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Il boom della produzione shale Usa durerà ancora, ecco perché

DAL BRIEFING DI LEONARDO MAUGERI – ALLEGATO – L’analisi di uno dei maggior esperti internazionali di idrocarburi spiazza molti commentatori pessimisti sulla possibilità dell’attività di fracking di restare competitiva dopo il crollo dei prezzi del petrolio – E la produzione continuerà a crescere con costi in discesa.

Il boom della produzione shale Usa durerà ancora, ecco perché

“Non ho la palla di cristallo e non sono in grado di prevedere cosa diventerà la produzione di shale gas e oil da qui a dieci anni. Guardando all’oggi, tuttavia, i fatti sembrano indicare che la migliorata conoscenza dei segreti intrinsechi allo shale e i continui avanzamenti tecnologici abbiano consentito alle aziende più efficienti di superare l’ostacolo del rapporto prezzi/costi e di prosperare nonostante il crollo dei prezzi” del petrolio.

Leonardo Maugeri, tra i maggiori esperti internazionali in materia di idrocarburi e professore associato alla Kennedy School of government dell’Università di Harvard, con la sua analisi spiazza ancora una volta molti commentatori che si sono lanciati negli ultimi mesi in previsioni catastrofiche sull’impatto negativo del crollo dei prezzi del petrolio sulla produzione shale americana a causa della difficoltà di sostenere i costi di produzione. Il suo ultimo Briefing – Why Us shale keeps booming (Perché lo shale Usa continua a espandersi) – è stato diffuso pochi giorni fa “ a grande richiesta”, come si usa dire, dopo essere stato sommerso, racconta lui stesso, dalle domande di chiarimenti sulla possibile evoluzione dell’attuale complessa situazione del petrolio i cui corsi continuano a precipitare. Una dinamica che lui stesso aveva previsto con ampio anticipo sin dal 2012 e i fatti gli hanno dato ragione.

La rivoluzione shale, dunque “continuerà verosimilmente a sfidare le previsioni più pessimistiche” secondo il manager che ha guidato le strategie Eni per molti anni.L’allarme suscitato dalla caduta dei prezzi del petrolio, a suo giudizio, è dovuto ad una sottovalutazione del potenziale shale che nasce, a sua volta, “da dati non aggiornati, dall’uso estensivo di modelli econometrici che non tengono nel dovuto conto la rapida evoluzione delle conoscenze e della tecnologia nell’arena shale, dalla persistente sottovalutazione degli aumenti di produtività per pozzo, del calo dei costi di perforazione, della carenza di dati specifici riguardo ai diversi costi e alla resa produttiva delle differenti aree esistenti all’interno di uno stesso  campo shale”.

“Al tempo stesso – avverte però Maugeri – l‘intensità di perforazione e le nuove tecnologie in questo campo,  in particolare il pad-drilling (che permette di perforare diversi pozzi orizzontali da un’unica trivella in superficie) hanno compensato il declino significativo della produzione per pozzo semplicemente perforando più pozzi sulla medesima formazione. E sono propenso a credere  che questa intensità perforativa diventerà il vero limite dell’espansione futura per le produzioni shale negli Stati Uniti e nel resto del mondo. In particolare – aggiunge – ciò accadrà nelle aree a più alta densità di popolazione dove l’intensità di perforazione farà emergere i nodi dell’aggressione al paesaggio e dei danni ambientali che rappresentano il lato oscuro della rivoluzione shale. Ma questa è un’altra storia e meriterebbe un’analisi a parte”.

Se sono queste le conclusioni del Briefing 2, che è possibile leggere nella versione integrale in inglese qui sotto, è interessante vedere come Leonardo Maugeri argomenta la sua analisi, ricca di dati esclusivi. La produzione di shale gas è partia da zero nel 2000 ed ha raggiunto i 35 miliardi di piedi cubi/giorno (Bcf) nel luglio 2014. Sta continuando a crescere ed ora è arrivata a 42 Bcf. La crescita si è moltiplicata per 6 volte dal  2008 nonostante i prezzi del gas e il numero di perforazioni siano costantemente scesi e fossero considerati, invece,indispensabili per sostenere la crescita della produzione.

Sorprendente soprattutto se si pensa, osserva ancora Maugeri, che per molti analisti la  maggior parte delle risorse americane fosse considerata troppo costosa per esserre sviluppata e tale da richiedere prezzi di almeno 6$ per Mbtu. Ebbene la produzione ha invece registrato un enorme boom e i prezzi sono crollati tra il 2008 e il 2012 fino a 1,9$ per Mbtu, l’unità di misura internazionale. Sorprendente anche che l’alta intensità di perforazione, condizionje tecnica indispensabile per la produzione shale, sia crollata verticalmente, ma la produzione abbia continuato a crescere.

Cosa è successo allora? Alcuni esempi possono chiarire meglio di ogni altra cosa ciò che è avvenuto. La produzione del  Marcellus shale, probabilmente il più grande campo gas al mondo, è cresciuta di sei volte tra il 2010 e il 2014. I miglioramenti tecnici e la migliore conoscenza dell’attività hanno poi spinto verso un’impennata della produttività dei nuovi pozzi. Analogamente la produzione dei nuovi pozzi è aumentata di 4 volte nel Haneysville shale,un’altro campo di gas, e di 5 volte nell’Eagle Ford (che produce soprattutto shale oil). Infine è più che raddoppiata nel campo di Bakken, ricco di shale oil. “Allo stesso tempo secondo la mia analisi – suggerisce Maugeri – i costi di perforazione e sviluppo sono diminuiti del 40% per singolo pozzo dal 2010 in poi. La combinazione dell’aumento di produttività e del draconiano taglio dei costi – è la conclusione di Maugeri –  spiega perché la rivoluzione shale sia prosperata nonostante il crollo dei prezzi”.

L’altro elemento su cui Maugeri invita a riflettere è la questione delle analisi del “break even” e del costo marginale, due fattori che variano drammaticamente a seconda delle aree all’interno di uno stesso giacimento tanto  che “essere proprieario del migliore o del peggiore appezzamento è l’elemento che fa la differenza tra vincitori e vinti”. Per esempio, Mc Kenzie County nel Nord Dakota è l’area più prolifica della formazione Bakken-Three Forks con un output medio di 350.000 barili giorno, rivela Maugeri, pari a più di un terzo dell’intera produzione di Bakken (1,132 milioni di barili/giorno). Il break even point per Mc Kenzie è di 28$ a barile. Sempre a Bakken, la Divide County produceva in agosto poco più di 35.000 barili ma con un break even di 85$. Soprattutto, l’80% del Bakken oil ha oggi un break even point inferiore a 42$/barile.“Trovare questi numeri è difficile – sottolinea Maugeri – e così molti analisti si rifanno a modelli semplificati che non tengono conto di queste specificità sia suli livelli di break even che di produzione. E ciò conduce a fuorvianti su entrambi”. 

Ma il fenomeno nuovo e significativo in corso è cheil crollo del petrolio sta spingendo le compagnie a chiedere revisioni di prezzo alle aziende fornitrici dei servizi di perforazione, fraking, etc. Richieste destinate al successo, a quanto sembra, con la conseguente generale diminuzione dei costi per l’attività shale nel prossimo futuro. Per quanto riguarda i costi marginali, anche se è formalmente corretto  sostenere che il costo marginale di produzione per Bakken ha un break even point a 85$ a barile, è veramente molto fuorviante – conclude maugeri – non osservare che questo numero rappresenta meno del 3 per cento della produzione complessiva di Bakken. Ecco perché il boom dello shale Usa è destinato a durare.


Allegati: Perch� durer� il boom dello shale Usa.pdf

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