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Google, la sua metamorfosi e il lancio del primo Quantum computer

il New York Time Magazine ha condotto una approfondita inchiesta sulla realtà e suoi cambiamenti di Google che merita di essere conosciuta e meditata

Google, la sua metamorfosi e il lancio del primo Quantum computer

Google Translate: da qui si parte 

Google Translate, ormai da un po’, non è più argomento che surriscalda. È divenuto una delle tante componenti, neanche la più seducente, all’interno dell’offerta dell’azienda di Mountain View. A distanza di qualche anno dal suo rinnovamento possiamo dire che le promesse fatte allora, almeno in parte, sono state disattese, i proclami a dir poco ottimistici, figli anche del marketing, non sono stati pienamente corroborati dai fatti. 

I traduttori non sono scomparsi, anche se non se la passano poi tanto bene. La traduzione automatica non ha raggiunto quegli standard auspicati di elevata qualità. Per alcune lingue (inglese in testa) i risulti sono notevoli. Dovremmo dunque considerare Google Translate una sorta di piccola bolla della traduzione automatica? 

Niente affatto. La vicenda di Translate, nel suo piccolo, rappresenta un ottimo esempio di quello che è oggi il fenomeno dell’IA: innovazione, profonda trasformazione, stravolgimento di paradigmi. Ma anche fortunata convergenza tra possibilità tecniche ed idee visionarie, bistrattate utopie sino al giorno prima. Un fenomeno che al contempo presenta anche un lato oscuro, l’altra faccia della medaglia che brilla assai di meno. 

L’altra faccia della medaglia 

Quella della propaganda pervasiva, concorrenza feroce, guerra spietata per accaparrarsi i migliori cervelli, parossistica ricerca dell’efficienza, sfrenata ed incondizionata rincorsa del profitto.  C’è anche indifferenza e disinteresse verso ciò che è altro da sé, con una pericolosa predilezione per l’imposizione di un pensiero unico. Del resto in questo mondo non esistono mezze misure, sul campo rimangono solo vincitori e vinti. Per gli sconfitti, poi, non è prevista alcuna clemenza: “Winners take all!” 

Con questo articolo proponiamo una serie di riflessioni su Google Translate. Sono ricavate da un lungo servizio effettuato dallo staff giornalistico del “New York Time Magazine”. L’argomento del servizio è la metamorfosi profonda di Google che l’ha portata a cavalcare l’onda impetuosa dell’intelligenza artificiale ed ottenere, in pochi mesi, risultati sorprendenti.

Sono state avanzate critiche sia al suo autore, tacciato di nutrire «… ottimistiche fantasie fantascientifiche», nonché allo stile giornalistico del quotidiano di New York, definito “sgargiante” ed accusato di «… creare una suspense artificiale ex-nihilo». Critiche almeno in parte fondate, vuoi per la presenza talvolta di un’eccessiva enfasi, vuoi per una narrazione talora un po’ trionfalistica e genericamente acritica. 

Un bell’esempio di giornalismo investigativo 

Dunque perché riproporlo in traduzione al lettore italiano? Perché è un resoconto pregevole che descrive, in maniera minuziosa ed accessibile a tutti, il percorso che ha portato alla creazione, questa si quasi ex-nihilo, di una infrastruttura all’avanguardia. Perché fornisce preziosi insights, dall’interno, dei processi, le associazioni di menti ed idee, il convergere di visioni anche distanti, gli esperimenti riusciti ed infruttuosi. Sono le alchimie improbabili tra persone provenienti da luoghi disparati, persino remoti, che hanno portato al successo finale. 

Perché, nondimeno, restituisce un volto ed una connotazione umana, addirittura dei difetti, a quegli attori. Tecnologi spesso distanti, confinati nel chiuso dei laboratori e circondati da un’aura mitica, idolatrati dagli addetti ai lavori e sconosciuti ai più. 

E tutto questo lo fa in maniera mirabile. In ultimo, vuoi anche per quegli elementi biasimati di giornalismo “sgargiante”, per altri magari solamente “evocativo”, la lettura risulterà senz’altro piacevole e non mancherà, ne sono certo, di appassionare il lettore. 

Buona lettura e prendetevi il tempo per farlo! 

. . . 

Capitolo 1. Google: in hoc signo vinces 

AI-First: machine learning 

Era il 2016, l’anno in cui l’intelligenza artificiale è divenuta adulta. Allorquando Sundar Pichai, CEO di Google annunciò la trasformazione dell’azienda da “mobile first” ad “AI-first”. erano in pochi ad essere pienamente consapevoli di cosa questo significasse nella realtà. Oggi, a distanza di qualche anno, possiamo affermare che l’AI-first è divenuto un vero e proprio mantra per le aziende della Silicon Valley e non solo. Ha avuto un protagonista indiscusso: l’apprendimento automatico (machine learning). 

A Google, osserva Terrence J. Sejnowski (The Rise of Machine Learning; 2018), l’apprendimento automatico risulta ubiquo: «Il deep learning viene oggi utilizzato da Google in oltre 100 servizi, da Street View ad Inbox Smart Reply e alla ricerca vocale». Il machine learning nelle sue varie declinazioni (il deep learning ne è una branca), consente agli algoritmi di apprendere in maniera più o meno indipendente: Li rende anche efficienti grazie all’abbondanza di materia prima a bassissimo costo (o finanche nessuno): i Big Data. Come rileva Sejnowski: 

«I dati sono il nuovo petrolio. Gli algoritmi di apprendimento sono raffinerie che estraggono informazioni dai dati grezzi; le informazioni possono essere utilizzate per creare conoscenza; la conoscenza porta alla comprensione; e la comprensione conduce alla saggezza». 

Reti neurali 

Alla base dell’apprendimento automatico vi sono le cosiddette reti neurali, la cui architettura si ispira a quella del nostro cervello. Queste ultime non necessitano di essere programmate per svolgere un determinato compito. Data una condizione di partenza (input) ed una finale (output), attraverso un processo incessante di tentativi ed errori (trials and errors), le reti neurali imparano a trovare in autonomia una soluzione. 

Esse “apprendono” in una maniera molto simile a quella del bambino che va alla scoperta del mondo che lo circonda. Un totale sovvertimento di paradigma! Come rimarca acutamente Alex Beard (Natural Born Learners, 2018), possiamo immaginare le reti neurali come un processo che rispecchia “l’evoluzione”. Per contro la programmazione «richiama la creazione». 

Il machine learning ha consentito progressi repentini in alcuni settori che languivano da tempo, come il riconoscimento vocale, il riconoscimento delle immagini, lo speech to text, etc. Oggi lo utilizzano moltissime applicazioni, le più disparate, basti pensare ad es. alle vetture a guida autonoma. 

Dall’Artificial Intelligence all’Artificial General Intelligence 

Per Pichai il giorno in cui vide l’IA emergere dal chiuso dei laboratori rappresenta un ricordo indelebile. 

«Era il 2012, [ero] all’interno di una stanza con una piccola squadra, ed eravamo in pochi», rammenta. Tra quei pochi Jeff Dean, una leggenda nell’azienda di Mountain View. Stava lavorando ad un nuovo progetto e voleva che Pichai, all’epoca Senior Vice President, gli desse un’occhiata. Questi ricorda anche che c’era qualcuno che scherzava. Dalle risorse umane avevano inquadrato in qualità di stagista un neo assunto: niente di meno che Geoffrey Hinton, “il padre del Deep Learning”! «Ogni volta che Jeff vuole aggiornarti su qualcosa, ti senti semplicemente salire l’eccitazione», aggiunge Pichai. 

Jeff Dean, con Andrew NG ed altri, aveva messo a punto un’enorme rete composta da 16.000 processori su 1000 computer. Erano in grado di stabilire un miliardo di connessioni. Una struttura senza precedenti sino ad allora, costruita sul modello del cervello umano. Però ancora di gran lunga inferiore rispetto alla capacità di quest’ultimo di stabilire, con le sue sinapsi, più di 100.000 miliardi di connessioni. Si trattava invero di una gigantesca rete neurale! 

L’epifania di Sundar Pichai 

Pichai ricorda di aver avuto una sorta di premonizione: «Questa cosa era destinata a crescere e forse avrebbe rivelato il modo in cui funziona l’universo … Questa sarà la cosa più importante su cui l’umanità abbia mai lavorato». 

Sino a quel momento erano in pochi dentro Google a comprendere appieno il potenziale dell’intelligenza artificiale. Ad occuparsi dell’IA era deputata principalmente Google Brain, fondata all’inizio del 2010. A Brain in seguito si è aggiunta Deep Mind, acquisita nel 2014. Allorquando Pichai, divenuto CEO, ha imposto l’imperativo dell’IA First, queste due divisioni hanno rappresentato le punte di diamante della ricerca sull’Intelligenza Artificiale in casa Google. 

Entrambe hanno prodotto notevoli risultati. Tra questi anche la rivoluzione che, grazie a Brain, ha traghettato Translate e la traduzione automatica in genere nella nuova era del machine learning. 

Nondimeno quello che gli scienziati ricercano e le aziende bramano, va ben al di là del machine learning e delle sue molteplici applicazioni. L’obiettivo che la ricerca si prefigge è quello di pervenire ad una Artificial General Intelligence.

Un’intelligenza artificiale duttile, in grado di apprendere ed affrontare con successo qualsiasi compito che possa svolgere un umano. Nonostante questo rappresenti lo scopo dichiarato di Deep Mind, questo traguardo appare ancora molto lontano. Il suo fondatore Demis Hassabis parla del progetto come una sorta di “Manhattan Project” per l’Intelligenza Artificiale.

AI working for everyone 

Sarà forse anche per questo che Pichai ha annunciato una nuova trasformazione dell’azienda: da “AI First” ad “AI working for everyone”. Ha dichiarato il CEO di Google: «Grazie ai progressi dell’intelligenza artificiale, Google sta superando la propria missione principale, [quella] di “organizzare l’informazione mondiale. Ci stiamo trasformando da un’azienda che vi aiuta a trovare le risposte ad un’azienda che vi aiuta a fare le cose… Vogliamo che i nostri prodotti si impegnino maggiormente per voi nel contesto del vostro lavoro, della vostra casa e della vostra vita». 

Una trasformazione che sembra influenzare anche Translate, laddove l’obiettivo non è più eguagliare il livello delle traduzioni dei professionisti bensì un altro. Lo spiega Barak Turovski: « Il nostro obiettivo … è quello di sviluppare un prodotto che serva alle persone comuni nella vita di tutti i giorni, aiutando per esempio gli utenti dei Paesi in via di sviluppo, che usano Internet per la prima volta, a rompere le barriere linguistiche, o semplicemente facilitando la comunicazione durante una vacanza. È un uso diverso dalla traduzione professionale». 

Un disegno, in ultimo, che appare in linea con la principale missione che Google si attribuisce: “migliorare significativamente la vita di quante più persone possibile”. 

Verso il quantum computing 

Nondimeno la portata dell’influenza di Google va ben al di là dell’ambito “users”. Moltissimi sviluppatori esterni (dalle start-up alle corporations) utilizzano strumenti frutto dell’IA a marca Google. Da più parti si sollevano voci in merito al fatto che l’azienda di Mountain View sia “too big”. 

Ma non basta, come osserva Katrina Brooker: «Attualmente vi sono milioni di dispositivi che utilizzano Google AI e questo è solo l’inizio. Google è sul punto di raggiungere la cosiddetta quantum supremacy». 

Qualora divenisse realtà concreta il quantum computing, allora ci troveremmo di colpo proiettati nel futuro. Si tratterebbe di un momento di frattura nella storia dell’umanità come pochi altri. Osserva Greg Brockman, cofondatore di OpenAI: «Considerate quali tipologie di intenzioni desiderereste che avessero avuto coloro che hanno inventato il fuoco, avviato la rivoluzione industriale o [sviluppato] il potere atomico». 

Le grandi corporation Hi-Tech, che lo si voglia o no, hanno enormi responsabilità non solo riguardo la costruzione del tipo di mondo in cui viviamo oggi. Ma ne possiedono paradossalmente ancor di più nei confronti del mondo che verrà domani. Responsabilità che tali aziende cercano di ignorare, eludere ed evadere in ogni modo. Finora non sono serviti a granché regole e comitati etici vari, nonché proclami e dichiarazioni di intenti sempre più generiche. Google non fa eccezione. Come rileva Peter Thiel: «Impegnati a migliorare in modo significativo la vita di quante più persone possibile” – [rappresenta] uno standard talmente vago da sottrarsi a qualsivoglia contestazione». 

Il lancio del primo Quantum computer 

Il 23 settembre 2019, Google ha dichiarato di aver costruito il primo computer quantistico in grado di eseguire calcoli che superano la capacità di elaborazione dei super computer più potenti di oggi. Si è trattato di un momento molto atteso dalla comunità di ricercatori e tecnologi. 

Lo staff del “Financial Times” riferisce di aver letto un articolo di alcuni ricercatori di Google, pubblicato sul sito web della Nasa. L’articolo è stato prontamente rimosso. 

I ricercatori di Google affermavano che il loro processore quantico era in grado di eseguire un calcolo in 3 minuti e 20 secondi, quando Summit, il super computer più avanzato e potente di oggi, impiegherebbe circa 10.000 anni a fare la stessa operazione. 

Sempre secondo i ricercatori di Google si è raggiunta la “supremazia quantistica”: «Si tratta di un’incredibile accelerazione rispetto agli algoritmi classici. A nostra conoscenza, questo esperimento segna il primo calcolo eseguito da un processore quantico». 

Il sistema può eseguire soltanto un unico calcolo di tipo altamente tecnico. L’uso di macchine quantistiche per risolvere problemi più generali è lungi dal venire. Ma i ricercatori di Google sono convinti che si tratta di «una pietra miliare verso il calcolo quantistico su vasta scala». 

La potenza delle macchine quantistiche si espanderebbe a un “tasso esponenziale doppio” rispetto a quello postulato dalla Legge di Moore per i chip di silicio della prima era dell’informatica. 

Un rapporto di novembre 2018 del Boston Consulting Group affermava che il quantum computing «cambierà le regole del gioco in campi come la crittografia, la chimica, la scienza dei materiali, l’agricoltura e la farmaceutica. Per non parlare dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico… logistica, produzione, finanza ed energia». 

Steve Brierley, fondatore di Riverlane, una start-up di software quantistici, ha commentato l’esperimento condotto da Google: «Si tratta davvero una pietra miliare significativa, è la prima volta che qualcuno ha dimostrato concretamente che i computer quantistici sono di un’altra classe rispetto ai computer tradizionali. È un risultato straordinario.» 

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