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Gaza, “l’attacco di Hamas a Israele non è una guerra ma un atto terroristico e il conflitto va subito circoscritto”: parla Silvestri

Intervista a Stefano Silvestri, grande esperto di affari militari e già presidente Iai e direttore editoriale di AffarInternazionali – “È una lotta al terrorismo. Se le cose si allargassero potrebbe diventare una guerra perché coinvolgerebbe il resto del mondo” – Siamo in una fase in cui Israele deve ancora riconquistare il suo territorio e assicurarsi l’effettivo controllo della frontiera con Gaza. Poi si vedrà come negoziare e se negoziare”. Netanyahu deve fare attenzione a non compiere passi falsi

Gaza, “l’attacco di Hamas a Israele non è una guerra ma un atto terroristico e il conflitto va subito circoscritto”: parla Silvestri

“Hamas spera che il contrattacco israeliano susciti la solidarietà del mondo arabo contro Israele, allargando questa crisi al livello di guerra regionale e forse globale poiché un simile sviluppo coinvolgerebbe necessariamente il resto del mondo. Al di là delle scelte che farà Israele, il resto del mondo farebbe bene a concentrarsi sulla necessità di mantenere questo conflitto entro gli attuali limiti geografici”. È preoccupato il professor Stefano Silvestri, osservatore acuto dei processi geopolitici e militari, già presidente dello Iai, l’Istituto Affari Internazionali: dopo l’invasione dell’Ucraina, un’altra crisi gravissima nel Mediterraneo sta sconvolgendo il mondo con un carico di orrori mai visti. 

Nella conversazione con FIRSTonline Silvestri comincia con il contestare la stessa formulazione dell’attacco di Hamas a Israele: non è una guerra, ma un atto terroristico.

E le parole contano, vero professore?

“Assolutamente sì. La pressione politica a dichiarare una nuova “guerra al terrore”, come fecero gli americani dopo l’11 settembre, è altissima, ma non è necessariamente la strada migliore. Le parole portano ad azioni, nel 2001 come adesso. Che guerra vuole fare Netanyahu? Vuole occupare Gaza? Ma questo potrebbe rivelarsi un incubo perché per farlo dovrebbe mantenere sul territorio un esercito permanente. Senza contare che questo creerebbe una ennesima grande ondata di profughi. Che oltre al dramma umano, politicamente potrebbe anche significare la dispersione di cellule terroristiche nei paesi d’accoglienza, in una sorta di metastasi del terrore”.

Quindi è concettualmente sbagliato parlare di guerra?

“Secondo me sì, è concettualmente sbagliato in questo caso. È una lotta al terrorismo. Poi se le cose si allargassero potrebbe diventare una guerra. Se per esempio si aprisse un fronte al nord con il Libano e la Siria, o se l’Iran entrasse in campo. Ma al momento siamo solo di fronte a piccole scaramucce sulla frontiera settentrionale, e speriamo che restano tali”.

La risposta di Israele ha già fatto 1.500 morti fra i palestinesi e siamo solo agli inizi. Gli orrori trovati dai militari israeliani nel kibbuz di Kfar Aza assaltato da Hamas, con 200 morti fra i quali 40 bambini, alcuni dei quali decapitati, non ammettono debolezze, si capisce. Eppure, non tutti sono d’accordo sulla linea dura che Israele sta attuando togliendo acqua, luce e gas alla popolazione di Gaza. Per esempio, Laurent Joffrin, storico direttore di Libération e Nouvel Observateur, oggi la critica aspramente su Le journal.info, la critica aspramente. Lei che ne pensa?

“Ho letto la newsletter di Joffrin, che ricorda come anche i francesi abbiano vissuto l’orrore terrorista, a casa loro. Resto però dell’idea che la reazione di Israele sia proporzionale all’offesa subita, almeno per ora. Il problema di Israele è nella asimmetria delle aspettative. L’attacco terrorista ha ignorato e violato ogni principio legale e morale. La risposta israeliana è condizionata dal rispetto delle sue stesse leggi e regole, tanto più se ad agire sono le sue Forze Armate. Questa asimmetria si traduce spesso nella indicazione di “linee rosse”, limiti posti all’azione, che non debbono essere superati. Spesso sono stati gli stessi alleati di Israele a tracciare tali linee e ad esercitare pressioni perché venissero rispettate. Oggi però è impossibile, di fronte all’orrore, arrogarsi il diritto di tracciare linee: gli unici che possono farlo sono gli stessi israeliani. Sono loro, secondo me, che devono decidere fino a che punto spingere la logica dell’”occhio per occhio”. Dopo l’11 settembre gli USA hanno attaccato l’Afghanistan. Il problema in questo caso è se l’attacco israeliano potrà infliggere una sconfitta significativa ad Hamas, oppure se farà scattare la trappola mediatica anti israeliana”.

La questione degli ostaggi è gravissima. Ce ne sono 150 nelle mani di Hamas. La memoria va al 2006 quando i terroristi presero in ostaggio il giovane caporale Gilad Shalit. Ci fu, lo ricordiamo, l’Operazione Piogge Estive, con cui l’esercito tentò il suo salvataggio, senza successo. Furono eliminati e arrestati molti capi di Hamas, ma alla fine Israele si rassegnò a un negoziato molto umiliante che portò alla liberazione di Shalit cinque anni dopo la cattura e in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi. Uno dei quali è colui che ha oggi in mano il destino dei prigionieri, Yahia Sinwar, 62 anni, 20 dei quali trascorsi in cella in Israele, condannato a quattro ergastoli per aver ucciso palestinesi che considerava collaborazionisti. Come potrà comportarsi Israele?

“Il fatto è che Israele è molto fragile di fronte alle prese di ostaggi, non è in grado politicamente di dire “noi non trattiamo con i terroristi”. È una debolezza, ma va ricordato che è anche uno dei pilastri della sua identità nazionale: nessuno è sacrificabile. Un negoziato di tali proporzioni appare impensabile. Ma anche dare per morti tutti per non fermare la rappresaglia è impossibile da accettare. Comunque la si guardi Netanyahu deve confrontarsi con la necessità di compiere scelte crudeli, che creeranno altre perdite. Certo, non è ancora il momento della trattativa. Bisognerà aspettare l’esito della controffensiva e poi sentire cosa chiederà Hamas. Siamo in una fase in cui Israele deve ancora riconquistare tutto il suo territorio e metterlo in sicurezza. E assicurarsi l’effettivo controllo della frontiera con Gaza. Poi si vedrà come negoziare e se negoziare.”

Quando si parla di palestinesi, che cosa bisogna intendere? Essi sembrano, politicamente parlando, senza scelte: da una parte c’è la gerontocrazia di Al Fatah; dall’altra i fanatici di Hamas. Il vecchio partito di Arafat, governa a Ramallah, nell’area della Cisgiordania non controllata dagli israeliani, in totale un territorio più piccolo del Molise, dove vivono oltre 3 milioni di abitanti; Hamas, le cui milizie sono state messe fuorilegge dallo stesso presidente palestinese, Abu Mazen, controlla invece la Striscia di Gaza, 360 km quadrati, appena due volte Milano, dove vivono 1 milione e 700 mila persone, di cui 1 milione e 200 mila sono rifugiati, quelli della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Quale leadership possiamo aspettarci che esprimano in queste condizioni?

“La verità purtroppo è che non c’è una leadership palestinese in grado di proporre, di sostenere e di accettare un effettivo piano di pace. In questo momento storico Israele rifiuta l’opzione dei due Stati, sembrava in un periodo che ci fossimo quasi arrivati, ma i palestinesi si tirarono indietro. L’attuale dirigenza palestinese non è in grado di accettare questa ipotesi dei due Stati alle condizioni che oggi Israele potrebbe accettare. Questo significa però che siamo in una situazione di stallo. Perché se l’obiettivo, come dice Hamas, è solo quello di distruggere Israele, non ne hanno la forza. E alla lunga finiscono per mettersi in una posizione che fa soffrire soprattutto i palestinesi. Probabilmente vorrebbero creare uno schieramento anti israeliano più consistente e sperano che l’alleanza con l’Iran e il rapporto dell’Iran con la Cina e con la Russia, con la presenza iraniana in Irak e in Siria, e in Libano con gli Hezbollah, sia sufficiente o possa essere l’inizio di un blocco anti israeliano che in qualche maniera costringa anche gli americani, oltre che Israele, a rivedere le loro priorità”.

Francamente non sembra reale.

“No, è solo nella loro testa. È chiaro però che questi atti terroristici vengono sfruttati dall’Iran, e da altri, turchi, sauditi, egiziani, marocchini, algerini, nella lotta per l’influenza nel mondo arabo. Lotta che alimenta una serie di guerre nel Medio Oriente e in Africa: Yemen, Sudan, Libia, regione Sub-sahariana, in cui i movimenti terroristici, soprattutto al Qaeda e l’Isis, con i loro alleati, sono protagonisti. Hamas si inserisce in questo quadro anche se la sua sfera di azione è più limitata per il momento all’ambito della lotta a Israele. Insomma, può apparire non reale, ma intanto frena ogni spinta al cambiamento e allo sviluppo di quelle zone”.

Alla fine, torna la domanda che ci siamo fatti in altri momenti terribili in cui gente inerme veniva massacrata da fanatici in Europa, in America, nel mondo: si può sconfiggere il terrorismo?

“Si possono sconfiggere i terroristi e le loro organizzazioni. Ma è difficile batterli solo bombardando. Si può vincere se si mobilita anche la politica e la polizia. Devi cambiare la vita delle persone e arrestare i terroristi. Ci vogliono politica e tribunali, oltre che soldati”.

Perché Israele non è riuscita?

“Perché non ha instaurato uno stato di diritto nei territori occupati. Ha instaurato un’occupazione con processi di annessione. E poi c’è la storia. Le frontiere sono sempre state provvisorie. Quelle del 1948 sono state riconosciute per convenzione a Israele, ma non sono mai state riconosciute dai palestinesi e dagli arabi. Per cui questo ha spinto Israele sulla strada delle annessioni: se loro non le riconoscono io ne faccio altre. Ora la questione è che tu, Israele, puoi anche allargarti e prenderti tutta la Cisgiordania, ma poi devi dare i diritti politici agli abitanti. Ma non vogliono né possono darli questi diritti: perché il loro massimo terrore è diventare un paese a maggioranza araba”.

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