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Italia, per crescere di più bisogna puntare sull’export soprattutto nei Paesi emergenti

La globalizzazione ha aperto nuovi mercati e molte imprese italiane hanno dimostrato di sapersi internazionalizzare ma l’export va sostenuto dal sistema-Paese molto più di quanto sia avvenuto finora.

Italia, per crescere di più bisogna puntare sull’export soprattutto nei Paesi emergenti

Per l’Italia che punta ad azzerare il deficit di bilancio entro il 2013 c’è un altro pareggio, ugualmente virtuoso, che potrebbe realizzarsi intorno, se non prima di quella data. Si tratta, all’interno del nostro export, del pareggio tra la quota delle vendite extra-UE con quelle effettuate nei confronti dei paesi dell’Unione europea. I dati, di tendenza e congiunturali, ci dicono che stiamo marciando in questa direzione. Nei primi sette mesi dell’anno le esportazioni extra-UE dell’Italia hanno raggiunto i 96 miliardi di euro contro i 127 delle vendite intracomunitarie. Ad agosto – i dati dell’export UE saranno disponibili il prossimo 14 ottobre – le esportazioni fuori dall’Unione europea sono salite a 108 miliardi con un tasso di crescita sul periodo corrispondente del 2010 di ben 16,5 punti percentuali. In un panorama congiunturale che lamenta tante ombre, il dato delle vendite extra-europee rappresenta un faro potente. In uno scenario in cui la debolezza dei redditi, le incertezze dei mercati e gli effetti delle manovre fiscali inevitabilmente si ripercuoteranno per qualche tempo sul tono della domanda interna, la solida progressione delle esportazioni extra comunitarie offrirà un’ancora sicura e scriverà una pagina nuova nella tradizione italica di una crescita “export-led”, trainata dalle esportazioni. La novità di questo ulteriore passaggio della nostra storia economica sarà che, sempre più, i fatturati da cercare oltre confine non saranno fuori dall’uscio di casa, ma molto, molto più lontano.

L’export italiano corre sui mercati più lontani. Lo dimostrano le vendite in Cina che, nei primi otto mesi del 2011, sono aumentate di poco meno del venti per cento. Ancor più forti risultano i tassi di espansione delle esportazioni in Turchia, in America latina, in Russia, nel Sud-est asiatico e in India. Fatta eccezione per la Svizzera – dove l’export italiano corre grazie soprattutto agli effetti della drastica rivalutazione del cambio contro euro del franco – la crescita dell’export italiano nel mondo extra-UE è il riflesso delle solide traiettorie di sviluppo economico che le nuove “growth economies” hanno sin qui percorso. L’interrogativo è se la crescita del Mondo Nuovo continuerà agli stessi ritmi. Il giudizio espresso a questo riguardo nelle ultime proiezioni diffuse dal Fondo monetario internazionale è confortante. Nel 2012 il PIL della Cina crescerà di nove punti percentuali, con solo pochi decimi di riduzione rispetto al risultato stimato per quest’anno. Un rallentamento del tutto limitato e, soprattutto, temporaneo avverrà anche in India e in molte altre economie “emergenti”. Valutato su un orizzonte di medio termine l’effetto sulle nuove economie della crisi euro-americana dei debiti potrebbe rivelarsi contenuto.

Fatto pari a cento il dato del 2006, nel 2016 il prodotto interno lordo reale cinese raggiungerà quota 259. Lo stesso esercizio, compiuto sulle proiezioni del FMI dello scorso aprile, attestava la crescita del PIL cinese nel 2016 a quota 260. Lo scarto di appena un punto tra i due profili ci dà la misura di come sia la nostra abitudine tolemaica di confinare il centro dell’economia mondiale alla combinazione tra Area euro e Stati Uniti a impedirci di vedere che, fortunatamente, la locomotiva dell’espansione globale si è spostata altrove. Esiste una metà del Mondo dove il rallentamento economico viene governato, invece che essere subìto. E dove l’incrocio tra i trend strutturali di espansione della demografia, della tecnologia e dei consumi aprirà spazi ulteriori alle importazioni di questi nuovi mercati dal Vecchio Mondo.

Saremo noi in grado di cogliere appieno questi spazi? Nel 2010 la Cina è passata dall’undicesimo all’ottavo posto tra i clienti dell’export italiano. Il Brasile, in soli dodici mesi, si è mosso dalla ventiquattresima alla diciassettesima posizione. La Turchia dalla quattordicesima alla dodicesima. Guardando a qualche settore, nei primi otto mesi del 2011 le vendite italiane di meccanica sono cresciute del 16 per cento verso il Mondo e del 32 per cento in Turchia. L’export italiano di abbigliamento è aumentato del 12 per cento nel Mondo e del 42 per cento in Cina. Accanto ai settori, segnali di grande interesse vengono dai territori. E’ il caso, tra gli altri, dell’Emilia Romagna e, in particolare, della provincia di Bologna. A Bologna nel 2010 la Cina è diventata il quarto mercato di sbocco dell’export provinciale con una quota di circa sei punti percentuali, il doppio del dato regionale e il triplo della quota che la Cina ricopre sulle esportazioni nazionali a livello nazionale. Ciò grazie ad un tasso di incremento dell’export bolognese in Cina che nel 2010 ha superato i sessanta punti percentuali. E, dopo la Cina, l’export bolognese è cresciuto del 35 per cento verso la Turchia e del 26 per cento in India.

Gli esempi, incoraggianti, potrebbero continuare. Ci muoviamo nella giusta direzione. Occorre accelerare, fare di più, perché tutti oggi nel Vecchio Mondo sanno che è sui nuovi mercati che si gioca la sfida decisiva. Una sfida che chiede alle nostre imprese di recuperare velocemente i divari di competitività accumulati negli ultimi anni. Un po’ d’aiuto potrà arrivarci dal riposizionamento in corso del cambio dell’euro su quotazioni più coerenti con i differenziali di crescita tra aree e paesi. Non basta. Ridurre il cuneo fiscale che grava sulla competitività degli esportatori potrebbe dare un ritorno sicuro in termini di crescita del prodotto interno lordo. Una proposta autorevole formulata di recente osserva come, in un quadro di ricomposizione complessiva del prelievo fiscale, alleggerire le aliquote contributive non pensionistiche che ora incidono per l’un per cento del costo del lavoro sopportato dalle imprese determinerebbe un incremento del PIL di poco meno di mezzo punto percentuale nell’arco di un triennio. Sarebbe un “quid pluris” importante, per aiutare la competitività dell’export italiano e mantenere agganciata la nostra crescita alle nuove locomotive dello sviluppo.

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