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La crisi vista dal Baltico/Meno welfare, più flessibilità, tasse alte e la Svezia corre (+4,5%)

La Svezia non è più un paradiso nordico ma sta uscendo dalla crisi alla grande: con i sacrifici e le riforme. Pensioni, sanità, scuola, contratti, privatizzazioni: è cambiato tutto. Perplessità sui problemi della Fiat: alla Volvo il contratto aziendale è la regola. Le tasse sono altissime ma il bilancio è in pareggio e il Pil vola

Kivik (Svezia). “Allora è proprio vero, una faccia una razza”. Il mio amico è appena tornato da Milos, nelle Cicladi, passando per Atene e racconta di un’atmosfera allegra e svagata, mentre imperversava la tempesta sui mercati finanziari. Giornalista economico tra i più conosciuti in Svezia, non nasconde una certa sorpresa luterana verso il modo in cui i popoli mediterranei affrontano le difficoltà, le tragedie persino. Lo conosco da troppo tempo e so che, come me, ama discutere senza rispettare il politicamente corretto. Eppure, questa volta me la prendo a male. “No, non siamo la Grecia”, rispondo. “Certo che no, siete più grandi, il vostro debito pesa molto di più”, replica senza accorgersi di peggiorare la situazione. “Non abbiamo bisogno di salvataggi”, ribatto. A questo punto diventa serio: “Davvero? Mi sembrava che la Bce fosse corsa a salvarvi, violando la regola dell’indipendenza dai governi e rischiando di creare inflazione, insomma contro due pilastri del trattato. Noi siamo fuori, ma la politica monetaria dell’Eurolandia ci tocca, eccome”.

Touché. Il mio amico non è il solo a pensarla così lungo le sponde del Baltico. In questi giorni di chiacchiere sulle spiagge battute dal vento (è stata un’orribile estate piovosa e comincia già a sentirsi l’autunno) o nelle lunghe e chiare serate, davanti a bottiglie di vino da tutto il mondo (questo popolo della birra si è ormai convertito e partecipa a tutte le virtù e i vizi dei neofiti), ho ascoltato pareri di giornalisti, uomini di relazioni pubbliche, manager, imprenditori, diplomatici, un economista vicino di casa che ha lavorato a lungo a Bruxelles. In sintesi, la loro opinione è che siamo diversi dai greci perché loro hanno nascosto la polvere sotto il tappeto, noi la testa nella sabbia. Questa storia che l’Italia se l’è cavata meglio degli altri, non ha mai convinto e adesso trova la sua nemesi. Hai voglia a metter giù distinguo. I fatti parlano chiaro. Il governo costretto a fare una manovra straordinaria un mese dopo quella ordinaria, la stangata fiscale, l’economia che non cresce e probabilmente finisce in recessione, il ministro del Tesoro a rischio licenziamento, forse elezioni anticipate. L’Italia non è la Grecia, ma una faccia una razza.

Certo, fanno presto a giudicare loro che sono solo nove milioni su un territorio vastissimo ricco di risorse. Non hanno il petrolio come i vicini norvegesi, guardati con invidia e ammirazione. Ma il 75% dell’elettricità viene dal nucleare, fonte energetica che il popolo ha rifiutato con un referendum nel lontano 1980, eppure sta ancora lì, sempre più osteggiata dopo l’incidente di Fukushima, in via di superamento, ma senza fretta. La dice lunga su come funzionano le cose in questo paese. Gli svedesi non fanno rivoluzioni, cambiano senza rotture. Il consenso è un must, però non si trasforma mai in un veto. Si discute, si pondera, si decide. Poi si fa.

Non resta più molto del modello socialdemocratico che viene ancora sbandierato come sistema scandinavo. E’ stato modificato negli anni ’90, sotto i colpi di una crisi tremenda. La corona è crollata nel 1992 prima della lira. E’ scoppiata una crisi bancaria da tempesta perfetta che si studia sui libri di testo. Seguita da un triennio di recessione durissima, durante il quale il reddito pro capite si è ridotto tanto che l’Italia in quel periodo si avvicinò di parecchi punti. Il governo moderato di Carl Bildt venne sconfitto alle elezioni. I socialdemocratici con Göran Persson (influenzato dal New Labour di Tony Blair) ridisegnarono il contratto sociale sul quale si reggeva il paese dagli anni ’30. Ora Frederik Reinfeldt, che guida una coalizione di centro-destra, prosegue sulla stessa linea aggiungendo un po’ di privatizzazioni. Quando è scoppiata la crisi del 2008-2009, anche la Svezia ha visto il pil ridursi precipitosamente e l’occupazione cadere con esso. Ma nel 2009 l’economia è scattata come una molla con una crescita del 6% (scende quest’anno al 4,5) mentre il tasso di disoccupazione è tornato dal 10 al 7 per cento. Quel che non è riuscito agli Stati Uniti e nemmeno alla Germania. Miracolo?

 “Noi protestanti non crediamo alle indulgenze e non abbiamo santi cui votarci”, replicano i miei amici. “Abbiamo tirato la cinghia, ma ce l’abbiamo fatta”. Le pensioni sono state riformate fin dalla metà degli anni ’90. La vecchiaia scatta a 65 anni, l’anzianità a 61, ma si può lavorare fino a 67. Il sistema è flessibile, articolato su tre livelli: una pensione base minima, una pensione integrativa pubblica e una integrativa privata (aziendale, professionale o un fondo assicurativo personale). L’indennità è collegata alla media degli stipendi percepiti nella propria vita lavorativa e nell’insieme può arrivare a coprire i due terzi.

“Voi siete ancora dei privilegiati”, replicano i miei amici. Come dar loro torto? Anche tenendo conto che qui le famiglie hanno tra i due e i tre figli, il mercato del lavoro è molto reattivo e i giovani trovano lavoro. Quindi, è più facile finanziare il sistema previdenziale. I tagli alla sanità hanno creato i maggiori problemi, anche per la rigidità del sistema statale che provoca lunghe liste d’attesa. Nell’area di Stoccolma dove si concentra un quinto della popolazione, si è passati da anni a un modello misto, mentre su scala nazionale sono state liberalizzate le farmacie. L’istruzione pubblica ha introdotto da tempo le cosiddette free school che ora David Cameron vuole copiare: istituti che funzionano come imprese private, ma non sono a pagamento; lo studente cioè non ha rette aggiuntive. Il governo centrale e quelli locali negoziano ogni anno una quota. Il resto sta ai presidi e agli amministratori trovarlo e lo fanno per lo più stringendo legami con l’economia a tutti i livelli (fondazioni, imprese, associazioni culturali).

Quanto alle relazioni sindacali, gli svedesi sono stupiti da tutto il can can sulle modifiche decise dalla Fiat. Alla Volvo funziona allo stesso modo. Del resto, l’azienda simbolo della Svezia è passata ai cinesi, con molto rammarico e qualche mugugno, ma niente sceneggiate napoletane né tragedie greche. Qui il contratto aziendale è la norma. E molte condizioni lavorative (pause, orari) vengono negoziate regolarmente in fabbrica. Le tasse restano molto alte, più alte che in Italia, con una pressione fiscale che supera la metà del reddito. La gente paga, anche se nessuno è contento. C’è del nero entro limiti fisiologici. I tycoon si rifugiano in Svizzera come Ingvar Kamprad il patron di Ikea tra gli uomini più ricchi al mondo. Un comportamento criticato, ma di fatto tollerato con quel fariseismo nordico che chiude un occhio purché la regola non cambi.

I conflitti maggiori nascono dall’immigrazione che rappresenta un decimo della popolazione. Per decenni si è seguito il modello integrazionista alla francese. Ora non funziona più. Le donne musulmane vanno in giro coperte. In famiglia vale il Corano e non la legge svedese. La popolazione di Malmö è composta per il 35-40% da immigrati soprattutto islamici. Sul ponte che collega Copenaghen è tornato il controllo dei passaporti. Sale un’onda preoccupante di xenofobia che alimenta movimenti populisti e di estrema destra. Continue tensioni provocano scoppi di violenza nei ghetti come Rosengård, celebre per aver dato i natali a Zlatan Ibrahimovic.

Nessun paradiso nordico, dunque. I miei amici, del resto, non sono cantori dell’innocenza perduta, ma dicono che i sacrifici loro li hanno fatti e hanno portato frutti. Il bilancio pubblico è in pareggio, la bilancia dei pagamenti in forte attivo, la produttività elevata, l’economia è integrata con il ciclo internazionale, i grandi gruppi svedesi sono riusciti a penetrare in Cina, India, nei paesi in via di sviluppo e ciò da loro un buon cuscinetto. Insomma, si può conciliare rigore e sviluppo. E’ il messaggio che, pur tra le enormi diversità, culturali e politiche prima ancora che economiche, questo remoto ma dinamico lembo d’Europa può insegnare ai paesi mediterranei esausti, appesantiti dalla loro storia e viziati dalle cattive abitudini; vizi pubblici, certo, ma, siamo onesti, anche privati. Qui al caffè si sente dire: rimbocchiamoci le maniche; da noi si dice: rimboccatevi le maniche. Qui la responsabilità è di ciascun cittadino; da noi è sempre di qualcun altro.

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