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Fiat, trent’anni di antagonismo sindacale non hanno premiato la Fiom

Nel 1988 l’accordo sindacale in Fiat fu firmato solo da due organizzazioni sindacali come Fim e Uilm, minoritarie rispetto a Fiom, che negli anni hanno guadagnato consensi e da lì comincia una stagione sindacale più partecipativa nella quale la Fiom ha perso terreno

Luglio 1988: dopo undici anni la Fiat e i sindacati metalmeccanici si ritrovano al tavolo negoziale per rinnovare il contratto integrativo aziendale, in vigore dal luglio 1977. L’accordo integrativo del 7 luglio 1977 si firmò in una nottata carica di tensione, dopo che gli stabilimenti torinesi erano bloccati da oltre una settimana e dopo che nel pomeriggio precedente si avevano avuti, all’ingresso della palazzina direzionale della Iveco, tafferugli tra gli addetti alla sicurezza e i picchettanti che impedivano l’accesso ai vertici aziendali.

Anche la notte del 18 luglio 1988 si chiuse in un modo traumatico, con l’abbandono del tavolo da parte della Fiom-Cgil e la sottoscrizione dell’accordo solo con la Fim-Cisl e la Uilm-Uil. Ma il quadro sindacale è ormai completamente mutato: il rinnovo del contratto integrativo Fiat non è costato nemmeno un minuto di sciopero.

Dopo la stagione degli scioperi selvaggi, dei cortei violenti, delle minacce ai capi e del terrorismo della seconda metà degli anni settanta, i 35 giorni della vertenza Fiat del 1980 culminata con la marcia dei quarantamila avevano segnato la sconfitta del massimalismo sindacale e permesso all’azienda di ristabilire le regole del vivere civile all’interno delle fabbriche.

Superata la crisi aziendale, negli anni successivi la Fiat rinnova la gamma prodotto (Uno, Croma, Thema), recupera la produttività del lavoro, investe negli impianti ad alta automazione, ritorna all’utile netto, che nel 1988 raggiungerà il record di 4.000 miliardi di lire. Sono gli anni in cui sfida la Volkswagen come leader del mercato europeo con la quota che oscilla tra il 16% e il 18%.

Il positivo andamento aziendale inoltre assicura i margini per dare nuovi contenuti ai rapporti fra lavoratori e azienda con un approccio partecipativo. All’opposto i sindacati escono piuttosto sfiancati dalla ristrutturazione dell’azienda avviata dopo il 1980, sia perché il loro potere movimentista è stato fortemente ridimensionato, sia perché, con lo scioglimento della federazione unitaria, i sindacati metalmeccanici saranno divisi da aspre polemiche che in Fiat ancora oggi non sono ricomposte.

La Fiat infatti non riconoscerà più al sindacato la rappresentanza esclusiva dei propri operai, in particolare del loro archetipo, l’operaio-massa di terza categoria alla catena di montaggio, ma rivendicherà un proprio spazio di autonomia nel rapporto diretto con gli operai, senza intermediazione sindacale: il che non voleva dire pensare di governare le fabbriche a prescindere dal rapporto con il sindacato, ma che c’era spazio sia per le relazioni interne che per le relazioni sindacali.

Il passaggio emblematico avviene quando, dopo anni di lotte sindacali per il “salario uguale per tutti”, la Fiat estende gli aumenti meritocratici agli operai, non solo a quelli delle categorie professionali elevate ma anche agli operai addetti al montaggio, vale a dire la maggioranza, attraverso la forma dell’una tantum, che premia la prestazione del lavoratore ma non differenzia la sua retribuzione in modo stabile da quella di un altro lavoratore con la stessa mansione.

Peraltro la Fiat era perfettamente consapevole che se questa linea fosse stata portata alle estreme conseguenze, con il salario gestito completamente dall’azienda, si sarebbe entrati in una definitiva rotta di collisione con il sindacato. Era necessario ricercare un nuovo modello di relazioni industriali che uscisse dalla logica dei rapporti di forza, con il pendolo del potere che oscillava a favore di una parte o dell’altra, a seconda dei momenti storici: negli anni settanta a favore del sindacato, negli anni ottanta a favore dell’azienda.

Una esigenza sentita non solo dall’azienda ma anche dal sindacato che portò, a metà degli anni ottanta, ad una serie di incontri “al caminetto” tra un gruppo formato da manager delle relazioni industriali Fiat e dell’Unione Industriale di Torino, sindacalisti, giuslaboristi e sociologi con lo scopo di superare il modello di relazioni industriali basato sulla centralità della contrattazione come strumento di composizione del conflitto con un modello di tipo partecipativo in cui si potessero identificare ambiti, aree e obiettivi comuni tra azienda e sindacato.

Non si trattava di sostituire la partecipazione alla negoziazione, ma di prendere atto che era possibile dare nuovi contenuti ai rapporti fra azienda e lavoratori e che tali contenuti avrebbero richiesto un approccio partecipativo. Il fatto poi che dall’evoluzione di un contesto partecipativo potessero derivare anche “vantaggi” per le parti sul piano più generale dei rapporti sindacali sarebbe stato del tutto naturale.

Sarebbe stato infatti inevitabile che il rafforzamento del tessuto dei rapporti sindacali in azienda, attraverso lo sviluppo dei momenti partecipativi, avrebbe aumentato anche le potenzialità contrattuali del sindacato, come sarebbe stata legittima l’aspirazione dell’azienda a creare le condizioni per una cultura sindacale più collaborativa volta al confronto-contributo per la soluzione non conflittuale dei problemi inerenti le condizioni di vita e di lavoro in fabbrica.

Su tali presupposti i sindacati metalmeccanici presentano alla Fiat nell’aprile 1988 la piattaforma rivendicativa per il rinnovo del contratto aziendale fermo da undici anni. Molte delle richieste sindacali saranno accolte dalla Fiat, dal modello delle relazioni sindacali, alla costituzione di commissioni di studio in materia di formazione professionale, ambiente di lavoro, previdenza ed assistenza, orario di lavoro e flessibilità, ma su un punto l’azienda non mollerà.

Gli aumenti salariali sarebbero stati dati solo sulla base degli andamenti aziendali in termini di redditività, produttività e qualità correlando la retribuzione dei lavoratori alle performance aziendali. È una rivoluzione copernicana: per la prima volta ad un tavolo sindacale di una azienda italiana non si deve più discutere di aumenti retributivi fissi, come ancora richiesto dai sindacati, ma di una retribuzione variabile collegata al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Sul tema della variabilità del salario si aprirà un contenzioso sindacale che forse solo oggi si è chiuso tra i sindacati metalmeccanici con l’ultimo rinnovo del CCNL, ma non ancora in Fiat stante la continua polemica della Fiom. Mentre la Fim-Cisl e la Uilm-Uil sembrano accettare l’innovazione proposta dall’azienda al tavolo della trattativa, la delegazione della Fiom-Cgil, condizionata dai “duri” delle federazioni di Milano, Brescia e Bologna, rifiuta ogni idea di salario variabile.

In quegli anni la Fiom è ancora il sindacato maggioritario negli stabilimenti Fiat (alle elezioni del Consiglio di Fabbrica di Mirafiori della primavera del 1988 ha ottenuto il 54% dei voti) ed è convinta che il muro contro muro con l’azienda sul salario alla fine pagherà. Ne deriverà uno scontro che finirà col diventare più acuto fra i sindacati che con l’azienda. Nella stessa Cgil si aprirà un dibattito in segreteria tra la posizione massimalista dell’allora segretario generale, di estrazione comunista, ed il suo vice, socialista.

Proprio il testo dell’accordo rimane il documento più sintomatico della vicenda: nella notte del 18 luglio 1988 il capo delegazione Fiom, dopo aver sottoscritto i capitoli “normativi” in precedenza già licenziati da Fim e Uilm, deve abbandonare, su pressione della propria delegazione, il tavolo della trattativa quando si deve affrontare e concludere l’intesa sul salario variabile. L’accordo sarà solo firmato da Fim-Cisl e Uilm-Uil e sarà il primo di una serie di accordi e contratti separati che seguiranno negli anni successivi. Uno dei temi che suscitarono allora, ma è ancora di attualità, il dibattito sull’accordo separato fu quello della rappresentatività e rappresentanza sindacale. Era valido ed efficace un accordo sindacale firmato solo da due organizzazioni sindacali, oltretutto minoritarie rispetto a Fiom?

La risposta non poteva che essere positiva, come non può che esserlo oggi, indipendentemente dai rapporti numerici oltretutto variati a favore di Fim e Uilm. Infatti, mentre mancano ancora i criteri legali di rappresentatività sindacale, Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil sono per antonomasia maggiormente rappresentativi e quindi tutti e tre, insieme o separatamente, sono in grado di stipulare accordi validi in un quadro legale di pluralismo sindacale.  

Come è avvenuto, ad esempio, nel 2010 con l’accordo separato della Fiat di Pomigliano, dove alcuni dei protagonisti dell’accordo del 1988, fra cui chi scrive, si sono ritrovati, con ruoli e responsabilità diverse a livello aziendale e sindacale, a gestire quella vicenda.

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