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L’11 settembre della Germania: la guerra Russia-Ucraina segna il crollo finale della Ostpolitik

Per la Germania l’attacco russo all’Ucraina ha rappresentato un doppio elettroshock e la fine di un’epoca cominciata dal mitico cancelliere Willy Brandt: ecco perché

L’11 settembre della Germania: la guerra Russia-Ucraina segna il crollo finale della Ostpolitik

L’attacco russo all’Ucraina è stato uno shock per tutti i paesi della sfera occidentale e non solo per quelli. Ma per la Germania è stato qualcosa di più, è stato un doppio elettroshock. I rapporti di collaborazione politica e di cooperazione economica con la Russia erano un faro della Germania uscita dalla Seconda guerra mondiale. 

Erano un punto fermo non solo per il senso di colpa collettivo verso il popolo russo, che aveva dato il più alto tributo di sangue alla follia nazista, ma anche per la profonda convinzione di dover ricercare una détente irreversibile ad est. La sicurezza, la prosperità e il ruolo della Germania veniva fatta dipendere da una politica di riduzione delle distanze e di congiunzione con la Russia da portare avanti a prescindere dai tipi di regime che si sarebbero trovati nell’area slava dell’Europa. 

Da qui la Ostpolitik avviata dal cancelliere socialdemocratico Willy Brand nel cuore della Guerra fredda e, dopo il crollo del comunismo, l’istaurazione di strettissimi rapporti commerciali e finanziari fino, per alcuni settori come quello energetico, a una quasi integrazione paragonabile a quella avvenuta con le nazioni ad ovest nel campo politico-istituzionale.

Riarmo tedesco

La guerra di Putin ha mandato a carte 48 questo progetto che insieme a quello dell’Unione europea incardinava qualsiasi scelta politica tedesca.

Come scrive la giornalista del “New York Times” Michelle Goldberb, che ha visitato Berlino all’indomani dell’attacco all’Ucraina, la Germania è attanagliata da una sorta di sindrome da 11 settembre. Tutto è sottosopra e niente potrà tornare come prima. 

Adesso è vitale chi comanda in Russia. E se c’è Putin, un uomo solo al comando, bisogna prendere un’altra direzione. Una nuova direzione che includa anche il riarmo. Il riarmo della Germania è qualcosa che evoca la cavalcata dei quattro cavalieri dell’apocalisse, ma la Germania non è oggi né il reich prussiano né quello hitleriano.

Ecco, in versione italiana, quello che scrive proprio la Golbderg che ha incontrato l’élite politica e culturale di Berlino all’indomani dell’ingresso dei carri armati in Ucraina.

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L’irrilevanza dei militari

Nils Schmid, membro del parlamento tedesco e responsabile della politica estera del partito socialdemocratico, mi spiega quale ruolo minore abbiano i militari nella politica del suo paese.

“Un qualsiasi parlamentare del Bundestag, senza particolari incarichi non ha gli stessi contatti con i militari che in genere ha con quasi tutti gli altri strati della società”, dice Schmid. 

La Germania può essere anche un grande esportatore di armi, ma in rapporto alla produzione tedesca “l’industria delle armi non è davvero rilevante” e i politici non si occupano di essa. C’è nella società tedesca un enorme distacco verso le cose militari”, afferma.

Questo stato di cose potrebbe cambiare rapidamente. Poco dopo che Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, il cancelliere socialdemocratico, Olaf Scholz, ha annunciato un cambiamento radicale nella politica di sicurezza nazionale del suo paese. 

La Germania, ha detto, fornirà armi all’Ucraina, mettendo fine alla sua politica di non inviare armi letali nelle zone di guerra. Aumenterà anche la spesa militare portandola a più del 2% del prodotto interno lordo. “È chiaro che dobbiamo investire molto di più nella sicurezza del nostro paese”, conclude Schmid.

Un esercito tedesco

Questo è il messaggio che i politici tedeschi devono ora trasmettere al pubblico. Devono spiegare che “l’esercito è parte dello stato democratico e dovrebbe essere equipaggiato di conseguenza”, con la stessa attenzione che si riserva alle scuole e alle università. Per un americano è un punto di vista – cioè far sì che la gente prenda la guerra sul serio come l’istruzione – che non ti aspetteresti da un tedesco. Ma questo è il segno di quanto l’aggressione di Putin abbia alterato profondamente il sentire della società tedesca.

La Germania non è la sola nazione a voler aumentare la spesa per la sua difesa. La Danimarca ha annunciato di portare le spese militari al 2% del PIL, un obiettivo fissato dalla NATO che la maggior parte degli stati membri non ha raggiunto. Anche la Svezia, che non fa parte della NATO, intende aumentare le spese militari al 2% e il primo ministro del paese ha detto che i giovani dovrebbero prepararsi a servire nell’esercito.

Un cambio di paradigma

Ma l’improvviso cambio nella politica estera della Germania è sorprendente. Dalla seconda guerra mondiale, il militarismo è stato un tabù radicato in Germania. Il paese ha sentito una forte responsabilità verso la Russia a causa delle perdite inflitte ai sovietici in quella guerra.

“Questa aspetto del contributo umano della Russia è qualcosa che gli americani tendono a sottovalutare”, dice Susan Neiman, l’autrice berlinese di Learning From the Germans, un libro sulla Germania alle prese con il suo passato. 

“Perché quando gli americani pensano alla Seconda guerra mondiale, pensano a due cose. Pensano all’Olocausto e pensano agli europei occidentali: Anna Frank, Parigi e così via”. Ma è stata l’Unione Sovietica a subire il maggior onere in termini di vite umane nella guerra, circa 26 milioni di morti.

Il senso di colpa dei tedeschi

Per anni, dice Schmid, c’è stato un’intesa sottotraccia nelle relazioni della Germania con la Russia: “Noi abbiamo riconosciuto la nostra responsabilità nella storia e l’Unione Sovietica e la Russia ci hanno permesso di costruire nuova Germania e di entrare in una relazione normale con loro”. 

In Putin’s World, il libro di Angela Stent del 2019 sulla politica estera di Putin, l’autrice ha mostrato che i leader tedeschi a partire da Willy Brandt, divenuto cancelliere nel 1969, “sono stati determinati a non ripetere mai più il modello storico di ostilità russo-tedesca.”

L’attacco di Putin all’Ucraina ha vanificato questo stato di cose. 

Né incertezze, né ambiguità

Ora molti paragonano lo stato d’animo della Germania a quello degli Stati Uniti dopo l’11 settembre, senza tutto quel patriottismo seguito a quell’evento. In questa settimana ho visto molte più bandiere ucraine a Berlino che tedesche. 

“Non ho mai visto alcuna incertezza o ambiguità scendere su questa città”, dice Neiman, che è direttore del Forum Einstein, un istituto culturale tedesco.

Negli Stati Uniti, l’aggressione di Putin e l’eroica resistenza dell’Ucraina hanno suscitato orrore ma anche una certa compiacenza. Dopo anni di declino americano e di dubbi, un periodo in cui lo slancio politico in patria e all’estero sembrava appannaggio dei populisti pro-Putin come Donald Trump, alcuni vedono nella resistenza ucraina il ritorno di un senso di chiarezza morale su chi sta dalla parte giusta e chi sta da quella sbagliata. 

“Tra le molte conseguenze positive della crisi ucraina c’è la fine della nostalgia repubblicana dell’isolazionismo, sbagliata e in definitiva pericolosa”, scrive Jennifer Rubin del “Washington Post”. 

Nessuno è al sicuro

In Germania non si parla certo di effetti positivi di guerra, non se ne vede neppure uno. “Gli europei sanno adesso che non c’è sicurezza di nessun tipo in Europa di fronte alla Russia”, dice Klaus Scharioth, che è stato ambasciatore della Germania negli Stati Uniti durante la presidenza di George W. Bush e di Barack Obama. 

“Ci si può unire, lo facciamo senz’altro, il che è assolutamente necessario, ma se la Russia rimane sulla strada attuale, allora nessuno è al sicuro, perché ci sono tutte queste armi nucleari tattiche. Hanno anche armi nucleari a raggio intermedio. E possono, se vogliono, distruggere qualsiasi città europea in pochi minuti”.

Più vicino a Lublino che a Parigi

La Germania ha motivo di essere orgogliosa della sua accoglienza dei rifugiati ucraini. Ha fatto di nuovo vedere la “willkommenskultur” che l’ha portata ad accettare un milione di rifugiati mediorientali e nordafricani nel 2015. 

Una grande area della Hauptbahnhof di Berlino è stata trasformata in un centro di accoglienza dei rifugiati. Mercoledì sera, tantissimi volontari – con giubbotti gialli se parlano solo tedesco o inglese e arancioni se parlano russo o ucraino – hanno aiutato i nuovi arrivati a trasferirsi negli alloggi messi a loro disposizione a Berlino o verso gli autobus per altre destinazioni. 

Ma la scena era ancora indicibilmente triste. Centinaia di persone erano state costrette ad abbandonare le loro case e si aggiravano spaurite nei luoghi di accoglienza, alcune erano cariche di bagagli altre con poche valigie. 

Famiglie intere erano stese sul pavimento. Altre persone stringevano gli animali domestici. La catastrofe da cui erano fuggiti non era così lontana; Berlino è più vicina a Lublino che a Parigi.

Un mondo diverso

“Viviamo in un mondo diverso ora”, dice Ricarda Lang, una leader dei verdi quando l’ho incontrata a una manifestazione pro-Ucraina fuori dall’ambasciata russa. 

“Io, come persona, nata nel 1994, sono cresciuta in un’Europa pacifica. Per me, la pace e la democrazia erano qualcosa di scontato”. 

Tale sicurezza, dice, adesso non c’è più. Putin ha annientata un’intera galassia di presupposti post-Guerra Fredda. Nessuno sa quali nuovi paradigmi li sostituiranno.

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Da: Michelle Goldberg, ‘We Live in a Different World Now’: Dispatch From a Changed Germany, The New York Times, 11 marzo 2022

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Michelle Goldberg è columnist Op-Ed per il New York Times dal 2017 e ha fatto parte di un team che ha vinto un premio Pulitzer nel 2018 per il servizio sulle molestie sessuali sul posto di lavoro. È autrice di tre libri: Kingdom Coming: The Rise of Christian Nationalism, The Means of Reproduction: Sex, Power, and the Future of the World, e The Goddess Pose: The Audacious Life of Indra Devi, the Woman Who Helped Bring Yoga to the West. I tre libri hanno ricevuto tutti dei premi.

È stata editorialista di Slate e spesso i suoi lavori appaiono su “The New Yorker”, “Newsweek”, “The Nation”, “The New Republic”, “The Guardian” e molte altre pubblicazioni. È stata corrispondente da paesi come India, Iraq, Egitto, Uganda, Nicaragua e Argentina. Vive a Brooklyn con il marito e i figli.

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