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FOCUS BNL – Imparare le lezioni del commercio estero

Sono almeno quattro, e diverse, le storie che raccontano i risultati di commercio estero raggiunti dall’economia italiana nel 2012: il saldo commerciale, le esportazioni, l’import e il valore dell’interscambio – I numeri dell’Italia e il confronto con gli altri Paesi.

FOCUS BNL – Imparare le lezioni del commercio estero

Sono almeno quattro, e diverse, le storie che raccontano i risultati di commercio estero raggiunti dall’economia italiana nel 2012. 

La prima storia è quella del saldo commerciale, la differenza tra esportazioni e importazioni. Nell’anno forse più difficile dal secondo dopoguerra la nostra economia ha scoperto di essere il paese dei due avanzi. Al surplus primario dei conti pubblici si aggiunge oggi lo scarto che dopo molti anni torna positivo tra il valore dell’export e quello dell’import. L’avanzo 2012 del commercio estero ammonta a una decina di miliardi di euro. Non è molto, ma la discontinuità è importante. Lo scorso anno paesi in condizioni macroeconomiche certamente migliori delle nostre hanno continuato a registrare deficit commerciali dell’ordine di decine di miliardi di euro. È il caso della Francia e del Regno Unito. Ovviamente, non della Germania. Ma quello tedesco, si sa, è un caso a parte.

La seconda storia è quella delle esportazioni. Se il prodotto interno lordo manovra ancora in retromarcia, le esportazioni si ostinano a guardare avanti. Tra il 2009 e il 2012 le esportazioni italiane sono cresciute di un centinaio di miliardi. L’Italia dell’export ha tenuto il passo. Anzi, ha fatto anche qualcosa di più dal momento che l’export è da noi aumentato quanto in un paese come la Francia il cui PIL supera il nostro di un buon venti per cento. Il punto è, però, un altro. Nell’arena globale a competere non sono le imprese da sole, ma i sistemi economici. In questo contesto, la tenuta dell’export italiano ha qualcosa di miracoloso. Qualcuno ha definito gli esportatori italiani come “mad for Italy”, dei pazzi che continuano a darsi da fare nonostante i tanti handicap domestici sofferti dai nostri imprenditori: dai dodici punti di cuneo fiscale in più rispetto alla media OCSE ai costi imposti da un sistema-paese dove i debiti ancora non liquidati dalle pubbliche amministrazioni hanno la dimensione delle manovre di bilancio approvate per risanare i conti pubblici di un quadriennio. Il fardello delle inefficienze interne pesa sulla competitività e sulle prospettive dell’export italiano. I sintomi di un affaticamento sono purtroppo evidenti nelle dinamiche più recenti. Segnali importanti di decelerazione emergono anche sul fronte dei mercati extra-Ue ove nel triennio 2009-2012 le vendite italiane sono aumentate del cinquanta per cento e dove oggi si concentra il 46 per cento delle nostre esportazioni.

La terza storia da raccontare riguarda l’import. Nel 2012 il valore delle importazioni italiane è calato di circa sei punti percentuali. Da un punto di vista statistico il calo dell’import contiene la discesa del PIL. Ma questa è una buona notizia solo a metà. La riduzione degli acquisti dall’estero è, infatti, l’altra faccia di due fenomeni che si chiamano impoverimento e deindustrializzazione. La perdita di lavoro e la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie si traduce in una compressione delle importazioni. È il meccanismo classico di un aggiustamento “à la Hume” di uno squilibrio dei conti con l’estero. Una via dolorosa, ma non sufficiente poiché l’impoverimento non implica automaticamente un recupero durevole della competitività. L’aspetto relativo della deindustrializzazione si legge nella riduzione verticale delle importazioni di beni strumentali e di beni intermedi. Il fatto di importare meno macchinari e meno semilavorati è il correlato di un sistema industriale che dimagrisce. Il rischio di essere via via emarginati nella rete della grande “bazar economy” planetaria è anche il contenuto della quarta storia che raccontano i numeri del nostro commercio estero: quella del valore dell’interscambio, ovvero della somma di esportazioni e importazioni che nel 2012 è tornata a volgere al ribasso.

Giustamente, da più parti è stato osservato che un modello di crescita basato sulle sole esportazioni non basta, né a livello Mondo né per un singolo paese. Occorre un nuovo paradigma, giocato sull’espansione bilanciata di entrambe le poste del commercio estero. L’aumento delle esportazioni ha bisogno della vitalità dell’import per durare nel tempo. Questo vale per ogni singola economia e a livello internazionale, dove appare difficile trovare un nuovo prenditore netto globale di importazioni che rilevi il ruolo per tanto tempo rivestito dagli Stati Uniti.

Per l’Italia il passaggio è oltremodo delicato. Le storie scritte nel 2012 dalle cifre del nostro interscambio raccontano di luci come di ombre. Occorre rimanere vicini a quel cinque per cento di imprese italiane che fanno esportazioni e a quel cinque per mille di aziende che, attraverso filiazioni controllate all’estero, affrontano un discorso a tutto tondo di internazionalizzazione e tengono il sistema-paese connesso alla rete globale della competizione. Duecentomila esportatori e ventimila aziende internazionalizzate non bastano però a però a rimettere in moto un progetto di sviluppo sostenibile per il futuro di venti milioni di famiglie. Per questo servirà qualcosa in più del commercio estero.

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