Condividi

Lavoro, articolo 18: bufera sui licenziamenti economici

Questo il nodo più controverso della riforma del lavoro – I sindacati temono licenziamenti per motivi “falsamente economici” e vogliono il modello tedesco – Oggi il Consiglio dei ministri vara un testo di massima, poi la parola passa al Parlamento – Napolitano: “Non ci saranno licenziamenti facili”.

Lavoro, articolo 18: bufera sui licenziamenti economici

La riforma del lavoro arriva oggi in Consiglio dei ministri, che darà il via libera a un testo di massima: “salvo intese”, come si dice. La formula si usa quando le norme contenute nel provvedimento non sono ancora definitive e probabilmente è stata suggerita ieri al premier dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Oggi il Capo dello Stato ha cercato nuovamente di stemperare le polemiche legate alle modifiche dell’articolo 18 sostenendo che non “si apriranno le porte a una valanga di licenziamenti facili”.  

In sostanza, escluso il ricorso al decreto, la riforma dovrebbe arrivare in Parlamento sotto forma di legge delega o di disegno di legge ordinario con alcune deleghe. Il compromesso del “salvo intese” prevede quindi che le camere possano modificare il testo, ma allo stesso tempo dà a Mario Monti la possibilità di partire per la Cina con in mano qualcosa di concreto. Una carta spendibile di fronte ai facoltosi investitori orientali. 

Insomma, da una parte il Professore evita di blindare il testo, dall’altra però ribadisce insieme al ministro Fornero che il Governo non è intenzionato a fare alcuna marcia indietro in tema di licenziamenti. Una strada che non sembra sufficiente a placare le acque all’interno del Pd, né tanto meno a placare l’opposizione dei sindacati. Dopo la guerra aperta dichiarata dalla Cgil, anche le altre sigle (Cisl, Uil e Ugl) hanno detto di voler rimettere mano alla riforma. Tra le varie modifiche all’articolo 18, la più controversa è quella relativa ai licenziamenti per motivi economici. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta: 

LICENZIAMENTI ECONOMICI

“Eviteremo abusi”, ha assicurato Monti, sostenendo che basterà “un minimo di attenzione nella stesura della norma”. Così come viene presentata oggi, tuttavia, la misura ha fatto scattare l’allarme fra i rappresentanti dei lavoratori. Chi verrà licenziato per ragioni economiche, infatti, non avrà alcuna possibilità di recuperare il proprio posto di lavoro. Anche se il giudice riterrà non valido il motivo addotto dall’azienda, non potrà più decidere per il reintegro: l’unica opzione prevista per questi casi è l’indennizzo economico, che sarà compreso tra le 15 e le 27 mensilità e verrà calcolato in base alle dimensioni dell’azienda e dell’anzianità del lavoratore. Fino ad ora, il giudice poteva disporre il reintegro, mentre l’indennizzo era un’alternativa lasciata alla libera scelta del lavoratore.

Il timore dei sindacati è che le imprese possano approfittare di questa modifica per licenziare personale con motivazioni “falsamente economiche”. Il giudice non è più chiamato a valutare di che tipo di licenziamento si tratti in realtà (disciplinare o discriminatorio), quindi anche nel caso in cui dia torto alle aziende, non potrà comunque obbligarle al reintegro. I sindacati chiedono perciò l’applicazione del modello tedesco, che anche in caso di licenziamenti economici prevede per il giudice la possibilità di scegliere – nei casi in cui abbia ragione il lavoratore – fra il reintegro e l’indennizzo.

LICENZIAMENTI DISCIPLINARI

Innanzitutto è bene chiarire cosa si intenda per “ragioni disciplinari”. In questa categoria rientra anche la condotta di quei lavoratori che con brunettiana memoria si è soliti definire “fannulloni“. Non solo, quindi, chi picchia i colleghi o ruba alla società, ma anche chi non adempie agli obblighi previsti dal suo contratto. 

Fino ad oggi il comportamento del giudice in questi casi era identico a quello per i licenziamenti economici: né reintegro né indennizzo nel caso in cui abbia ragione l’azienda, reintegro se invece ha ragione il lavoratore, a cui si offre in alternativa la possibilità di scegliere l’indennizzo.

Il Governo propone invece che il giudice debba imporre l’indennizzo (sempre tra le 15 e le 27 mensilità), limitando l’obbligo del reintegro solo ai casi in cui il fatto contestato al lavoratore non sia stato commesso o rientri fra le ipotesi previste dal contratto collettivo. Al recupero del posto di lavoro si associa anche un risarcimento e il versamento dei contributi persi. Rimane per il lavoratore la possibilità di chiedere il reintegro al posto dell’indennizzo. 

LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI

Sui licenziamenti discriminatori non cambia nulla. La norma rimane esattamente quella già prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: se il lavoratore riesce a dimostrare di essere stato discriminato dall’azienda (per ragioni religiose, politiche, razziali, d’orientamento sessuale o altro), il giudice deve annullare il licenziamento e imporre il reintegro.

Commenta