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I salari non crescono più: per sindacati, imprese e Stato è ora di cambiare strategia

Bassi salari, bassa produttività, bassi consumi: nei Paesi europei in crisi come l’Italia sembra di essere tornati ai tempi cupi della pianificazione sovietica – E’ ora perciò che sindacati, imprese e Stato cambino completamente strategia e creino le condizioni per far crescere i salari collegandoli alla produttività e alla contrattazione aziendale

I salari non crescono più: per sindacati, imprese e Stato è ora di cambiare strategia

“The big freeze”, la grande gelata, così l’Economist ha definito la stagnazione salariale che dura ormai da dieci anni e che interessa più o meno tutti i Paesi investiti dalla crisi. I salari non crescono più o crescono troppo poco e questo è un male. A soffrirne non è soltanto la domanda, che diminuisce, ma anche la produttività del lavoro, che ristagna, e la stessa innovazione, cui viene a mancare uno degli incentivi fondamentali, ovvero il guadagno.

“Bassi salari, bassa produttività, bassi consumi”: era questo il compromesso su cui poggiavano le economie pianificate dell’Est le quali, proprio per questa ragione, hanno conosciuto prima una lunga fase di stagnazione (l’era brezneviana) e poi sono crollate. E’ una spirale molto pericolosa, che va spezzata. Come? Con strategie salariali adeguate che, purtroppo, al momento sembrano mancare non solo al sindacato ma anche agli imprenditori e allo Stato.

Cominciamo dallo Stato. Il rinvio per la seconda volta del rinnovo dei contratti di lavoro per i Pubblici Dipendenti può anche essere una scelta obbligata (come dice il Ministro Madia: non abbiamo i soldi!), ma se diventa una regola è una scelta sbagliata. La scelta giusta è la radicale riorganizzazione della P.A. lungo due direttrici fondamentali: l’esternalizzazione delle attività che possono essere assicurate egualmente o anche meglio dai privati e l’apertura alla concorrenza del mercato dei servizi (trasporti, nettezza urbana, energia, sanità, scuola, etc.). 

Lo Stato non è affatto destinato a scomparire come qualcuno paventa, deve soltanto cambiare. Deve cioè accrescere la propria capacità d’indirizzo e di controllo attraverso le Autorità indipendenti e, soprattutto, dotandosi di Stazioni appaltanti super qualificate e adeguatamente remunerate, e deve concentrarsi sulle attività che oggi (domani potrebbe anche non essere più vero) soltanto lo Stato può fare e cercare di farle bene.

Una contrattazione sindacale corretta, che si concentri sul merito, sulla professionalità, sulla produttività e sulla responsabilità di ciascun pubblico dipendente, aiuterebbe certamente ad andare in questa direzione. La trasformazione della Stato nel senso di uno Stato meno invasivo e più incisivo passa anche da un nuovo sistema di relazioni industriali.

Per l’Industria e per gli altri settori produttivi la scelta da compiere è, se possibile, ancora più radicale. Il sindacato italiano da ormai molti anni (almeno dal 1992) non contratta più il salario inteso come corrispettivo di un preciso lavoro. Non contratta più, cioè, i contenuti concreti del lavoro, che sono la fatica, la professionalità, la produttività e la responsabilità. Contenuti che variano da settore a settore, da azienda ad azienda, da lavoratore a lavoratore e che possono essere contrattati soltanto a livello aziendale. 

Da quando furono abolite le “gabbie salariali” (che, in realtà, consentivano di tenere conto della diversità del costo della vita nei diversi territori) e da quando si è affermata la strategia degli aumenti salariali eguali per tutti (sulla base della errata convinzione che lo sviluppo tecnologico e l’organizzazione scientifica del lavoro avrebbero azzerato le differenze fra i diversi lavori). 

Il sindacato ha via via spostato la propria azione su altri terreni. Per l’andamento salariale (considerato da molti una variabile indipendente) si è affidato alla politica dei redditi definita di volta in volta attraverso la pratica della concertazione; per lo sviluppo produttivo ha puntato sui Piani di settore contrattati con le organizzazioni Imprenditoriali e con il ministero dell’Industria mentre per le Riforme (fisco, sanità, etc.) ha puntato direttamente all’accordo col governo bypassando lo stesso Parlamento. 

Tutte queste scelte si sono rivelate, alla fine, sbagliate. Frutto di una cultura politica e sindacale che è oramai giunta al capolinea. Lungo questa via il sindacato italiano ha perso peso all’interno delle aziende senza guadagnarne nella società. Ha imboccato cosi la via della irrilevanza che consente oggi a Renzi di fare spallucce quando Camusso o Landini minacciano scioperi o autunni roventi.

Se non vuole scomparire del tutto il sindacato deve cambiare radicalmente la propria strategia salariale e deve farlo il più presto possibile. Deve ridare centralità alla contrattazione articolata e agganciare l’andamento dei salari a quello della produttività. Deve re-imparare a tenere conto delle concrete condizioni della azienda (accettando la parte di rischio d’impresa che compete ai lavoratori) cosi come deve saper valutare le condizioni economiche e sociali del territorio in cui opera. Questa strategia determinerà certamente delle differenziazioni fra i lavoratori e i territori. E’ assolutamente inevitabile che questo accada ma non è detto che sia un male. 

Del resto, prima che il sindacato imboccasse la via che poi si è rivelata sbagliata le cose funzionavano esattamente cosi. Era la contrattazione articolata che consentiva ai lavoratori di una determinata azienda di conquistare dei miglioramenti che poi il sindacato cercava di estendere, se ci riusciva, a tutti gli altri lavoratori del settore attraverso la contrattazione nazionale, non viceversa. 

Cosi come è con la riduzione del cuneo fiscale, cioè del costo del lavoro, e non con la semplice riduzione del le tasse per i lavoratori, che Il governo può contribuire a creare spazi per aumenti salariali legati all’aumento della produttività, non viceversa. Anche gli imprenditori potrebbero contribuire a questa svolta nella contrattazione salariale. Basterebbe che seguissero l’esempio di Marchionne!

Ma è al sindacato che spetta oggi compiere le scelte più difficili e, purtroppo, almeno sino ad ora non si vedono al suo interno personalità in grado di farlo. 

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