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Globalizzazione addio? Per il Financial Times gli antiglobalizzatori cadono in 7 errori madornali: ecco quali

Secondo il celebre editorialista del Financial Times, Martin Wolf, di cui riportiamo il commento in versione italiana, la globalizzazione non è affatto morta ma sta cambiando: ecco come

Globalizzazione addio? Per il Financial Times  gli antiglobalizzatori cadono in 7 errori madornali: ecco quali

Questa settimana vi vogliamo proporre la lettura di un intervento sul “Financial Times” di un molto lucido e determinato Martin Wolf. L’intervento di uno degli osservatori più influenti del mondo verte sul dibattito in corso sulla globalizzazione e sulle sue fortune. 

Contro la globalizzazione, che nelle sue forme attuali si potrebbe far partire dall’ingresso della Cina nella WTO nel 2001, soffiano poderosi venti contrari e indubbiamente si sta andando verso una complessiva ridefinizione del commercio mondiale e delle stesse strutture economiche plasmate su quel modello. 

Un processo che non è come un bicchier d’acqua e nei confronti del quale si fanno avanti le più disparate ed eccentriche teorie. 

La globalizzazione non è morta, scrive Wolf. Forse non sta neppure morendo, ma sta cambiando. In questo processo, anche le istituzioni che la rappresentano, in particolare l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), sono costrette a cambiare. Stiamo andando verso un mondo differente e molto più difficile. Ma, nell’impostare la nostra nuova rotta, dobbiamo evitare alcuni errori. Eccone almeno sette.

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1. Concentrare l’attenzione solo sul commercio

Il primo è quello di concentrare l’attenzione soltanto sul commercio. Come ha osservato Maurice Obstfeld, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, l’attuale fluidità dei mercati globali dei capitali ha generato ondate di crisi finanziarie, portando pochi evidenti benefici. Non si presta abbastanza attenzione a questo stato di cose, soprattutto perché gli interessi a favore dei liberi flussi di capitale sono molto forti e il loro impatto economico è molto difficile da comprendere per la maggior parte delle persone.

2. Considerare la globalizzazione una catastrofe

Il secondo è la comune percezione che l’era della globalizzazione sia stata una catastrofe economica. Non è stato così. In un recente promemoria Douglas Irwin del Dartmouth College osserva che tra il 1980 e il 2019 quasi tutti i Paesi sono diventati sostanzialmente più ricchi, la disuguaglianza globale è diminuita e la quota della popolazione mondiale in condizioni di estrema povertà è scesa dal 42% del 1981 ad appena l’8,6% del 2018. Non mi scuso per aver sostenuto politiche che hanno dato tali esiti.

3. Collegare la disuguaglianza al commercio

Il terzo è l’idea che l’aumento della disuguaglianza in alcuni Paesi ad alto reddito, in particolare negli Stati Uniti, sia il risultato dell’apertura al commercio o, almeno, una conseguenza necessaria di tale apertura. L’evidenza e la logica dicono il contrario. In effetti, questo è un sopraffino esempio di “economia del lampione”, cioè dell’espediente di concentrare l’attenzione e la colpa dove la politica proietta la luce più forte. È facile incolpare gli stranieri e invocare le barriere commerciali. Ma queste ultime sono una tassa sui consumatori a beneficio di tutti coloro che operano in un settore specifico. Sarebbe meglio tassare e ridistribuire il reddito in modo meno arbitrario e più equo ed efficiente.

4. Incolpare la mancata autosufficienza

La quarta è la supposizione che una maggiore autosufficienza avrebbe potuto proteggere le economie dalle interruzioni e dai colli di bottiglia della catena di approvvigionamento, a costi sostenibili. Provate a sentire gli abitanti del Paese costretto a una settimana di tre giorni a causa di uno sciopero dei minatori nel 1974. Vi risponderanno che questa supposizione non è mai stata plausibile. La recente carenza di latte artificiale negli Stati Uniti ne è un altro esempio. Una maggiore diversificazione dell’offerta ha senso, anche se può essere costosa. Anche l’investimento in azioni può avere senso, anche se sarà costoso. Ma l’idea che avremmo superato la Covid 19 e le sue conseguenze se ogni Paese fosse stato autosufficiente è ridicola.

5. Ritenere che il commercio sia un optional

Il quinto è l’idea che il commercio sia un optional economico. Qui sta un paradosso della politica commerciale: i Paesi che contano di più nel commercio sono quelli per cui il commercio conta meno (vedi figura sotto). Gli Stati Uniti sono l’unica economia al mondo che potrebbe concepire di essere largamente autosufficiente, anche se questa scelta sarebbe costosa. I Paesi più piccoli dipendono dal commercio e più sono piccoli più ne dipendono. La Danimarca o la Svizzera non avrebbero potuto raggiungere la loro attuale prosperità senza di esso. Ma i grandi Paesi (o, nel caso dell’UE, i grandi blocchi commerciali) determinano il sistema commerciale mondiale, perché hanno i mercati più grandi. Pertanto, il sistema commerciale dipende da color che hanno meno bisogno. I Paesi più piccoli devono cercare di bilanciare questo stato di cose.

6. Pensare che siamo in un’era di rapida deglobalizzazione

Il sesto è presumere che siamo già in un’epoca di rapida deglobalizzazione. La realtà è che il rapporto tra commercio mondiale e produzione è ancora prossimi ai massimi storici. Ma ha smesso di crescere dopo la crisi finanziaria del 2007-2009. Questo è il risultato della diminuzione delle nuove opportunità. La liberalizzazione del commercio globale si è sostanzialmente arrestata dopo l’adesione della Cina al WTO nel 2001. Il mondo ha ormai ampiamente sfruttato le opportunità commerciali che si erano aperte. Ma, come ha sottolineato il Rapporto sullo sviluppo mondiale 2020 della Banca Mondiale, questa è una perdita: la capacità di partecipare alle catene globali del valore è stata un motore di sviluppo economico. Queste opportunità devono essere diffuse più ampiamente, non meno.

7. Ritenere che la WTO sia superflua

L’ultimo errore è l’idea che l’Organizzazione mondiale del commercio sia superflua. Al contrario, sia come luogo di accordi che come forum di discussione globale, rimane essenziale. Tutti gli scambi commerciali coinvolgono le politiche (e quindi la politica) di più di un Paese. Un Paese non può “riprendere il controllo” del commercio. Può solo decidere le politiche della propria parte. Ma se le imprese devono fare dei programmi, hanno bisogno di politiche prevedibili da entrambe le parti. Più dipendono dal commercio, più questa prevedibilità diventa importante.

Ecco perché gli accordi internazionali sono essenziali. Senza di essi, il recente arretramento sarebbe stato sicuramente maggiore. La WTO è necessaria anche per garantire che gli accordi regionali o plurilaterali si possano inscrivere in una serie di principi concordati. Non è nemmeno il luogo adatto per discutere di questioni strettamente legate al commercio, come l’economia digitale, il clima o la biosfera. Alcuni sembrano pensare che tali discussioni possano avvenire senza un impegno con la Cina. Ma la Cina è troppo importante perché ciò sia possibile.

Come ha osservato ad aprile Ngozi Okonjo-Iweala, direttore generale della WTO, l’impatto dei nuovi concorrenti, l’aumento delle disuguaglianze all’interno dei Paesi, la crisi finanziaria globale, la pandemia e ora la guerra in Ucraina “hanno portato molti a concludere che il commercio globale e il multilateralismo – due pilastri della WTO – siano più problemi che opportunità. Sostengono che dovremmo ritirarci in noi stessi, produrre il più possibile da soli, crescere il più possibile da soli”. Sarebbe una tragica follia: si pensi al danno economico che si produrrebbe invertendo gran parte dell’integrazione commerciale degli ultimi decenni.

Tuttavia, gli sconvolgimenti della nostra epoca – soprattutto l’ascesa del populismo, del nazionalismo e dei conflitti tra grandi potenze – mettono in discussione il futuro del commercio globale. Come dovremmo cercare di rimodellare il commercio e la politica commerciale?

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Da Martin Wolf, The big mistakes of the anti-globalisers, “The Financial Times”, 22 giugno 2022

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Martin Wolf è capo commentatore economico del “Financial Times” di Londra. È stato insignito del CBE (Commander of the British Empire) nel 2000 “per i servizi resi al giornalismo finanziario”. Nel 2012 ha anche ricevuto il Premio Ischia Internazionale di Giornalismo. È autore di molte pubblicazioni sulla globalizzazione e la finanza.

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