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Giarda: nel rilancio economico più che l’ingegneria istituzionale conta la saggezza del governo

IN ANTEPRIMA UN ARTICOLO DI PIERO GIARDA PER “L’INDUSTRIA” – Per gentile concessione della rivista “L’industria” del gruppo editoriale Il Mulino pubblichiamo un significativo saggio del professor Piero Giarda, scritto prima che diventasse ministro, su “Evoluzione istituzionale e politiche pubbliche per lo sviluppo”

Giarda: nel rilancio economico più che l’ingegneria istituzionale conta la saggezza del governo

Evoluzione istituzionale e politiche pubbliche per lo sviluppo(*)

In epoche lontane, le politiche di bilancio dirette a stimolare l’attività economica, inteso come ripresa ciclica o come aumento del tasso di crescita, si svolgevano in un contesto caratterizzato da minori vincoli economici e istituzionali. In molte circostanze nel passato il nostro paese ha messo in atto politiche di deficit spending che oggi non ci sono più consentite dalle condizioni del bilancio pubblico. Non c’è nemmeno spazio per politiche aggressive sulla struttura del sistema tributario, per esempio aumentare in modo significativo l’imposta suo valore aggiunto riducendo i contributi sociali per simulare alcuni effetti di una svalutazione della moneta, data la condizione dei mercati finanziari. Sembrano possibili operazioni di ricomposizione delle spesa pubblica o di una sua riduzione ai fini di finanziare la riduzione delle tasse.

C’è nella storia recente del nostro paese lo sviluppo del vincolo europeo sulla finanza pubblica italiana con recenti evoluzioni sul piano interno che vanno a modificare istituzioni e regole di vita del settore pubblico. Si presenta con almeno tre diversi aspetti. Il primo è l’obiettivo del pareggio di bilancio che è stato adottato dai capi di stato dei paesi dell’euro il 18 marzo scorso, insieme con quello della riduzione del rapporto debito /PIL. Su questo tema il governo, sollecitato dagli organismi euro, ha presentato un disegno di legge diretto a modificare l’articolo 81 della Costituzione introducendo il principio di un ragionevole equilibrio tra entrate e spese.

Il secondo nasce dall’ultima manovra correttiva dei saldi tendenziali di finanza pubblica per il 2012 e 2013 – che pure ha fatto uso intensivo dell’aumento delle tasse – che include una norma tendente a vincolare, per gli anni a partire dal 2013, il tasso di crescita della spesa pubblica a non essere superiore alla metà del tasso di crescita del PIL. Il terzo, infine, è il faticoso incedere delle norme sul cosiddetto “federalismo fiscale” che si intersecano con i vincoli costituzionali sul pareggio di bilancio e, soprattutto, con le norme sul patto di stabilità interno intese a limitare la dinamica della spesa degli enti decentrati.

L’interrogativo di fondo è se questi interventi che riguardano la dimensione, i compiti e il funzionamento del settore pubblico contribuiranno a restituirci un settore pubblico che costi meno tasse al contribuente italiano aprendoci le possibilità di fare politiche di sostegno all’economia, che diventi esso stesso un contributo alla crescita della produttività per il sistema delle imprese italiane e che sia utile al cittadino. Questa relazione non contiene risposte fattuali all’interrogativo e si limita a sollevare questioni sui problemi che devono essere affrontati e sui limiti delle azioni in corso.

Il settore pubblico italiano era e rimane la più grande holding del nostro paese che controlla direttamente più di 9000 centri di produzione ed erogazione di servizi pubblici. Sessant’anni fa valeva circa il 20 per cento del PIL italiano ma vale oggi più del 50 per cento. La sua struttura produttiva e decisionale era allora concentrata nelle amministrazioni centrali, mentre ora è distribuita 50-50 per cento tra centro e periferia. Il settore locale di allora si finanziava per almeno il 70-75 per cento con tributi prelevati sui contribuenti locali, mentre ora la percentuale è inferiore al 40 per cento.

Sulla prima questione, quella dei vincoli costituzionali al pareggio di bilancio, diversamente dalla opinio communis di molti colleghi economisti, non posso che esprimere un mio parere favorevole. Il settore pubblico svolge tre funzioni fondamentali. Fornisce alla collettività beni e servizi pubblici, anche attraverso la costruzione delle infrastrutture. Svolge politiche di redistribuzione del reddito a favore dei cittadini meno abbienti, delle regioni a più basso reddito e delle generazioni più anziane.

Svolge infine funzione anti-ciclica, cercando di opporsi alle fasi di recessione con gli stabilizzatori automatici. Non c’è ragione perché le prime due funzioni, la fornitura di beni e servizi e l’azione di redistribuzione a favore dei soggetti bisognosi non siano svolte nel rispetto di un bilancio in pareggio. E’ evidente, d’altra parte, che la funzione anti-ciclica richieda saldi di bilancio che fluttuano nel tempo da positivi quando l’economia va bene a negativi quando è in recessione.

Non necessariamente i saldi devono esattamente compensarsi; se ciò avviene si darà origine alla formazione di debito che si aggiunge al debito creato per finanziare i progetti infrastrutturali capaci di autofinanziarsi nel tempo.
In un sistema a più livelli di governo come il nostro resta da decidere se il vincolo si deve applicare e in che misura anche a regioni, comuni e province, ma è evidente che una indicazione costituzionale sull’equilibrio ragionato tra entrate e spese è meglio della attuale formulazione dell’articolo 81 che, se al quarto comma impone un vincolo di copertura finanziaria sulle nuove leggi di spesa, non impone alcun vincolo ex-ante sul bilancio a legislazione vigente, così da avere generato, fin dal 1948, bilanci a legislazione vigente presentati in disavanzo.

Una modifica della costituzione che affermi l’opportunità di una qualche forma di equilibrio tra entrate e spese non risolve i problemi del paese ma svolgerebbe almeno la funzione educativa di segnalare, cito le parole di Quintino Sella e Marco Minghetti che convissero 15 anni con bilanci in deficit, che il pareggio di bilancio è condizione necessaria per garantire la libertà politica delle generazioni future.

La seconda questione di rilievo istituzionale ha a che fare con la regola diretta a fare si che il tasso di crescita della spesa pubblica si attesti, per il medio lungo periodo, su valori inferiori al tasso di crescita dell’economia prevedibile per il prossimo futuro.

Questa regola non ha quasi nulla a che fare con la questione se nel breve periodo si possano trovare riduzioni della spesa capaci, oltre che di portarci verso il quasi pareggio di bilancio nel 2013 (essendo la realizzazione del pareggio praticamente impossibile), di finanziare qualche riduzione selettiva del prelievo tributario o un programma di ripresa degli investimenti pubblici in funzione anti-ciclica.

L’obiettivo di rallentare la velocità di crescita della spesa pubblica al netto degli interessi per farla crescere a tassi inferiori (la metà) ai tassi di crescita del PIL, così come indicato dall’emendamento approvato poche settimane fa, é molto ambizioso, soprattutto se misurato sul medio-lungo periodo. Considerando i sessant’anni dal 1951 ad oggi , l’unico periodo in cui la crescita della spesa al netto degli interessi è stata inferiore al tasso di crescita del PIL reale è stato l’ultimo decennio del secolo scorso, con la spesa in crescita dello 0,7 per cento medio annuo e il PIL in crescita dell’1,7 per cento.

In tutti gli altri decenni la crescita della spesa è stata superiore alla crescita del PIL. Negli anni Cinquanta l’ 8,0 contro il 5,6 per cento; negli anni Sessanta il 7,4 contro il 5,6 per cento; negli anni Settanta il 5,6 contro il 3,8 per cento, negli anni Ottanta il 4,0 contro il 2,7 per cento. Nei primi dieci anni di questo secolo la crescita della spesa è stata mediamente pari all’1,7 per cento contro lo 0,25 di crescita del PIL.

Il differenziale dei tassi di crescita della spesa rispetto al PIL è andato nei sei decenni variando da +2,4, a +1,5, a +1,7, a +2,1, a –0,9, a +1,4. Nonostante la riapertura del differenziale nell’ultimo decennio, in parte legato all’operare degli stabilizzatori automatici per la recessione 2009, sembra di osservare una tendenza di lungo periodo alla riduzione del differenziale, ma si tratta sempre di un differenziale positivo anziché di un differenziale negativo come previsto dalla citata norma di legge.

Nel considerare la dinamica complessiva della spesa pubblica vale rilevare il drastico cambiamento occorso a partire dalla fine degli anni Ottanta. Il tasso di crescita della spesa pubblica in termini reali nel periodo fino al 1989-90 si presentava decrescente seguendo la progressiva riduzione del tasso di crescita del reddito nazionale; nei due decenni successivi la relazione tra le due grandezze si è progressivamente allentata e la crescita della spesa sembra essere, più di quanto non avvenisse in passato, il risultato di esplicite politiche da parte delle autorità di governo.

Delle diverse ragioni che spiegano la crescita della spesa pubblica nel nostro paese, mi limiterò a trattare le ragioni sbagliate e alle quali si dovrebbe porre rimedio, proponendo qualche statistica a cui farò seguire una tassonomia descrittiva di quelle ragioni che ruotano attorno alla nozione di “sprechi e inefficienze”.

Considerando lo sviluppo delle quattro diverse categorie di spesa pubblica tradizionalmente considerate nell’analisi macro economica, consumi e investimenti pubblici, pensioni, trasferimenti a famiglie e imprese, si ha che, nel lungo periodo, solo la quota della spesa per investimenti pubblici ha presentato un andamento con un grande ciclo, in crescita per i primi tre-quattro decenni e in riduzione per gli ultimi due, soprattutto negli ultimi dieci anni. Tutte le altre tre grandi categorie di spesa, i consumi collettivi, la spesa per pensioni e la spesa per prestazioni di assistenza sociale, presentano andamenti che misurati in quote di PIL sono continuamente crescenti nel tempo. A scopo illustrativo mi limiterò a qualche considerazione sulla spesa per consumi collettivi e sulla spesa per pensioni che assorbono congiuntamente circa l’80 per cento della spesa al netto degli interessi.

La spesa per consumi collettivi realizza la funzione allocativa dello stato che governa l’offerta di servizi e beni pubblici alla collettività. La sua dinamica soffre della cosiddetta malattia di Baumol definita dalla proposizione che i costi di produzione per unità di prodotto dei servizi pubblici crescono nel tempo più rapidamente dei costi di produzione e dei prezzi dei beni di consumo privati. I prezzi dei consumi collettivi espressi in termini dei prezzi dei consumi privati (prezzi relativi) sono continuamente crescenti nel tempo. Non ci sono, per i consumi collettivi, reazioni di mercato a questa dinamica dei prezzi perché i beni di consumo collettivo sono “consegnati” dal settore pubblico ai cittadini senza richiedere il pagamento di un prezzo. La domanda è senza limiti o limitata solo parzialmente dalle condizioni di accesso, quindi la spesa aumenta progressivamente nel tempo in quota di PIL.

Per illustrare concretamente la questione si può fare riferimento ai dati dell’ISTAT per il periodo dal 1970 al 2010 su consumi collettivi a prezzi correnti e prezzi costanti, dai quali dati si può ricavare l’indice di costosità dei consumi collettivi (il deflatore dei consumi collettivi) che può essere messo a confronto con il deflatore dei consumi privati. Rapportati gli indici di prezzo delle due categorie di consumi e fatto uguale a 1,00 l’indice dei prezzi relativi 1970 l’indice del 2010 risulta pari a 1,39.

In quarant’anni, la costosità relativa dei beni di consumo collettivo è aumentata del 39 per cento. In altre parole i costi di produzione dei consumi collettivi crescono in media lo 0,8 per cento all’anno in più rispetto ai prezzi dei beni di consumo privati. Se i costi di produzione dei consumi collettivi fossero cresciuti nel periodo dal 1970 al 2010 allo stesso tasso di crescita dei prezzi dei consumi privati, la spesa per consumi collettivi sarebbe stata nel 2010 di soli 236,4 miliardi di euro contro i 328,6 miliardi effettivamente registrati.

Dopo avere discusso dei fattori dinamici nella spesa per consumi collettivi è possibile qualche altra considerazione considerandone la distribuzione sul territorio nazionale nelle diverse regioni. Emergono dai dati per il 2007 significative differenze nei valori della spesa per abitante nelle diverse regioni. La spesa pro-capite per consumi pubblici è mediamente più elevata: nei territori governati da regioni a statuto speciale, nelle regioni meridionali, nelle regioni più piccole.

La maggiore spesa delle regioni a statuto speciale si manifesta soprattutto nelle funzioni dei servizi generali, degli affari economici e della protezione sociale. Per i territori delle regioni a statuto ordinario, nelle regioni meridionali la spesa supera quella delle regioni del centro-nord per circa il 5 per cento originata soprattutto dalle maggiori spese statali per l’istruzione. Le regioni ove la spesa è minore sono la Lombardia e il Veneto dove è circa il 10 per cento in meno rispetto alla media nazionale, le differenze originandosi soprattutto nei servizi generali, sanità, scuola e protezione sociale. Spicca la spesa elevata nel Lazio.

C’è coerenza tra i dati di sviluppo della spesa nel tempo e i dati di spesa rilevati nelle diverse regioni? L’analisi temporale di lungo periodo mostra che i consumi collettivi, pur caratterizzati dal loro status di settore a basso contenuto di innovazione tecnologica, stanno assorbendo quote decrescenti della spesa pubblica complessiva, come se si trattasse, con la terminologia dell’analisi old style dei consumi, di un bene inferiore.

L’analisi spaziale mostra che nelle regioni più ricche del centro-nord i livelli di spesa per consumi collettivi sono più bassi della media, mentre sono più elevati le spese pro-capite nei territori delle regioni con i più bassi livelli di valore aggiunto pro-capite. Molti studi e gli indicatori disponibili sembrano indicare che una qualche frazione dei differenziali interregionali di spesa può essere associata ad inefficienza, ma l’interazione tra domanda, differenziali di costosità relativa, differenziali di spesa per consumi collettivi rimane una delle questioni aperte nella politica di governo della spesa pubblica.

La spesa per pensioni, considerando le sole pensioni a carattere previdenziale, rappresenta il più importante dei programmi di redistribuzione tra individui e tra classi sociali; assorbe circa un terzo della spesa complessiva al netto degli interessi. In termini reali negli ultimi trent’anni la spesa per pensioni è cresciuta mediamente del 3 per cento all’anno, contro una crescita del PIL dell’1,7 per cento. Nello stesso periodo, la pensione media annua è cresciuta dell’1,8 per cento in termini reali mentre il PIL pro-capite è cresciuto mediamente dell’1,45 per cento. Il numero delle pensioni in essere è cresciuto mediamente dell’1,17 per cento mentre la popolazione residente è cresciuta dello 0,21 per cento all’anno. E’ cresciuto anche il numero medio di pensioni per pensionato che è oggi pari a 1,33: ogni tre pensionati sono in essere quattro pensioni.

L’andamento della spesa per pensioni incarna tutte le negatività del policy making italiano, soprattutto con riferimento alla questione delle pensioni di anzianità. La proposta del professor Castellino incorporata nella legge finanziaria del primo governo Berlusconi che prevedeva la riduzione del 3 per cento della pensione d’anzianità liquidata per ogni anno mancante all’età del pensionamento di vecchiaia determinò la caduta del governo per iniziativa dello stesso partito che, 17 anni dopo, si è ancora opposto a un intervento sulle pensioni di anzianità.

La riforma del 1995 attuata dal governo Dini, sostenuto da una maggioranza di centro sinistra, venne rinviata ai suoi primi effetti nel 2014 e, con effetti a regime sostanzialmente simili a quelli della proposta precedente, venne mandata a regime a partire dal 2033.

La spesa per pensioni di natura previdenziale assorbe circa il 14 per cento del PIL. Va segnalato anche che, se i consumi collettivi (che sono pari a 328 miliardi nella contabilità nazionale del 2010) fossero definiti escludendo le poste imputate per garantirne la coerenza con i dati di contabilità nazionale (si tratta di eliminare dai 328miliardi di euro che ne rappresentano il totale, circa 97 miliardi attribuibili a ammortamenti, contributi previdenziali figurativi e imposte pagate da una mano all’altra della pubblica amministrazione) e trasformati in dati di spesa finanziaria, il loro peso sarebbe pari al 36 per cento del totale della spesa pubblica al netto degli interessi e quello delle pensioni di natura previdenziale sarebbe pari al 37 per cento, due valori percentuali che non hanno corrispondenza nei bilanci di nessun paese del mondo.

Quali spazi per rallentare la crescita della spesa pubblica?

Le ricette disponibili in tema di pensioni sono note a tutti, ma riguardano un tema – i trasferimenti di reddito da una categoria sociale a un’altra – che non ha rilievo diretto per un uditorio, come quello di oggi, che si interessa di questioni di allocazione di risorse e di strutture produttive. Dedicherò quindi qualche riflessione alle possibilità di intervenire sulla spesa per consumi e investimenti pubblici e per trasferimenti redistributivi, nella prospettiva che dal riordino di queste categorie di spesa possa originare qualche vantaggio per l’aumento di produttività del sistema economico. Il dibattito sulla crescita della spesa pubblica si avvia sempre sul tema degli sprechi e inefficienze nella fornitura dei servizi pubblici e nella organizzazione delle decisioni pubbliche; trattandosi di categorie abusate, è forse utile una classificazione delle loro diverse tipologie che presento secondo il peso crescente che in essa assumono le valutazioni di merito.

A.- Inefficienza produttiva in senso stretto. Rientrano in questa definizione:
– l’utilizzo di fattori produttivi in misura eccedente la quantità minima prevista dalle tecniche di produzione disponibili. Due impiegati vengono utilizzati per fare un lavoro per il quale uno é sufficiente, una macchina costosa e ad alto potenziale viene sistematicamente sotto-utilizzata.
– l’acquisto di fattori produttivi pagando prezzi superiori al prezzo di mercato o all’effettivo valore.
– l’adozione di tecniche di produzione sbagliate rispetto ai prezzi dei fattori produttivi impiegati e quindi produzione a costi superiori al costo necessario. Nella produzione pubblica c’è una tendenza inarrestabile ad utilizzare, tra le diverse tecniche di produzione disponibili, quelle che si caratterizzano per la più alta intensità di lavoro.
– l’utilizzo di modi di produzione antichi, chiaramente più inefficienti (e quindi più costosi) di quelli che si avrebbero utilizzando le tecnologie più avanzate e innovative. Ciò è notoriamente associato all’incapacità delle strutture pubbliche di investire ed innovare nelle tecnologie di produzione utilizzate.
– l’utilizzo di modi di produzione che impiegano fattori di produzione incompatibili tra di loro, ad esempio lavoro non specializzato applicato al funzionamento di macchine innovative ed evolute.
– nelle politiche redistributive, la errata selezione dei soggetti meritevoli di essere sostenuti nei programmi di sostegno del reddito disponibile.
– nella esecuzione degli investimenti pubblici, la progettazione di opere incomplete, il mancato completamento di opere iniziate, i tempi di esecuzione molto superiori ai tempi programmati, la progettazione di opere di dimensione eccessiva rispetto alla capacità realisticamente sfruttabile, a volte eseguite con materiali troppo pregiati (opere utili che potrebbero essere costruite a costi minori).

B. Inefficienza gestionale, per cattiva allocazione delle risorse disponibili. Rientrano in questa definizione tutti i mix di servizi pubblici offerti alla collettività che, al margine, presentano benefici per la collettività molto diversi tra di loro. La spesa pubblica non è allocata tra i diversi usi alternativi in modo corretto: le risorse investite in un’attività generano risultati peggiori di quelli che si otterrebbero se parte delle stesse risorse fosse investita in un’altra attività o settore. Appartiene alla leggenda quotidiana la rilevazione di programmi che sono mantenuti nella struttura della spesa pur avendo perso le loro originarie ragioni di essere e anche la constatazione che altri programmi o servizi pubblici meriterebbero di essere ampliati.
Gli aggiustamenti del mix della spesa pubblica nel passato sono avvenuti e sono stati favoriti dalla dinamica accelerata della spesa associata alla dinamica del sistema economico. Negli ultimi vent’anni, l’unico cambiamento di rilievo nella struttura della spesa ha riguardato la quota della spesa sanitaria che è aumentata in modo significativo accompagnandosi a una riduzione di pari importo nella quota della spesa per l’istruzione.

C. Attività pubbliche che generano benefici nulli o inferiori ai costi di produzione. Avvio o mantenimento di programmi che non sono preceduti o che non confermano i test di benefici superiori ai costi. Lo stesso per investimenti in infrastrutture e opere pubbliche. Nel caso poi di attività affidate alla responsabilità finanziaria degli enti decentrati, la variabile costo del finanziamento – che occupa un ruolo strategico nei tests di convenienza economica – assume valori molto diversi in relazione ai diversi assetti istituzionali, alla capacità di generare fondi interni e così via. In un mondo ideale i test di convenienza sui nuovi investimenti e sulle nuove iniziative dovrebbero essere basati su un unico – nazionale – costo opportunità.

D. Inefficienza e istituzioni. A titolo di introduzione agli aspetti che riguardano il decentramento territoriale dell’attività pubblica si può considerare una forma particolare di inefficienza che riguarda il caso di decisioni su comparti di spesa complementari tra di loro che sono affidate a diversi livelli di governo, come è il caso di tre beni pubblici di grande rilievo quali istruzione elementare e media, istruzione universitaria, tutela della salute, tutte legate al processo di sviluppo e manutenzione del capitale umano di un sistema economico. Si tratta di beni di consumo collettivo che riguardano interessi di uguale rilievo etico-politico ma che hanno alle spalle agenti e sponsor di forza diversa.

L’istruzione elementare e media è governata da strutture burocratiche statali senza autonomia gestionale e comando sulle risorse, l’università organizzata in strutture autonome trova nei rettori e nei consigli d’amministrazione voci di rilievo pubblico, la tutela della salute è affidata alla responsabilità politica delle regioni, un livello di governo capace di esprimersi nei confronti del governo centrale forte della rappresentanza politica dei cittadini e del ruolo dei suoi governatori. Le scelte sulle risorse da assegnare a questi tre settori risultano influenzate dal diverso peso politico dei portatori di interessi associato a ciascuno di essi. Le risorse assegnate possono essere gestite in modo più o meno efficiente, ma la segmentazione istituzionale impedisce l’avvio delle valutazioni comparate su quale dei tre settori sia più produttivo investire risorse aggiuntive e ciò nonostante il fatto che tutti traggono gran parte del loro finanziamento direttamente dal bilancio statale.

Tra alcuni degli studiosi di finanza pubblica, ma credo anche tra quelli di economia industriale, c’è un sentimento diffuso sul fatto che la organizzazione sul territorio dell’offerta di servizi pubblici da parte delle istituzioni coinvolte, si caratterizzi, oltre che per differenziate situazioni di inefficienza, anche per un’inefficienza di sistema, come se il settore dei servizi pubblici fosse paragonabile a un sistema industriale vecchio, cresciuto all’interno di barriere protettive, impermeabile all’innovazione. L’indice di costosità relativa a cui ho fatto riferimento è il principale indicatore sintetico di questa situazione, ma valgono altri indicatori indiretti quali la progressiva crescita delle spese per i servizi generali di tutti i livelli di governo.

A ciò si aggiunga una realtà che contiene qualche ragione di speranza, l’evidenza, accumulata ormai negli ultimi 30 anni, di inspiegabili differenze nei livelli della spesa per abitante nei diversi territori su singoli servizi o attività, la profonda differenza negli indicatori di produttività che si rilevano nella produzione dei servizi dello stato, delle regioni, delle province e dei comuni sui diversi punti del territorio nazionale. Nel tentativo di rimediare a queste inefficienze di sistema, lo stesso provvedimento che ha fissato i vincoli alla crescita della spesa ha anche introdotto l’obbligo della “revisione della spesa” ripercorrendo una strada avviata nel 1981, percorsa con esiti diversificati, poi interrotta, ripresa e interrotta nuovamente nel succedersi dei governi e dei ministri del tesoro e dell’economia.

Meno spesa per ridurre le tasse ?

Vengo ora alla questione più complessa, quella dell’inefficienza macro economica di un elevato livello di spesa pubblica, secondo la quale nella struttura della spesa pubblica italiana sono incorporati programmi e attività i cui benefici per la collettività non compensano i costi (misurati in termini di minore crescita economica) causati dall’elevata pressione tributaria. Secondo questa proposizione, le imposte elevate e la struttura del prelievo scoraggiano l’attività economica, l’offerta di lavoro e l’assunzione di rischi.

Anche se l’analisi micro-economica ha portato molte ragioni a sostegno dell’esistenza di questi effetti, non c’è grande evidenza empirica per la loro quantificazione, se non nella constatazione che paesi a bassa crescita come l’Italia hanno tasse relativamente elevate. La proposizione che un alto livello di tassazione, quando si accompagni ad una accentuata scala di progressività rispetto al reddito, scoraggia la crescita economica è stato, da sempre, uno dei teoremi più accreditati negli orientamenti di politica economica di stampo conservatore. Vera o falsa che sia in senso generale, essa assume un significato particolare quando, come nell’Italia di oggi, le politiche di risanamento finanziario impongono ulteriori aumenti delle tasse.

La questione é “se parti delle attività oggi svolte dal settore pubblico che siano finanziate con il prelievo tributario possano essere affidate a decisioni e gestione da parte di strutture non pubbliche finanziate da prezzi e tariffe caricate agli utenti”. Per identificare le opzioni disponibili sono rilevanti tre aspetti.
A – quali beni e servizi pubblici devono essere affidati al potere di governo della politica, e per quali soggetti. Questa è la fondamentale funzione allocativa.
B – quale il ruolo del settore pubblico nella produzione dei beni di consumo collettivo e delle infrastrutture sociali. Una questione importante, ma non come la prima.
C – quali i mezzi di finanziamento, se i prelievi coattivi basati sul principi della capacità contributiva possono essere sostituiti da prelievi tipo prezzi e tariffe.
Dal diverso trattamento di questi tre aspetti, derivano diverse opzioni di modifica o di riduzione dell’offerta e quindi della spesa pubblica.

La prima è quella di esternalizzare segmenti di spesa per servizi pubblici dal comparto pubblico (facendoli uscire dalle spese registrate nei bilanci pubblici) affidandone la gestione a società di diritto privato di proprietà pubblica o mista pubblico privata, accompagnando l’uscita con il trasferimento alla stessa società di proventi derivanti da prelievi tributari o contributivi. L’utilizzo di questa procedura può accompagnarsi a un miglioramento dell’efficienza gestionale, ma non sposta i confini dell’intervento pubblico dato che le regole di accesso ai servizi (la funzione allocativa) e le fonti di finanziamento dell’attività sono le stesse che prevalevano prima dell’esternalizzazione. Si riduce la spesa pubblica registrata nei bilanci ma non, ovviamente, il peso del settore pubblico nell’economia.

La seconda è di acquistare componenti del servizio da società di diritto privato che li vendono al settore pubblico dietro pagamento di un prezzo. Il controllo dell’offerta e le condizioni di accesso (la funzione allocativa) è mantenuta in testa all’ente pubblico, ma la produzione è affidata a operatori del settore privato. E’ questo il caso frequente nella sanità. La presenza di strutture di questo tipo é molto utile perché fornisce dei paradigmi di riferimento anche per le struttura di produzione pubblica. Pone, così come ha posto, il rischio o l’inconveniente che i prezzi di acquisto di qualche beni e servizi utilizzati nell’offerta pubblica siano “sbagliati” (troppo elevati) o non sottoposti al criterio della libertà di entrata, generando situazioni permanenti di profitto quasi monopolistico.

La terza è di mantenere il controllo pubblico dell’offerta accompagnandolo con il decentramento parziale della produzione e con la liberalizzazione delle politiche di prezzo diretta ad aumentare il contributo diretto dell’utente per l’accesso al servizio. Strutture di offerta pubbliche siano autorizzate a praticare politiche autonome di prezzi per l’accesso ai servizi da loro forniti. Si può citare a questo riguardo le politiche che, gradualmente, sono venute affermandosi nel sistema universitario statale, all’interno del quale le tasse universitarie, sotto diversi nomi e causali, si sono progressivamente differenziate.

La quarta è di mantenere il solo controllo pubblico dell’offerta, rinunciando completamente alla produzione pubblica decentrandola per intero sul settore privato, trasformando l’intervento pubblico in un trasferimento finanziario integrativo dei prezzi applicati dalle strutture private all’utente. E’ questo il caso di strutture di offerta private, regolate nelle modalità di offerta dei servizi, alle quali è attribuito un potere limitato di fissazione dei prezzi d’uso o di limitazione dell’accesso ai servizi, come è il caso dei trasporti extra-urbani in concessione.

La quinta infine è simile alla precedente, con il pieno trasferimento dei costi sui soggetti utilizzatori, eventualmente accompagnato da interventi di sostegno a favore dei redditi più bassi. Esempio la privatizzazione delle prestazioni non essenziali dell’assistenza sanitaria che fosse integrata da sussidi diretti al reddito monetario.
Negli ultimi 20 anni sono state assunte molte decisioni riconducibili alle opzioni da 2 a 5. Ne fanno fede (a) i forti aumenti tariffari in settori da sempre cari alla visione socialdemocratica (trasporti, energia, ambiente, acqua, ecc.) dell’intervento pubblico, (b) il forte aumento di tutte le entrate extra-tributarie nei bilanci degli enti territoriali (regioni, province, comuni), (c) lo sviluppo dell’assicurazione privata nel settore sanitario e previdenziale.

Resta infine l’opzione più esplicita, quella di riportare i programmi di intervento pubblico all’ambito esclusivo delle decisioni di soggetti privati, con la rinuncia allo svolgimento vuoi dei compiti allocativi o della funzione redistributiva ad essi connessi; la privatizzazione tout cour. Nella storia recente del nostro paese non ci sono quasi mai state decisioni esplicite di “uscita” del settore pubblico dai suoi compiti.
In molti ambiti però il peso dell’intervento pubblico si è ridotto, con l’utilizzo di diversi strumenti.

(a) Con ordini o comandi sui livelli della spesa propria dello stato, degli enti previdenziali o degli enti decentrati, espressi tramite la riduzione degli stanziamenti di bilancio, le modifiche dei diritti dei soggetti beneficiari esistenti o potenziali, l’imposizione di vincoli alla crescita della spesa. Lo stato ha cercato di ridurre, in questo modo, la spesa per la scuola, la giustizia, la sicurezza, la difesa, oppure le spese generali di funzionamento dell’amministrazione centrale.
(b) Con politiche di riduzione dell’importo dei trasferimenti finanziari che le leggi vigenti prevedono a favore degli enti territoriali (regioni, province e comuni), delle università e di tutti gli enti periferici o comunque esterni all’amministrazione statale che svolgono compiti di interesse pubblico. La riduzione dei trasferimenti può indurre riduzioni della spesa, aumenti del prelievo tributario degli enti territoriali, aumenti di prezzi e tariffe dei servizi a domanda individuale forniti da loro, dalle università o dalle altre strutture pubbliche decentrate.

Al termine di questa prima parte viene da chiedersi se i necessari vincoli alla crescita della spesa, potranno mai allentarsi nel futuro. Non so dare una risposta a questa domanda, salvo riproporre alla vostra attenzione la vecchia tesi di Antonio De Viti De Marco che considerava l’offerta di servizi pubblici come un fattore di produzione rilevante per la crescita economica. Se si pensa alle politiche di bilancio per la crescita anziché alle politiche di bilancio come strumento per favorire la ripresa ciclica, le proposizioni che ho presentato sulle inefficienze presenti nell’attuale offerta pubblica ci dicono che la durezza della situazione economica attuale dovrebbero indurci ad affrontare con rigore la questione della riorganizzazione produttiva del settore pubblico. Un esempio, su una parte del settore pubblico che conosco meglio, l’istruzione universitaria.

Non è difficile individuare azioni radicali di ristrutturazione industriale del sistema università che prenda atto che le università esistenti sono troppo simili tra di loro nella loro organizzazione produttiva e fanno tutte le stesse cose. Non è sufficiente dare aumenti dei finanziamenti alle università dove ci sono i professori più bravi. Il riordino delle strutture di produzione dovrebbe venire prima della costruzione di un appropriato sistema di incentivi. Ci sono in Italia forse settanta o più programmi di dottorato di ricerca in discipline economiche, quando probabilmente ne sarebbero richiesti non più di dieci. Almeno i tre quarti delle università esistenti offrono il più due in moltissimi ambiti di insegnamento; forse un terzo sarebbe la misura adeguata. Sono questioni di economia industriale prima che politiche di prezzo.

L’occasione dei recenti mutamenti istituzionali in materia di governo della finanza pubblica dovrebbe essere coltivata fino in fondo, anche per le sue conseguenze più forti e portarci verso un settore pubblico forse più piccolo, certamente meno costoso e necessariamente un po’ più innovativo. Il tema non ha connessioni dirette con la gestione della politica di bilancio, non deve essere monopolio degli studiosi di finanza pubblica, ma riguarda la professione degli economisti che hanno interesse per l’applicazione delle regole dell’analisi economica ai concreti problemi dell’industria che governa la produzione e l’offerta dei consumi collettivi.

4. Il decentramento della spesa senza entrate proprie

Le ragioni di esistenza di livelli di enti decentrati stanno nella opportunità di organizzare la fornitura di servizi di interesse locale alle collettività amministrate in linea con la capacità e la disponibilità a pagare dei singoli territori. Senza autonomia nel definire i gettiti dei tributi e delle entrate proprie locali, il sistema degli enti locali non ragioni economiche per esistere. Da questo punto di vista, per un economista, gli anni peggiori negli ultimi sessant’anni di storia finanziaria italiana sono stati il 1978-79 quando le entrate proprie degli enti locali si ridussero a meno dell’8 per cento del totale delle spese.

Molti sindaci e amministratori, al contrario, lo ritennero per lunghi anni, un periodo d’oro dato che lo stato finanziava le spese degli enti locali quasi per intero con propri trasferimenti. La situazione è andata modificandosi gradualmente nel tempo e negli anni più recenti le entrate proprie coprono circa il 40 per cento del totale della spesa.  Queste percentuali erano pari al 65 per cento circa nel 1951 e sono state pari a più del 90-95 per cento in tutti gli anni dal 1861 al 1940. I mutamenti di orientamento sono stati originati dagli stravolgimenti della seconda guerra mondiale e, negli anni successivi, dall’obiettivo politico di rimediare alle deficienze di gettito degli enti locali del Mezzogiorno condizionate dai bassi livelli di attività economica.

Il peso delle amministrazioni locali (Regioni, Comuni e Province) nel totale della spesa pubblica e nella fornitura di servizi alla collettività è andato progressivamente aumentando. Assorbe nel 2009 circa un terzo della spesa complessiva al netto degli interessi; assorbiva nel 1980 poco più di un quarto e ancora meno nel 1951. Se si guarda al totale della spesa escludendo da questa le pensioni di natura previdenziale che non sono né del centro né della periferia, le AL spendono all’anno circa 235 miliardi di euro e le AC 255 miliardi di euro: grosso modo la spesa pubblica in senso tradizionale è ripartita 50-50 tra centro e periferia. Le entrate sono invece concentrate in larga misura nell’amministrazione centrale.

Come risultato nel 2009 il centro presenta un surplus primario di circa 132 miliardi di euro e la periferia un deficit tra entrate proprie e spese pari a circa 145 miliardi di euro, per un deficit primario di 13 miliardi. Nel valutare il finanziamento della spesa locale si tenga presente anche che una parte molto rilevante delle entrate proprie delle amministrazioni locali è costituita dall’IRAP che per le Regioni è poco più di un semplice acconto finalizzato al finanziamento della spesa sanitaria ove la differenza tra spese ammesse e gettito IRAP è comunque assicurata da trasferimenti statali.

La situazione attuale si caratterizza per profonde differenze nei livelli di spesa per abitante di enti anche simili tra di loro e anche per gettiti pro-capite delle entrate proprie molto diverse tra i diversi enti. Nelle differenze c’è una componente dimensione, i comuni molto piccoli e i comuni grandi hanno spese superiori alla spesa media (attorno a un minimo di spesa pro-capite nell’intorno dei 5000 abitanti); c’è una componente territoriale (le entrate pro-capite nelle amministrazioni locali del mezzogiorno sono in media molto più basse di quelle delle amministrazioni del centro-nord). Comuni, province e regioni nei territori delle regioni a statuto speciale hanno spese più elevate dei territori propri delle regioni a statuto ordinario.

All’interno dei singoli territori c’è una forte sostituibilità tra le spese dei diversi livelli di governo (dove gli enti locali spendono meno, spende di più la regione o lo stato), talché – sempre ignorando i territori delle regioni a statuto speciale – i livelli di spesa pubblica complessiva (stato e amministrazioni locali) nelle diverse regioni non sono molto dissimili tra di loro (più o meno il 10 per cento attorno alla media).
Dato il livello delle entrate proprie e dei trasferimenti statali, il livello del ricorso al debito delle amministrazioni locali è relativamente modesto.

Vengo ora a trattare delle possibili conseguenze per la politica economica portate dai cambiamenti istituzionali associati alla attuazione del titolo V della Costituzione riformata nel 2001. Sui contenuti innovativi della riforma del 2001 è sufficiente ricordare l’articolo 114 dai forti contenuti ideologici quando rimuove, dalla nostra Costituzione, la supremazia politica dello Stato, ridefinendolo come una delle amministrazioni pubbliche del nostro paese in un elenco che include, in via paritetica, comuni, province e regioni. Gli articoli 117 e 118 nei quali, il primo aumenta le competenze concorrenti delle regioni e, il secondo rafforza il ruolo ideale delle amministrazioni locali nel sistema politico, una eco lontana del dibattito di 150 anni fa sul ruolo dei comuni come enti di governo “naturali”.

A fianco delle norme che aumentano compiti e poteri degli enti decentrati, il nuovo testo riafferma, con forza, la sovranità indiscussa del legislatore nazionale nel definire, nel secondo comma dell’articolo 117, la competenza esclusiva dello Stato sia nella determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (la lettera m), sia nella individuazione delle “funzioni fondamentali” degli enti locali (la lettera p).
A ciò si aggiunga che il comma 3 dell’articolo 119 afferma il criterio della perequazione della capacità fiscale a favore degli enti con minori basi imponibili dei tributi propri. Restano quindi nella Costituzione due diversi criteri di perequazione, il primo quello esplicitamente richiamato dall’articolo 119 e il secondo derivato dal potere dello stato di definire livelli delle prestazioni e funzioni fondamentali che implicitamente comporta il finanziamento di attività di regioni e enti locali in base a indicatori di fabbisogno. Due criteri tra di loro quasi incompatibili.

In sostanza, il modello di rapporti finanziari tra centro e periferia disegnato dalla Costituzione difficilmente si attaglia a un modello di “federalismo fiscale” nel senso originario del termine che, ricordo, dovrebbe prevedere, nella sua struttura di base, l’assenza dello stato dal business dei governi decentrati; un sistema finalizzato a lasciare emergere le preferenze delle collettività locali, sia sul cosa fare e di quali compiti occuparsi, sia sul come finanziare le relative spese.
Al contrario, nel testo della Costituzione, ci sono il riferimento ai “livelli essenziali delle prestazioni” e alle “funzioni fondamentali” dell’articolo 117, la indeterminatezza del criterio di perequazione dell’articolo 119 e l’indicazione che i trasferimenti finanziari non debbano contenere vincoli di destinazione, disegnano una struttura astratta di rapporti finanziari tra centro e periferia. A ciò si aggiungano le leggi, di rilievo costituzionale, sul finanziamento delle regioni a statuto speciale tutte orientate sul regime delle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. L’insieme definisce una struttura di rapporti finanziari tra centro e periferia non riconducibile a quello che la dottrina finanziaria definisce proprio di un sistema di federalismo fiscale.

La legge delega, naturalmente, si muove all’interno degli equivoci del testo costituzionale e, in verità, ne ha aggiunti altri di suo; un processo che continua con i decreti delegati. Questi, peraltro, si intersecano con i provvedimenti finanziari di riduzione del deficit, con le regole del patto di stabilità interno, fino al punto che è praticamente impossibile, per uno studioso di media intelligenza, capire se gli enti decentrati disporranno veramente di maggiore autonomia finanziaria nello svolgimento dei compiti loro assegnati rispetto alla situazione attuale e quali saranno nel nuovo sistema il ruolo politico dell’elettore locale o regionale il ruolo dello stato controllore. Le nuove leggi porteranno in ogni caso a modeste innovazioni rispetto all’assetto vigente della finanza decentrata. Niente di confrontabile con i cambiamenti che sono avvenuti nel passato con la pratica dei mutui per il ripiano dei bilanci, con la riforma tributaria del 1972, con i decreti Stammati del 1977-78, con le leggi delega del 1992 e con le norme tributarie del 1997.

In conclusione,nell’attuazione degli articoli da 117 a 119 della Costituzione non c’è traccia della attribuzione alle regioni dei compiti in materia di istruzione che, nell’articolo 117, sono trattati in modo analogo ai compiti in materia di tutela della salute oggi in testa alle Regioni. Come se ci fosse un po’ di pudore. Ci sono invece norme dirette:
– ad aumentare la percentuale di spese coperte con entrate proprie; 
– a stimare per gli 8500 comuni italiani i costi standard di produzione dei servizi pubblici, allo scopo di adeguare a tali costi, dedotto il gettito delle entrate proprie i trasferimenti statali.

Sembra però che rimarrà intoccabile il principio per il quale nessun ente locale o regione, nemmeno quelli inclusi nel gruppo degli enti caratterizzati dalle più elevate basi imponibili dei diversi tributi (dal Piemonte al Lazio), possa divenire finanziariamente indipendente dai trasferimenti statali. Ci avviamo quindi verso un sistema che si autodefinisce di “federalismo fiscale” ma che non ne rispetta i contenuti minimi fondamentali. Sembra questo il paradosso più evidente dell’intero progetto di riforma che devo dire con grande sorpresa è assecondato dalle regioni e dagli enti locali.

Lo stato continuerà ad erogare trasferimenti e contributi, anche sotto forma di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali localmente riscossi agli enti ove le basi imponibili dei tributi locali sono inferiori ai valori medi nazionali ma continuerà ad erogarli anche a regioni e enti locali che presentano basi imponibili elevate e superiori ai valori medi nazionali. Lo stato continuerà quindi a perequare i livelli di spesa pro-capite anche tra gli enti (Regioni e enti locali) che operano nelle otto regioni più ricche d’Italia e i cui livelli di reddito differiscono tra di loro per non più del dieci o venti per cento. Con il paradosso che la politica italiana continuerà a ritenere, unanimemente, che perequare le capacità di spesa tra territori che sono diversamente ricchi sia un ragionevole compito di interesse pubblico.

Ci avviamo quindi verso un sistema di rapporti finanziari tra centro e periferia che si autodefinisce di “federalismo fiscale” ma che non ne rispetta i contenuti minimi fondamentali. Al riguardo si deve dire che non è obbligatorio, per un paese democratico, essere organizzato con i caratteri di un sistema di federalismo fiscale. Negli anni tra il 1858 e il 1861 i politici italiani che stavano progettando l’Italia unita avevano bene in mente le possibili opzioni ed è noto che il 13 marzo 1861 il Ministro Minghetti presentava al Parlamento i quattro disegni di legge che dovevano superare le rigidità della legge comunale e provinciale derivata dall’ordinamento del Regno di Sardegna, una delle quali prevedeva l’istituzione delle regioni e l’attribuzione alle province dei soli compiti di controllo e coordinamento dell’attività dei comuni. Tre mesi dopo, nel giugno del 1861, i progetti venivano sonoramente bocciati dalla Commissione parlamentare alla quale erano stati assegnati per l’istruttoria.

La nostra Costituzione, al Titolo V, può essere variamente interpretata ma affermando l’autonomia politica degli enti decentrati, non ha saputo staccarsi dal tradizionale dirigismo statale. Non è dal federalismo fiscale italian style che deriveranno mutamenti del ruolo e nel modo di operare del settore pubblico.

Una riflessione conclusiva. Le riforme istituzionali che sono in corso di attuazione sul modus operandi del settore pubblico non dovrebbero essere sgraditi a quegli animi che si collocano tra due pilastri dell’esprit liberal democratico, che scelgo tra i professori di scienza delle finanze, quali Luigi Einaudi e Ezio Vanoni. Entrambi parlano di pareggio di bilancio, di controllo e efficienza della spesa pubblica, di decentramento con autonomia tributaria, anche se con qualche diversità di opinione sull’appropriato livello della pressione tributaria.

Mi sembra che oggi non ci siano molti gradi di libertà nella gestione della politica di bilancio per indirizzarla verso obiettivi desiderabili e che le riforme in corso non influiscono in modo rilevante su questo scenario. Il settore pubblico deve riacquisire un po’ di credibilità e anche gestire il gettito dei tributi che raccoglie riducendo inefficienze e sprechi. Le innovazioni istituzionali possono aiutare, ma non c’è nulla che possa sostituire, nel disegno delle politiche di bilancio, la saggezza dell’azione giornaliera del governo del paese.

 

Istituto di economia e finanza
Università Cattolica – Milano

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