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Guido Rey: un’efficace politica economica è semplice ma non facile. Otto mosse per il rilancio

Non basta azzerare il disavanzo pubblico per garantire la stabilità nè puntare solo sulla produttività per crescere – Per il rilancio dell’economia italiana anzichè affidarsi a strumenti tradizionali occorre far leva su interventi più innovativi che investono l’intelligenza, il ricambio generazionale, la fusione tra Pmi, la vigilanza sui mercati e altro.

Guido Rey: un’efficace politica economica è semplice ma non facile. Otto mosse per il rilancio

Introduzione

Sono venti anni che l’economia italiana si trascina stancamente nella ricerca strumentale delle cause del suo rallentamento, ma c’è sempre qualche ragionevole giustificazione. Unanime era ed è l’accordo sull’esigenza di riprendere la crescita e sulle strategie: aumentare la produttività, ridurre le imposte, migliorare l’efficienza dei mercati, aumentare la competitività con interventi sul mercato del lavoro, ridurre il debito pubblico, modificare le aspettative della speculazione sulla tenuta dell’euro, ecc. L’accordo finisce quando si entra nel merito di chi, come e quali risultati attesi.

L’Italia ha seguito l’evoluzione dell’Uem ma la sua caduta è stata più pronunciata e il rimbalzo solo parziale. Nel 2012 il livello di Pil a prezzi costanti è inferiore del 6,4% a quello del 2007 e negli ultimi venti anni è aumentato solo del 20% (+0,8% annuo).

Gli aspetti internazionali

Il peso dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, questo gruppo comprende anche gli altri Paesi late comer) nel commercio internazionale è aumentato e ha evidenziato una situazione di sovrapproduzione nelle attività manifatturiere tradizionali mettendo in crisi i Paesi industrializzati con la riduzione dei prezzi. Un altro segnale per i Paesi come l’Italia sono i prezzi relativi fra manufatti e materie prime, la cui dinamica è andata a vantaggio di queste ultime. Il problema degli squilibri reali e monetari esiste anche all’interno dell’Uem poiché dopo dodici anni dalla fissazione del rapporto fra le singole monete nazionali e l’euro, si registra un’implicita sopravvalutazione del potere d’acquisto dei Paesi in disavanzo e una sottovalutazione dell’euro sul marco. Per l’area dell’euro si possono avere tre soluzioni: a) il Paese in surplus finanzia il Paese in deficit per consentire ’aggiustamento di produttività e salari; b) il Paese in surplus aumenta la domanda interna e i Paesi in disavanzo riducono la loro domanda ma per un periodo limitato per evitare un avvitamento delle loro economie; c) i Paesi in deficit migliorano la loro competitività aumentando la produttività e la riallocazione delle risorse ma con uno sforzo notevole di innovazione.

L’assenza di una di queste soluzioni, rischia di provocare la disintegrazione dell’Uem, peraltro auspicata da alcune forze politiche, imprese e banche all’interno e all’esterno dell’Unione. Cercare i colpevoli è inutile nelle situazioni di crisi che impongono l’attenzione sulla sopravvivenza.

Quale paradigma

La Commissione europea, i singoli Governi e i mercati finanziari hanno adottato uno schema di analisi economica molto semplice nell’enunciato ma purtroppo confuso nell’individuazione dei nessi di causalità e totalmente avulso dal Pil potenziale. In sintesi, lo schema è la somma, con i rispettivi segni, degli squilibri monetari fra risparmio e investimento di famiglie, imprese e amministrazioni pubbliche e il risultato è lo squilibrio della bilancia delle partite correnti. Per riportare in equilibrio i conti con l’estero (eliminare, così la sopravvalutazione reale dell’euro per l’Italia) è necessario aumentare il risparmio rispetto all’investimento e/o ridurre l’indebitamento pubblico. Privati e Amministrazione Pubblicainteragiscono, ad esempio un aumento del tasso d’interesse per ridurre il deficit esterno favorisce il risparmio e deprime gli investimenti  ma questo riduce la domanda effettiva e quindi il Pil e inoltre aumenta la spesa pubblica per interessi e quindi il disavanzo pubblico.

Il Pil risultante sarà inferiore alle attese e lo stesso sarà per i profitti attesi e per gli investimenti e si rischia, perciò, un avvitamento nella crisi. Analogo imbarazzo lo crea il contenimento della spesa pubblica oppure l’aumento delle entrate e se la deflazione si prolunga nel tempo si aggravano le aspettative e quindi puntando solo sul riequilibrio dei saldi è difficile attivare l’uscita dalla crisi.

Lo schema richiamato si applica bene a una situazione di eccesso di domanda ma non altrettanto bene se il problema è la competitività nei confronti dell’estero. In particolare, lo schema liberista trascura la distribuzione funzionale del valore aggiunto fra profitti, salari, interessi e rendite ma la stabilità dei prezzi è preservata se l’aumento dei salari è compatibile con l’aumento della produttività, mentre l’aumento dei profitti realizzati e di quelli attesi dovrebbe indurre gli imprenditori a investire e quindi a innovare.

Nell’ambito dell’Uem, la sintesi di uno squilibrio fra le dinamiche della produttività e dei salari non è l’inflazione come si osservava sino all’inizio degli anni novanta ma è la disoccupazione e c’è il rischio di provocare una variazione negativa del Pil che sposta la distribuzione del valore aggiunto: a) dalla manifattura al terziario perché il terziario è un settore protetto rispetto alla concorrenza estera b) dai profitti ai salari per la relativa rigidità del salario e dell’occupazione c) dal profitto alla rendita poiché le imprese dei settori protetti ( terziario e monopoli) difendono il loro tasso di profitto e reagiscono alla riduzione dei ricavi con un aumento dei prezzi, peggiorando, così, lo squilibrio di sottoccupazione.

Accertato che per i Paesi dell’Uem la stabilità interna ed esterna è l’obiettivo primario e che il richiamo alla crescita economica è solo un atto politicamente necessario ma non prioritario, se si intende aumentare la produzione reale deve aumentare la produttività del lavoro e/o l’occupazione, a parità di tasso di profitto, ma quale produttività?

La produttività strutturale del lavoro dipende dal capitale produttivo disponibile, dalla professionalità del lavoro, dal progresso tecnologico e dai miglioramenti nei prodotti, nei processi e nell’organizzazione (ossia dall’innovazione). La produttività congiunturale dipende dalla domanda aggregata e dall’andamento del ciclo, presente e atteso, perciò una politica deflazionistica, nel breve periodo, diminuisce la produttività congiunturale e quindi quella totale che è la somma ponderata delle due produttività. L’aumento della produttività, durante una fase deflazionistica, si ottiene solo con la chiusura degli impianti marginali e il licenziamento del personale meno produttivo ossia intervenendo sulla produttività strutturale.

Un altro argomento collegato ai prezzi relativi segnala che con l’innovazione tecnologica una parte del capitale diventa obsoleto e pertanto anche in questo caso la produttività aumenta solo con la chiusura degli impianti (es. chiusura di imprese non dotate di servizi Ict, oppure con impianti Energy intensive). Esiste, anche, un’obsolescenza tecnologica dell’imprenditore e/o del manager simile a quella che grava sul capitale e sul lavoro e dovrebbe essere il mercato a segnalarla ma sono quasi venti anni che si conoscono queste rigidità imprenditoriali.

Analizzato il tema della produttività l’altro elemento che influenza la competitività è il costo del lavoro. Il salario e la occupazione risultante dipendono dalla domanda e offerta di lavoro, la prima influenzata dalla tecnologia e dall’organizzazione dell’impresa la seconda dallo stato di necessità, dal ruolo economico e sociale della donna, dalla professionalità del lavoratore, per non parlare di immigrazione, emigrazione, potere di mercato del lavoratore e dell’imprenditore e dei rispettivi sindacati, ecc. Assume rilevanza per la competitività e quindi per l’occupazione, l’altezza del cuneo fiscale fra costo del lavoro e busta paga del lavoratore. Tutti questi elementi contribuiscono a determinare il tasso di attività, la segmentazione del lavoro, la reputazione sociale del disoccupato ma anche la dimensione dell’economia sommersa.

Il progresso tecnologico produce il mismatching fra domanda e offerta del lavoro ossia fra la professionalità richiesta dall’impresa e la professionalità offerta dal lavoratore. Questa disoccupazione ha, quindi, una causa esterna al mercato e il costo lo paga soprattutto il lavoratore che si dice non sia professionalmente in grado di utilizzare le nuove tecnologie anche se basterebbero pochi mesi di formazione per colmare il gap professionale per la maggioranza dei lavori e dei lavoratori coinvolti.

L’uscita dalla crisi

Un primo passo verso la ripresa è il recupero del 7% perso dal PIL negli ultimi cinque anni, non è un traguardo ambizioso ma difficile da raggiungere in tempi brevi. La produttività dovrebbe aumentare del 3% all’anno, la disoccupazione dovrebbe restare costante, il tasso di accumulazione aumentare di 2 punti e il saldo della Bpc recuperare quasi 3 punti percentuali in rapporto al Pil. Gli indicatori di riferimento del quinquennio precedente la crisi sono: crescita del Pil (1% annuo), produttività ferma, tasso di disoccupazione (7%), tasso di accumulazione (21%), Bpc (-1,4% del Pil), niente di entusiasmante.

Nel prossimo biennio non potranno verificarsi cambiamenti strutturali nella dotazione di capitale e neanche nella distanza fra Pil congiunturale e Pil potenziale ma è auspicabile che si possa almeno invertire il segno delle aspettative. L’avvio di questo processo lo devono dare le imprese individuando le innovazioni e facendo gli investimenti, almeno in parte finanziati, dalle banche e dai mercati finanziari. Il passo successivo è l’aumento della produttività strutturale cui si somma algebricamente la fuoriuscita delle imprese marginali.

L’aumento dell’efficienza e le innovazioni consentono un aumento delle esportazioni italiane e una riduzione delle importazioni competitive e quindi crescono i salari, i profitti e la domanda interna. Con la maggiore produzione cresce la produttività congiunturale e l’occupazione. Il punto debole dello schema è il settore dei servizi con le sue rendite ma non sarà possibile rendere efficiente il terziario finché non sarà chiaro che manifattura e servizi, nel prossimo futuro, dovranno essere complementari specie nei processi di innovazione. E’ indispensabile trasferire l’efficienza dalla manifattura ai servizi e suscitare l’attenzione alla domanda e alla soddisfazione del cliente nella manifattura.

In questo paradigma le banche svolgono un ruolo di sostegno finanziario alle imprese efficienti e dinamiche e il settore pubblico attiva politiche industriali finalizzate alla crescita. E’ relativamente facile trovare l’accordo su questi argomenti ma il passo successivo è chi e come: a) identificare le innovazioni; b) convincere le imprese a fare cospicui investimenti; c) finanziare questi investimenti posto che le banche temono, inizialmente, i rischi di insolvenza dei loro clienti innovatori, specie se medio-piccoli; d) mantenere la stabilità della distribuzione macroeconomica del valore aggiunto. Le tecnologie sono disponibili e l’unione fra informazione, conoscenza e ricerca richiede una sistematica interazione fra nuove tecnologie e nuove professionalità.

È dimostrato che il nanismo e il sommerso delle imprese impediscono la diffusione delle nuove tecnologie e nuove professionalità, salvo per i giovani imprenditori con formazione elevata. E’ opportuno ricordare che il differenziale di produttività del lavoro fra le piccole imprese e le imprese con oltre 1000 addetti è di 1 a 4. A questo si aggiunge la difficoltà del ricambio generazionale che riguarda anche la media e la grande impresa.

L’aspetto più difficile e controverso è chi e come si possono riequilibrare i prezzi relativi fra manifattura, terziario e rendita, ossia come fare funzionare correttamente i mercati automaticamente e/o mediante controlli per tutelare l’efficienza sistemica e la posizione dei consumatori/clienti. Finora le esperienze non hanno segnalato interventi significativi da parte delle Autorità.

Quali politiche

Il primo punto da evidenziare è la fine della Pubblica amministrazione come struttura centralizzata e monolitica e la sua trasformazione in un insieme di amministrazioni pubbliche. Questi cambiamenti istituzionali e le conseguenti interferenze fra i diversi livelli di governo hanno ridotto l’efficacia delle politiche economiche e accresciuto i timori di corruzione/concussione. Raramente gli obiettivi del Governo centrale coincidono con quelli delle Regioni e il federalismo all’italiana sta mostrando i suoi limiti nell’attuale crisi.

Le politiche richiedono strumenti efficienti, efficaci e tempi certi e le analisi suggeriscono di:

1) rimodulare sia la spesa pubblica sia il Fisco per renderli coerenti con gli obiettivi della crescita, della competitività e dell’efficienza dei servizi pubblici e privati. Riqualificare la spesa pubblica riducendo gli acquisti di prodotti e spostandola verso i servizi integrati forniti da manufatti a elevata tecnologia.

2) Snellire e razionalizzare i servizi amministrativi che devono essere riportati all’interno delle AP per ridurre i costi per le amministrazioni e per cittadini e imprese limitando i casi di supplenza da parte dei privati (patronati, commercialisti, ecc.).

3) Privatizzare i servizi pubblici non essenziali individuati dalla teoria e dai programmi elettorali per ridurre le perdite e il debito pregresso.

4) Vendere le proprietà mobiliari, immobiliari e i beni demaniali è una manovra di finanza straordinaria ma è indispensabile individuare correttamente i tempi e i possibili acquirenti evitando soluzioni affrettate. La loro svendita favorisce gli amici e gli investimenti dell’economia criminale.

5) Compiere uno sforzo finanziario per ridurre il debito sommerso delle AP con la collaborazione delle banche tesoriere. E’ però indispensabile migliorare il processo di fatturazione (es. fatturazione elettronica) coinvolgendo fornitori e banche ma anche semplificare e rendere più controllabile gli obblighi fiscali che gravano sulla fatturazione.

6) Fiscalizzare i contributi sociali per le imprese che investono in nuove tecnologie e non licenziano; l’integrazione salariale deve avere un tempo definito e l’attivazione delle innovazioni deve essere controllata.

7) E’ inutile fiscalizzare gli oneri sociali sulle imprese marginali che invece andrebbero chiuse e si può prevedere una copertura di reddito minimo anche per i piccoli imprenditori. Si riducono i costi di sistema e si rende più efficiente la individuazione delle evasioni fiscali e parafiscali.

8) Incentivare le fusioni fra Pmi per migliorare la produttività e la crescita delle startup e spin off con interventi che possano tenere conto del rischio associato a queste iniziative. In questo caso un ruolo strategico lo devono svolgere le università, i centri di ricerca e le grandi imprese. La politica monetaria non può avere effetti positivi senza un convinto e duraturo impegno delle banche a finanziare gli investimenti innovativi e a ridurre il capitale circolante delle imprese, altra anomalia dell’economia italiana.

Conclusione

Il sistema economico è una struttura complessa e interconnessa che non può essere sezionata per aggiustarne i singoli elementi. Non basta avere come obiettivo l’azzeramento del disavanzo pubblico per garantire la stabilità oppure puntare solo sull’aumento della produttività per crescere.

La crescita attesa rende più accettabile i sacrifici necessari per riequilibrare i conti pubblici e la bilancia dei pagamenti correnti. Gli strumenti non possono essere quelli tradizionali perché da anni sono bloccati (bilancio pubblico) oppure fuori controllo nazionale (liquidità e tassi di interesse) ma strumenti non tradizionali sono invece l’intelligenza, la conoscenza, il cambiamento generazionale, la fusione delle Pmi, la vigilanza sul funzionamento dei mercati, la reingegnerizzazione dei processi in seguito ai cambiamenti tecnologici, ecc. e su questi strumenti si possono basare gli interventi più incisivi anche se innovativi e complessi.

Neanche le riforme si sottraggono ai condizionamenti istituzionali, operativi e ai veti che rallentano l’azione di Governo. Non è mai chiaro se l’unanime e sovente acritica adesione alla politica delle riforme derivi da un condiviso scetticismo sull’efficienza e sull’efficacia degli interventi ordinari oppure sia una scelta dettata dal realismo, dalla speranza e/o dall’esigenza di prendere tempo.

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