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L’America farà la fine della Russia di Breznev? L’incubo della stagnazione

Dalla Silicon Valley “ci attendevamo la macchina volante e abbiamo avuto i 140 caratteri di Twitter”: è il paradosso dell’innovazione che sembra avere effetti controversi sulla produttività e non riesce a scacciare la paura della stagnazione dell’economia

La stagnazione Summers 

Fu lo zastoj a far crollare la Russia di Breznev. Cioè la stagnazione dell’economia centralizzata. La stagnazione aveva eroso in profondità il modello economico e sociale sovietico e lo aveva condannato a un declino irreversibile a cui neppure le riforme di Gorbaciov avrebbero posto rimedio. La storia sembra volersi ripetere per l’arcirivale della Russia sovietica, gli Stati Uniti d’America. 

La tesi della grande stagnazione, come linea interpretativa dell’economia americana nell’ultimo mezzo secolo, sta acquistando sempre più consensi. Larry Summers, un economista di formazione keynesiana tanto apprezzato quanto discusso, ne parla ormai da tempo. Esiste già un nome per la sua tesi: “stagnazione Summers”. 

Pur con un diverso approccio, Tyler Cowen, un economista non convenzionale di matrice libertaria, è arrivato alle conclusioni analoghe a quelle di Summers. Nel 2011 ha pubblicato un pamphlet di 15mila parole dal titolo The Great Stagnation che ha sollevato infinite discussioni tanto meritarsi un’intera voce di Wikipedia. 

C’è poi uno dei più importanti maître à penser della Silicon Valley, Peter Thiel, a dirci che la grande innovazione degli ultimi anni ha partorito un topolino. Ha sintetizzato con queste parole la sua delusione nei confronti dei successi della tecnologia nata nella Valle: “Ci attendevamo la macchina volante e abbiamo avuto i 140 caratteri di Twitter”. Per ora le macchine volanti si vedono solo al cinema, però i caratteri di Twitter, nel frattempo, sono passati a 240. 

La tesi di Gordon 

Lo studioso che ha indagato più a fondo la stagnazione secolare delle economie avanzate è Robert Gordon, uno stimato e schivo economista della Nortwestern University. L’analisi di Gordon, condotta nel lungo periodo, rileva un rallentamento della crescita del PIL potenziale dovuto a un insieme di fattori, demografici e di debito. Determinante, però, è stato il drastico rallentamento dell’innovazione e del progresso tecnologico, a confronto dei ritmi serrati registrati nella prima metà del 20° secolo e soprattutto nel 21°. Questo rallentamento della crescita del PIL potenziale ha depresso gli investimenti e, di conseguenza, rimanendo i risparmi su livelli costanti, è sfociato nella “stagnazione di Summers”. 

Scrive Gordon a conclusione della sua analisi sull’andamento della crescita economica dei paesi sviluppati a partire dal 1750 quando si e avuta la prima rivoluzione industriale a cui ne sono seguite altre due in stretta continuità: 

“La prima rivoluzione, le cui principali invenzioni sono state sviluppate tra il 1750 e il 1830, ha introdotto la macchina a vapore, la filatura del cotone e le ferrovie. La seconda è stata la più importante, grazie a tre invenzioni fondamentali: l’elettricità, il motore a scoppio e l’acqua corrente, il tutto nell’intervallo relativamente breve compreso fra il 1870 e il 1900. Ci sono voluti un centinaio d’anni affinché gli effetti delle prime due rivoluzioni industriali permeassero l’economia. Tra il 1950 e il 1970 i benefici della seconda rivoluzione Industriale stavano ancora trasformando il sistema economico, con l’aria condizionata, gli elettrodomestici e la rete autostradale, mentre la produzione è rallentata sensibilmente dopo il 1970, probabilmente a causa del fatto che le innovazioni fondamentali erano state ampiamente applicate”.

È proprio a partire dagli Settanta che succede qualcosa. A questo proposito scrive ancora Gordon:

“La terza rivoluzione Industriale, quella legata all’informatica, è cominciata attorno al 1960 e ha raggiunto il suo apice nell’era delle dot.com alla fine degli anni ’90, anche se il suo impatto più consistente sulla produttività si è protratto negli ultimi otto anni. I computer, che hanno sostituito lavori d’ufficio tediosi e ripetitivi, sono arrivati molto tempo fa, negli anni ’70 e ’80, mentre dopo il 2000 l’innovazione si è concentrata sull’intrattenimento e su dispositivi di comunicazione sempre più compatti e intelligenti, che però non incidono radicalmente sulla produttività o sul tenore di vita come hanno fatto l’elettricità, i veicoli a motore o l’acqua corrente”.

Queste riflessioni, esposte in modo sistematico, si trovano in un libro molto corposo uscito nel 2016, The Rise and Fall of American Growth, la cui importanza è stata paragonata al Capitale nel XXI di Thomas Picketty. 

Tesi ufficiale: la produttività sta crollando 

Le tesi di Gordon sembrano trovare una conferma anche nei dati del Bureau of Labor Statistics che ravvisano una stagnazione e un calo della produttività a partire dalla metà degli anni 2000 a riprova che l’innovazione furiosa degli ultimi dieci anni non ha minimante innalzato il livello di produttività, anzi lo ha depresso, almeno nelle economie sviluppate. Molti lo hanno già definito il “productivity paradox”.

Un recente studio condotto dalla FED e dal FMI ha confermato la validità dei sistemi di rilevamento e di stima della produttività applicati dalle statistiche ufficiali che erano stati messi in discussione dal “partito dei tecnologi”. Ecco come si esprime il documento della FED-FMI: 

“Molti dei grandi benefici ottenuti dai consumatori dagli smartphone, dalle ricerche di Google e da Facebook sono concettualmente non-di-mercato: i consumatori sono più produttivi nell’usare il loro tempo non-di-mercato per produrre servizi di loro interesse. Questi benefici, però, non portano a un innalzamento più rapido della produzione dei settori di mercato di quello che è stato misurato, anche se il benessere dei consumatori si è accresciuto. Perciò i progressi nella produzione non-di-mercato appaiono troppo modesti per compensare nel suo complesso la perdita di prosperità derivante da un rallentamento della crescita dei settori di mercato”.

Piuttosto chiaro. Significa che le innovazioni portate da internet e dal mobile stanno sì cambiando il modo in cui lavoriamo, ci divertiamo e comunichiamo, ma hanno un impatto modesto e poco ravvisabile a livello macroeconomico. L’innovazione trasformativa sta avvenendo solo su Internet e non si sta estendendo a nessun altro settore economico. 

Controtesi: non si sta misurando correttamente la produttività 

Una prima osservazione che si potrebbe fare, alla luce del metodo storico, è questa: come si fanno a paragonare le rivoluzioni che nascono da determinati contesti storici, da ben definiti bisogni e dalla cultura e mentalità dei popoli che vivono in epoche così differenti. La prima e la seconda rivoluzione industriale sono andate a impattare le risorse materiali e il loro processo di trasformazione con ricadute decisive sui bisogni primari delle popolazioni e sulle loro condizioni di vita materiale che sono state innalzate a un livello mai visto prima nella storia. 

L’innovazione tecnologica di Internet, dell’e-commerce e dei social media si va a concentrare sui media, sulla comunicazione, sulle relazioni tra le persone e sul tempo fuori dal lavoro, non per un capriccio dei suoi protagonisti o per un lancio di dadi, ma perché verso quella direzione spingono i bisogni delle persone che hanno beneficiato degli esiti delle altre rivoluzioni industriali le quali, una volta compiute come ci dice Gordon, hanno fatto nascere nuove necessità che non sono obbligatoriamente materiali. 

C’è poi da considerare, nella valutazione della produttività così importante per la ricchezza delle nazioni, i modelli relazionali e manageriali che le nuove tecnologie stanno introducendo nel mondo dell’economia, dell’industria e dei servizi. Su questi aspetti siamo lieti di offrire ai nostri lettori le considerazioni di Stefano Pace, associate professor alla Kedge Business School (Francia), contenute nel suo contributo Ha ancora senso misurare la produttività? pubblicato nel recente volume Mind the Change. Capire il futuro per progettare il business del futuro di Alberto Baban, Armando Cirrincione, Alberto Mattiello edito da GueriniNext. Buona lettura! 
 
Produttività e risorse materiali 

Produttività è un concetto ampiamente usato nella letteratura manageriale, scientifica e anche nel linguaggio comune. Questo concetto potrebbe subire variazioni in futuro, in base all’evoluzione tecnologica e di modelli manageriali cui stiamo assistendo. 

Nel suo libro The Rise and Fall of American Growth, Robert Gordon, della Northwestern University, ipotizza che la Rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo abbia avuto effetti sulla produttività più incisivi rispetto alla rivoluzione digitale. La ricostruzione di Gordon apre a molte domande: la produttività oggi è misurata correttamente? Il digitale porta a un paradigma diverso rispetto al passato anche nel concetto di produttività? 

In termini di base, un aumento di produttività significa ottenere più output a partire dagli stessi input. Secondo Schmenner (vedi Roger W. Schmenner, The Pursuit of Productivity, in Product and Operations Management, 10 aprile 2014), studioso di produttività e dell’impatto delle innovazioni tecnologiche, i fattori che determinano un aumento di produttività sono due: riduzione della variabilità (di qualità, quantità e tempo) e la riduzione del tempo di produzione. 

Se un’innovazione tecnologica impatta su una di queste dimensioni o su entrambe, si verifica un aumento di produttività. Questa ricostruzione del concetto di produttività si focalizza?—?come altre?—?sulle risorse materiali e sul loro processo di trasformazione. Tutte le innovazioni tecnologiche hanno apportato una miglioria nelle due dimensioni di variabilità e tempi di produzione. Per esempio, l’invenzione delle macchine tessili e della fabbrica consentirono di produrre beni di qualità omogenea e di ridurre i tempi di produzione. La catena fordista era un’altra innovazione volta a minimizzare le variazioni di output e ad accelerare il processo. Lo sviluppo dei container ha consentito?—?fra gli altri effetti?—?una migliore gestione dei magazzini, dato che i prodotti possono essere trasportati più agevolmente e rapidamente rispetto al passato. 

Un punto di vista concettuale diverso 

Proviamo ad assumere una posizione diversa, uscendo per un momento dal processo produttivo. Infatti l’impatto della digitalizzazione non va necessariamente fatto convergere in toto con quello di automazione industriale. Il digitale esce fuori dalla fabbrica e la rende porosa, anche in senso produttivo, rispetto all’ambiente esterno. Andiamo in mezzo al mercato, fra i clienti. Anche se non sono dentro l’azienda, i clienti possono partecipare alla produttività aziendale. 

Il concetto di co-produttore o prosumer implica che il cliente possa partecipare alla produzione aziendale, seppur indirettamente, e quindi anche il concetto di produttività diventa una scatola che si apre per ospitare nuove modalità di misurazione e nuove concettualizzazioni. 

Se a ciò si aggiunge che il prodotto diventa un terminale di conoscenza e scambio fra cliente e impresa, la produttività aziendale potrà avere nel futuro un’evoluzione. Un prodotto che raccolga e condivida informazioni sulle pratiche di consumo più diffuse potrebbe suggerire all’azienda dei miglioramenti sul nuovo modello. Tali dati potrebbero riguardare anche miglioramenti nei materiali o nel design in grado di rendere il processo produttivo più efficiente. 

Per esempio, immaginiamo una racchetta da tennis smart, parte di un sistema di Internet of Things. Se misurassimo la produttività solo sulla base del singolo prodotto perderemmo la storia delle sue possibili versioni successive, consentite dallo scambio informativo fra prodotto e impresa. La produttività complessiva potrebbe quindi essere misurata sulla base di questo scambio. 

La racchetta raccoglie dei dati che dimostrano l’esistenza di un segmento di giocatori che ha uno stile di gioco e potenza per i quali una racchetta con materiali diversi, magari meno costosi, è consigliabile senza perdita di qualità di gioco. A ogni impiego, la racchetta sta aumentando virtualmente l’efficienza produttiva della sua versione successiva. Se anche tal versione fosse non conveniente oppure non fattibile per altri motivi, la conoscenza ottenuta dall’impresa sarebbe comunque un elemento di potenziale aumento di produttività. Al di là del ritorno di conoscenza, il prodotto diventa un oggetto vivo che può interfacciarsi con i processi interni dell’azienda. 

Tuttavia tale misurazione sarebbe resa complicata (del resto il concetto di produttività presenta sempre lati sfuggenti) dal fatto che non ci sarebbe un momento di vero stop alla produzione, ma solo pause, visto che il prodotto continuerebbe a parlare di sé all’impresa in modo continuo, suggerendo possibili miglioramenti, anche del processo produttivo. Un flusso potenzialmente unico fra consumo e produzione che esprimerebbe una produttività nuova.

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