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INTERVISTA A LEONARDO MAUGERI (Harvard): “Troppa offerta, nel breve petrolio sempre più giù”

L’ex manager Eni aveva previsto due anni fa la caduta dei prezzi in corso per l’impennata della capacità produttiva mondiale. “E’ il risultato di 2.500 miliardi di dollari investiti dal 2010”. E aggiunge: “Lo shale gas Usa non libererà l’Europa dal vincolo della Russia. Il boom del greggio americano sposta gli equilibri, non l’attenzione sui Paesi del Golfo”

INTERVISTA A LEONARDO MAUGERI (Harvard): “Troppa offerta, nel breve petrolio sempre più giù”

Cosa sta succedendo nel mondo del petrolio? Prezzi ai minimi, il sorpasso della produzione Usa su quella dell’Arabia Saudita, la rivoluzione shale… “Il declino dei prezzi, si poteva prevedere già due anni fa”, osserva Leonardo Maugeri. L’ex manager Eni, considerato tra i massimi esperti internazionali di idrocarburi, si divide tra Harvard e la presidenza del hedge fund Ironbark Investment. Proprio per Harvad, dove tuttora lavora come professore associato alla Kennedy School, nel giugno 2012 aveva anticipato la caduta se non il crollo dei prezzi nel 2015 nel suo paper “Oil: the next revolution”. Suscitò parecchie polemiche ma il tempo gli ha dato ragione. A novembre uscirà il suo terzo lavoro per Harvard dedicato al gas e oggi conferma la sua analisi che vede i prezzi del greggio “in ulteriore discesa nel breve periodo. Solo un evento geopolitico dirompente – afferma in questa intervista con First online – potrebbe frenare questo trend. Oppure un rimbalzo potente della domanda di greggio, ma non se ne vedono le condizioni”. “Non mi stancherò mai di ripeterlo: se gli analisti – prosegue – invece di guardare ai modelli econometrici osservassero la realtà delle cose, tutti si sarebbero accorti che il fenomeno della crescita della capacità produttiva, da cui dipende la caduta dei prezzi attuale, era visibile già allora”.

I modelli econometrici a cui si riferisce sono quelli dell’Agenzia internazionale per l’energia?

“L’Aie ha sempre sbagliato le sue previsioni e lo ha fatto ancora fino a pochi mesi fa mantendo il petrolio sopra i 100 dollari. Tuttavia la sua banca dati è la più ampia tra quelle disponibili e tutti la utilizzano come fonte di riferimento ma si tratta di un modello econometrico sbagliato. E lo vediamo anche oggi”.

Qual è allora la situazione?

“La realtà è che ci troviamo di fronte ad un superciclo di investimenti dell’industria petrolifera mondiale, partito nel 2010. In questi quattro anni sono stati spesi circa 2.500 miliardi di dollari complessivamente, dalle national oil company e dalle major, una cifra enorme destinata alla scoperta e sviluppo di nuove riserve di petrolio e gas. Lo chiamo superciclo perché tutto ciò è avvenuto a seguito di un ciclo già robusto di investimenti avviato dal 2003 in poi. La conclusione è che ora sta entrando nuova capacità produttiva frutto di questi investimenti passati”.

In pratica si sta verificando un eccesso di offerta?

“Guardiamo all’Arabia Saudita: produce circa 9,5 milioni di barili/giorno ma potrebbe estrarne 11,5 milioni. Mantiene una spare capacity, cioè una produzione inferiore alla capacità, proprio per evitare un crollo dei prezzi. Abbiamo capacità non sfruttata anche in altre aree come Iraq, Iran e Libia per ragioni diverse che vanno dalla instabilità e alle tensioni interne alle sanzioni internazionali. Se guardiamo alle statistiche sulla capacità produttiva mondiale, che includono greggio, gas natuale liquefatto e biocarburanti si registra una crescita di 100 milioni di barili/giorno in più rispetto a qualche anno fa. La domanda invece è ferma a 93 milioni di barili/giorno, con un eccedenza evidente che si ripercuote sui prezzi. E’ questa la chiave di lettura che mi faceva prevedere, in anticipo sugli altri, il declino dei prezzi nel 2015. E sta puntualmente accadendo nonostante i focolai di crisi politica che ancora esistono in giro per il mondo: hanno frenato la caduta ma non riescono più a tenere i prezzi alti”.

Un altro fattore che sta cambiando la struttura del mercato è la forte crescita della produzione Usa, legata alla rivoluzione shale, che ha superato quella saudita. Anche questo può impattare sui prezzi.

“Dobbiamo tenere presente però che il sorpasso riguarda la produzione attuale ma Stati Uniti e Russia producono al massimo del loro potenziale mentre, come abbiamo visto, l’Arabia Saudita ha una spare capacity di ulteriori 3 milioni di barili e rimane al primo posto della classifica mondiale della capacità produttiva”.

Quali conseguenze geopolitiche può avere l’avanzata degli Stati Uniti negli idrocarburi?

“Sul petrolio gli Usa tornano ad avere il coltello dalla parte del manico nei confronti dei Paesi del Golfo. Ma ho sentito molte analisi inesatte da parte di commentatori che prefigurano un ridimensionamento dell’attenzione Usa su quelle aree. Non è così. Gli Usa sanno perfettamente che se ci fosse una rivoluzione islamica in Arabia, il prezzo del greggio rischierebbe di schizzare a 200 dollari e ciò impatterebbe su tutte le economie mondiali, compresa la loro. E’ vero invece che la minor dipendenza americana dall’import sposta gli equilibri: Canada, Messico e Venezuela sono oggi i maggiori fornitori degli Usa e l’Arabia è scesa al quarto posto”.

Con quali conseguenze?

“Chi esportava negli Usa oggi comincia a trovarsi senza mercato; Paesi che devono riposizionare il loro greggio su altri mercati, in Asia prevalentemente. Vale per l’Angola e la Nigeria ma anche per l’Arabia saudita come abbiamo visto e questo spiega la riduzione di prezzo decisa da Riad in questi giorni. Lo ha fatto per rendere più competitivo il suo greggio rispetto agli altri”.

L’altra grande partita riguarda il gas, soprattutto oggi con la crisi Ucraina che ha riproposto il problema delle forniture all’Europa. Barack Obama ha fatto la voce grossa con la Russia, in molti vedono nello shale gas americano la risposta per tenere a freno lo strapotere della Russia di Putin. E’ d’accordo?

“Gli Stati Uniti sono diventati il primo produttore di gas e possono vantare i prezzi più bassi al mondo. Ma usare questo potenziale in chiave geopolitica è difficile. Innanzitutto perché il basso livello dei prezzi interni sta alimentando un’industria energivora in crescita che esercita una forte pressione sull’amministrazione Obama per limitare i permessi di esportazione. Sanno che ciò porterebbe ad una crescita dei prezzi interni. D’altro lato, per esportare servono terminali di liquefazione nuovi. Il primo sarà pronto nel 2015, altri progetti sono in corso ma ci vuole tempo. Se poi venisse aumentata l’esportazione, lo shale gas americano andrebbe soprattutto verso l’Asia dove i prezzi sono più remunerativi e non verso l’Europa. Inoltre i politici americani sono molto prudenti a concedere permessi all’export e cercano un punto di equilibrio che non penalizzi l’industria nazionale. In conclusione, tra dieci anni la produzione si attesterà tra gli 80 e i 100 miliardi di metri cubi l’anno ma il 60-70% andrà verso l’Asia e solo il 20-30% verso l’Europa. E ciò potrà rendere più liquido il mercato ma non compromettere la politica del gas russa” 


Allegati: Oil: the next revolution

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