo di scrivere come l’imprenditoria privata italiana sia stata “male-educata” da un sostegno statale che non è mai venuto a mancare nel corso dell’ultimo secolo, in varie forme e come risposta a un atteggiamento lamentoso e ben poco dinamico. Forse dovremmo ancora una volta fare i nomi di questi campioni, però, una volta definito il Pantheon, si indaghi a fondo fra chi ha veramente corso il rischio d’impresa (con risorse proprie) e chi ha invece ottenuto ampi e sostanziosi puntelli pubblici.

Ma tant’è, oggi la grande impresa privata italiana non esiste più, se non in settori che non possono rappresentare il Paese nella partita globale del XXI secolo, né può essere rappresentata da gruppi transnazionali come FCA o Tenaris, o da pochi, troppo pochi, esponenti dinamici del noto “quarto capitalismo”. A differenza della fase della ricostruzione, oggi non si vedono imprenditori “dalla linea lunga”, con la prospettiva di portare l’Italia a risultati difficilmente immaginabili prima che la loro azione potesse dispiegarsi, come Oscar Sinigaglia e Vittorio Valletta.

La grande impresa oggi in Italia è controllata dallo Stato, come Enel, Eni, Fincantieri e Finmeccanica. Il tessuto dei distretti industriali non si è ancora risollevato dalla crisi del 2008 e quelli che sopravvivono stentano a tenere il passo di un’economia globale tumultuosa, sia nelle fasi di crescita, sia in quelle di crisi e declino. Non possiamo ignorare infine l’apporto dei finanziamenti pubblici – nazionali ed europei – nelle esperienze di frontiera: le osannate start-up accedono il più delle volte a percorsi di sviluppo grazie all’inserimento in circuiti finanziari e tecnologici che poco hanno a che fare con il mito di un’eroica imprenditorialità autoctona e innovativa.

Non si capisce infatti, che tipo di immagine della tecnologia possa nutrire l’idea che un paese come l’Italia debba sviluppare percorsi “originali”, quando oggi, come nella prima, nella seconda e nella terza rivoluzione industriale – tre secoli di esperienza storica da considerare – la circolazione delle idee e delle applicazioni tecnologiche ha rappresentato la via maestra di un apprendimento e di un consolidamento per tutte le economie occidentali. E forse merita una menzione ancora una volta il ruolo dello stato – di diversi stati – nella promozione e nel finanziamento della ricerca e dello sviluppo tecnologico in settori troppo importanti per fallire la corsa all’innovazione scientifica e alle sue applicazioni industriali.

“Riuscire a stabilire i confini fra Stato e privati” non “è essenziale”: è impossibile e inutile. Il mio approccio, da storico, mi impone di non essere prescrittivo, ma di valutare con attenzione la realtà. Next Generation EU non costruisce su un terreno vergine, non è destinato a Marte, e serve poco dare consigli appellandosi a una indiscussa autorità scientifica per sostenere ancora una volta che è meglio vedere all’opera istituzioni “inclusive” – con la nota favola bella della “parità di condizioni e quindi uguali opportunità” – quando la realtà urgente impone scelte che solo un potere sovrano può perseguire.

Siamo ancora allo Stato che “mette le mani nelle tasche degli italiani”, frutto falso e ideologico di tanti anni di propaganda berlusconiana? Davvero il dibattito non può procedere oltre per riconoscere che le “posizioni di rendita e i benefici riservati a chi detiene il potere politico” sono gli stessi riservati a chi detiene il potere economico (e finanziario)? Brandire la mitologia dell’imprenditore privato non è un contributo positivo, né a livello di confronto intellettuale, né per chi deve prendere decisioni importanti misurandosi con la struttura economica e sociale di un paese reale.

Non possiamo minare il terreno del dibattito contrapponendo termini come “produttori” e “Stato”, buoni-efficienti-dinamici-innovativi i primi, e corrotto, per antonomasia, estraneo alla società civile, il secondo.
Ricordiamoci che, in democrazia, lo Stato siamo noi e se ne siamo insoddisfatti ciascuno di noi si impegni per migliorarlo, secondo le sue capacità, in questo momento drammatico.

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