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Galli: “Evitare la recessione è possibile, ma la politica non deve fare pazzie”

“La Bce alzerà i tassi senza provocare una caduta dell’economia, ma è difficile che trovi una soluzione per gli spread. Lo Stato deve fare molto, ma non invadere lo spazio dei privati”.

Galli: “Evitare la recessione è possibile, ma la politica non deve fare pazzie”

L’inflazione molto alta, come non si vedeva da quasi trent’anni, erode il reddito disponibile e quindi è probabile che in autunno avremo un ulteriore rallentamento delle economie dell’Occidente. E tuttavia sia la Fed che la Bce hanno manifestato l’intenzione di procedere in maniera graduale verso un aumento dei tassi d’interesse e una riduzione della liquidità del sistema, mentre le politiche fiscali, anche grazie ai fondi europei del Next generation UE, dovrebbero mantenersi lievemente espansive, e questo dovrebbe evitare una recessione vera e propria. Sempre che il conflitto generato dall’invasione russa dell’Ucraina non evolva in modo catastrofico. Sicuramente avrà effetti sui prezzi dell’energia, e in particolare del gas, ma per il resto potrebbe avere effetti contenuti. Questo, in estrema sintesi, il giudizio di Giampaolo Galli, ex direttore generale di Confindustria e ANIA, che attualmente affianca Carlo Cottarelli all’Università Cattolica di Milano.

Situazione molto difficile. L’incertezza aggrava le prospettive dei consumatori e degli investitori. Per cercare di dipanare la matassa iniziamo a chiarire le caratteristiche di questa ondata inflattiva e quindi a mettere a fuoco le possibili medicine da adottare.

«In generale si può dire che la grande liquidità creata dalle banche centrali per buona parte del decennio precedente, e che poi ha addirittura accelerato durante in COVID nel 2020 anche a causa di politiche fiscali molto espansive, ha provocato nel 2021 una ripresa economica molto rapida che si è scontrata con le strozzature dell’offerta, dovute sia alla mancanza di investimenti nel settore energetico e in molte infrastrutture, sia con una politica, voluta anche dai governi, in primo luogo la presidenza Trump, volta a una ridefinizione della globalizzazione. L’imposizione di dazi, e altri ostacoli al libero commercio, hanno indotto molte aziende a cercare nuove catene di fornitori, a rimpatriare alcune produzioni, a cercare paesi affidabili con i quali stabilire accordi stabili di fornitura. Tutto questo richiede tempo e comporta costi. Quindi l’offerta di prodotti non è stata in grado di soddisfare il ritorno impetuoso della domanda e di conseguenza i prezzi sono entrati in tensione».

“L’inflazione è iniziata ben prima della guerra in Ucraina”

Ma la causa principale dell’inflazione non sta nei prodotti energetici ed in particolare nel rincaro del gas e delle altre materie prime?

«I rincari dei prezzi delle materie prime sono iniziati diversi mesi prima dello scoppio della guerra, il 24 febbraio. Infatti, se guardiamo i prezzi di alcune materie prime, vediamo che la maggior parte degli aumenti c’è stata lo scorso anno. Il rame, ad esempio, è sceso dal 24 febbraio del 23% mentre è salito del 60% rispetto al gennaio 2020, cioè prima della esplosione della emergenza sanitaria. Analogo l’andamento dell’alluminio, mentre lo stagno è salito del 161% rispetto a prima della pandemia ma è sceso del 50% dal febbraio di quest’anno. Il legname è salito del 200% rispetto al 2020, ma è sceso del 50% negli ultimi mesi rispetto ai massimi. Anche il petrolio è salito molto sul finire dello scorso anno e poi è rimasto più o meno stabile intorno ai 100 dollari. Diverso il discorso del gas, che risente di più della dipendenza europea dalla Russia. I prezzi sono saliti prima della guerra arrivando da 20 dollari a 230 per poi ricollocarsi intorno ai 90 dollari. Negli ultimi giorni, con l’aggravarsi della minaccia di Putin di tagliare completamente le forniture all’Europa il prezzo è schizzato fino ad oltre 160 dollari. Questo per chiarire che la corsa dei prezzi è iniziata ben prima dello scoppio della guerra e che la nostra inflazione ha ben poco a che vedere con le nostre sanzioni alla Russia o con le loro controsanzioni. Le responsabilità vanno fatte risalire alla imposizione dei dazi verso la Cina e anche rispetto all’Europa da parte di Trump».

È chiaro quindi che trattandosi di crisi di offerta (almeno in Europa) la politica monetaria da sola non può risolvere tutti i problemi. Bisognerà fare investimenti per eliminare i colli di bottiglia, ripristinare una certa fluidità del commercio mondiale, tenere sotto controllo l’inflazione.

«Nel settore energetico i privati non hanno gran voglia di aumentare i propri investimenti, dato che è stato detto loro da tutti i governi che entro vent’anni o poco più tutti i combustibili fossili devono essere banditi per riportare sotto controllo le alterazioni climatiche. Quindi saranno gli Stati che dovranno fare gli opportuni investimenti per evitare di rimanere senza energia e quindi bloccare la produzione nei paesi industrializzati. Per la politica monetaria è indispensabile tornare, con gradualità, verso un assetto dei tassi più “normale”. Ancora oggi il tasso sui depositi bancari presso la Bce è del meno 0,50% e tra breve di passerà al meno 0,25%, una piccola variazione. Anche i tassi sui titoli sono un po’ aumentati ma in termini reali, cioè tenendo conto di una inflazione che è intorno all’8%, si tratta sempre di livelli molto bassi. Come hanno evidenziato banchieri centrali esperti, in passato quando la Fed ha voluto attuare un atterraggio morbido dall’inflazione, cioè quando ha voluto provocare un rallentamento dell’economia, ma non una recessione: c’è sempre riuscita, tranne negli anni ‘80, quando Paul Volker volle bloccare rapidamente gli incrementi dei prezzi che andavano avanti da troppi anni e avevano provocato stanchezza e disorientamento presso la pubblica opinione. Oggi non ci troviamo in quella situazione. L’inflazione è un fenomeno recente, quasi sconosciuto alle nuove generazioni, per cui la pubblica opinione non capirebbe una stretta troppo dura da parte delle banche centrali».

Come la Bce può contenere la divaricazione dello spread

Soprattutto la Bce è alle prese con un problema ulteriore e cioè quello di evitare una eccessiva divaricazione dello spread tra paesi, divaricazione che se troppo accentuata potrebbe portare ad una crisi più generale della efficacia della politica monetaria e, al limite, dell’ Euro. È un problema non nuovo che interessa in questo momento soprattutto l’Italia.

«È un problema complesso. Lagarde si è impegnata a presentare un piano per evitare che la differenza dei tassi tra i vari paesi si allarghi a dismisura. Ma per farlo bisognerebbe comprare i titoli di quel paese senza limiti, il che è contrario allo statuto della Bce, entra in contrasto con l’intenzione della politica monetaria di darsi una postura più restrittiva e soprattutto potrebbe comportare un vero e proprio trasferimento di denaro da alcuni paesi ad altri, cosa che deve essere decisa solo da un organo politico e non dalla Banca centrale. Tecnicamente, come ha fatto notare il presidente della Bundesbank, non è semplice distinguere tra aumenti degli spread ingiustificati, cioè quelli basati sulle aspettative degli operatori che se lasciate a se stesse tendono ad avverarsi, e differenziali dovuti ai fondamentali delle rispettive economie. Il Governatore della Banca d’Italia ha tentato questa operazione fissando in 150-200 punti il differenziale dello spread italiano dovuto ai fondamentali della nostra economia. E il mercato per il momento ci ha creduto».

Però adesso tutti si aspettano che dal cilindro della Bce esca qualche proposta convincente per tener buona la speculazione ed evitare un eccessivo allargamento dello spread italiano. Recentemente due economisti, Ignazio Angeloni e Daniel Gros, in un articolo sul Sole 24 Ore, hanno sostenuto che lo strumento per bloccare il rischio Italia già c’è, ed è la linea precauzionale del MES.

«A parte che il MES è visto come il fumo negli occhi da molti politici italiani, bisogna vedere se è davvero possibile attivare questo strumento che richiede impegni da parte dei paesi che lo richiedono. Comunque occorrerà sempre passare per il consiglio del MES, nel quale siedono i rappresentanti dei governi europei, e quindi una decisione di questo genere passa comunque per il vaglio politico, come del resto deve essere. Bisogna insomma stabilire se un paese con i fondamentali in ordine viene attaccato dalla speculazione e quindi ha bisogno di un sostegno di liquidità temporaneo, oppure se si trova in una posizione di crisi strutturale e quindi ha bisogno di un vero e proprio salvataggio. In quest’ultimo caso si tratta di trasferire ricchezza da un paese ad un altro e questo deve passare da una decisione eminentemente politica. Insomma la Bce farà probabilmente una proposta simile a quella della linea precauzionale, ma che tuttavia richiederà delle condizionalità alle quali in nostro paese dovrà aderire, nel caso volesse attivare lo scudo, tipo OMT, e cioè un intervento illimitato da parte della Banca Centrale Europea a sostegno dei titoli del proprio debito pubblico».

Torniamo quindi al problema che il nostro debito pubblico e la gestione del nostro bilancio è soprattutto un problema si scelte di politica economica interna. Ora con l’aumento dell’inflazione il rapporto debito/PIL dovrebbe migliorare, a patto, ovviamente, che i tesoretti che si formano grazie all’aumento delle entrate dovuto alla crescita dei prezzi, non sia immediatamente usato per aumentare le spese pubbliche.

«Noto che la maggior parte dei partiti avanza proposte di nuove spese (più pensioni, più welfare, più soldi agli enti locali) ma nessuno indica come reperire la risorse o come ridurre le spese attuali, molte delle quali andrebbero rivisitate per mettere degli argini. Ad esempio, adesso rifinanziamo il Comune di Napoli, ma nessuno capisce bene se i debiti si sono accumulati per errori dei precedenti amministratori napoletani o per un’errata politica dello Stato nei confronti dei comuni. Così molti bonus vengono distribuiti a pioggia, mentre sarebbe sicuramente meglio concentrarli sulle fasce della popolazione più bisognose. Lo stesso vale per le imprese dove vengono previsti incentivi non sempre efficaci per stimolare l’innovazione e quindi la crescita delle imprese stesse. I partiti italiani creano incertezza che si ripercuote sui mercati facendo aumentare il rischio Italia».

Anche Draghi ha più volte detto che l’unica ricetta possibile per il nostro paese, stretto nella morsa del debito pubblico, è una crescita più elevata. E tuttavia vista la difficoltà che incontrano le riforme e l’emergenza continua nella quale il paese è costretto ad agire, non mi sembra che abbiamo imboccato una strada sicura verso una maggiore crescita.

«Una parte delle nostre imprese, soprattutto manifatturiere ha saputo innovare ed è riuscita a conservare nel decennio scorso la propria quota del commercio internazionale nonostante l’arrivo dei paesi emergenti e in particolare della Cina. Non riusciamo invece ad aumentare l’efficienza della macchina pubblica. Lo stesso ministro Brunetta ha dovuto rinunciare alla sua riforma del 2009 che inseriva una valutazione di professionalità e quindi di merito, negli avanzamenti di carriera dei dipendenti pubblici. Invece si continuerà ad andare avanti per anzianità, e nei livelli superiori varrà sempre di più l’apparenza a cordate o clan politici. Anche i magistrati si ribellano a quella piccola innovazione rappresentata dal “fascicolo di valutazione” varato dalla riforma Cartabia, preferendo affidare la propria carriera all’ anzianità oppure, per le posizioni apicali, ai metodi ben descritti dall’ex magistrato Palamara».

“Giuliano Amato troppo ottimista sul ruolo dello Stato”

In un recente saggio, Giuliano Amato offre un “bentornato” allo Stato, chiamato a fare molte cose fondamentali per permetterci di crescere, e che, a suo parere, si è depurato dai vecchi vizi della politica intrigante.

«Non credo che il nostro sistema abbia già gli anticorpi per evitare i guai del passato. Ci sono ancora troppi inventivi discrezionali e quindi è normale che gli imprenditori facciano la fila di fronte alle stanze dei politici per averne una quota. Molti studi hanno chiarito che le imprese finanziate dalla politica fanno in genere buoni profitti a breve ma innovano meno delle altre e quindi finiscono per crescere di meno. In realtà lo Stato deve tenersi alla larga dalla gestione diretta o indiretta delle aziende, mentre dovrebbe concentrarsi sulle politiche generali come, ad esempio quelle indicate dalla UE anche riguardano la digitalizzazione e il risanamento ambientale. C’è poi l’istruzione, la ricerca e specie di questi tempi, la sicurezza. Tante cose da fare bene e con lungimiranza, aiutando il mercato senza interferire nelle decisioni gestionali».

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