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Fiat, quando Mirafiori disse sì a Marchionne

Esattamente cinque anni fa avvenne la grande rivoluzione della fabbrica di Mirafiori: i lavoratori dello storico stabilimento della Fiat si espressero a maggioranza referendaria per il piano di consolidamento e rilancio dello stabilimento presentato dall’ad Sergio Marchionne – Ecco come andò e che cosa è cambiato in cinque anni.

Fiat, quando Mirafiori disse sì a Marchionne

Cinque anni fa, il 15 gennaio 2011, i lavoratori della Mirafiori, il cuore storico delle lotte operaie non solo della Fiat ma del Paese, si espressero a maggioranza referendaria per il piano di consolidamento e rilancio dello stabilimento presentato dall’ azienda e per la contestuale applicazione del nuovo Contratto di Lavoro Fiat, esterno agli accordi interconfederali e al contratto nazionale dei metalmeccanici.  

Per Mirafiori fu una rivoluzione. Sul piano industriale, l’assetto produttivo dello stabilimento passava da “generalista” (sino a pochi anni prima si producevano ben 7 modelli, di tutte le gamme e marchi: Panda, Punto, Idea, Lancia Musa, Multipla, Alfa 166, Lancia Thesis) a produttore esclusivo di vetture di gamma alta (con lo stabilimento Maserati di Grugliasco avrebbe in seguito formato il polo torinese delle vetture di lusso).

Sul piano delle relazioni industriali, per la prima volta dopo più di trent’ anni, a Mirafiori vinsero i “sì” in un referendum tra i lavoratori chiamati a votare su un accordo firmato da Fim, Uilm e Fismic, ma non da Fiom.

Se la vicenda di Pomigliano del giugno 2010 era stata interpretata, anche dagli stessi sindacati che avevano firmato l’ accordo,  come un fatto che poteva essere circoscritto ad una realtà particolare, caratterizzata da una eccessiva conflittualità e da forme anomale di assenteismo, nell’ autunno successivo all’ apertura del tavolo negoziale per Mirafiori la Fiat, a garanzia di un piano di investimenti di oltre un miliardo di euro, ribadiva la necessità che le eventuali intese raggiunte fossero rispettate dal sindacato e non sistematicamente ignorate o ricontrattate quando le esigenze aziendali ne richiedevano l’ applicazione (proprio a Mirafiori nell’ estate di due anni prima c’ era stato un duro scontro con la Fiom che aveva proclamato lo sciopero dello straordinario durante i sabati produttivi contrattualmente dovuti senza accordo sindacale).  

La Fiat in sostanza scommetteva sulla capacità di competitività del sistema industria Paese, chiedendo in cambio di avere certezza ed esigibilità dei “patti” sottoscritti con il sindacato. Per fare ciò occorreva, per un verso, che ci si liberasse da quei “lacci e lacciuoli” sindacali che in una economia di mercato costituiscono inutili freni e che, per l’ altro verso, si potesse operare in un quadro di certezza e di condizioni simili a quelle presenti nei paesi concorrenti.

Dopo oltre due mesi di trattativa, con la Fiom che scelse la linea oltranzista di “rifiutare il ricatto”, il 23 dicembre 2010 venne firmato con i sindacati riformisti e partecipativi l’ accordo che recepiva le nuove regole di fabbrica, già previste dall’ accordo di Pomigliano, con il passaggio dei lavoratori della Mirafiori alla joint Fiat-Chrysler, la new company che sarebbe stata costituita per realizzare l’ investimento produttivo previsto.

La nuova società avrebbe avuto un contratto di lavoro specifico ed inizialmente non avrebbe aderito a Confindustria, in attesa che la stessa Confindustria formalizzasse con i sindacati un nuovo contratto per il “settore auto”, almeno stando al così detto “Patto di New York” stabilito tra Sergio Marchionne e la Marcegaglia, al tempo Presidente di Confindustria.

Nella settimana successiva, il 29 dicembre 2010, viene sottoscritto dai segretari nazionali di Fim, Uilm e Fismic uno specifico contratto collettivo nazionale di lavoro (il CCSL di I° livello) da applicare ai lavoratori Fiat che sarebbero passati alle new company di Pomigliano e Mirafiori, in sostituzione del contratto collettivo confindustriale dei metalmeccanici; la Fiom venne esclusa dal tavolo contrattuale per non aver voluto siglare gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, neanche con una firma tecnica come più volte suggerito dalla Camusso.

Con l’ applicazione del nuovo contratto collettivo, soltanto i sindacati firmatari avrebbero goduto dei diritti sindacali e di una propria rappresentanza nelle nuove società, sulla base di quanto previsto dallo Statuto dei Lavoratori: era dagli anni sessanta, con le Commissioni Interne, che la Fiom restava senza rappresentanza sindacale all’ interno di Mirafiori.

Il dibattito se accettare o meno le condizioni poste dalla Fiat per il rilancio di Mirafiori coinvolge non solo Torino, con il sindaco Chiamparino che si schiera da subito a fianco dell’ azienda, ma si estende a livello nazionale (Mirafiori era un simbolo delle lotte operaie ben più di Pomigliano): nei giorni del referendum e nella notte dello spoglio delle schede gli ingressi simbolo della fabbrica, la Porta 2 e la Porta 5, saranno costantemente presidiate dalle televisioni e dai giornalisti, oltre che dai rappresentanti professionisti del fronte del “no”, giunti da diverse parti del Paese.

E’ in questo scenario che il 13 e 14 gennaio 2011 i lavoratori della più grande fabbrica d’ Italia si trovano di fronte ad una scelta. Dopo due giorni di votazioni, la vittoria dei “sì” arrivò di misura e fu chiara solo alle 6 del mattino del 15 gennaio, quando terminò lo scrutinio dell’ ultima urna, quella degli impiegati. Tra gli operai i “sì” vinsero con uno scarto di appena 9 schede, mentre sul totale dei lavoratori i voti favorevoli superarono il 54%.

La Mirafiori aveva accettato il nuovo Contratto Fiat, pur se con metà stabilimento contrario. La “Feroce” (così chiamata dai vecchi operai comunisti) era salva, e Torino tirò un sospiro di sollievo.

Nel maggio successivo anche i lavoratori dello stabilimento ex-Bertone di Grugliasco, rilevato dalla Fiat e roccaforte della classe operaia fiommina torinese, approvavano con un referendum a maggioranza bulgara, in cambio di occupazione e investimenti per la produzione della Maserati, la nuova regolamentazione dei rapporti di lavoro: i rappresentanti sindacali aziendali della Fiom invitarono a votare per il “sì” pur sapendo che, con l’ applicazione del nuovo Contratto, sarebbero decaduti dai loro incarichi.

La svolta definitiva in quell’ anno si ebbe infine con l’accordo interconfederale Marcegaglia-Camusso del 21 settembre, che di fatto era una rinuncia preventiva di Confindustria ad utilizzare, nelle relazioni industriali e in materia di lavoro, i maggiori spazi concessi dal Parlamento con il noto art. 8 della legge 148/2011 sulla contrattazione di prossimità (norma da sempre osteggiata dal sindacato e ora surrettiziamente richiamata nel documento di pochi giorni fa sulla contrattazione di Cigl, Cisl e Uil).

Con la firma dell’ accordo interconfederale iniziava un acceso dibattito politico-sindacale che, con prese di posizione contraddittorie e addirittura con dichiarazioni di volontà, in particolare dei sindacati antagonisti, di evitare l’ applicazione degli accordi nella prassi quotidiana, ridimensionava fortemente le aspettative sulla efficacia della contrattazione aziendale prevista dall’ art.8, e quindi degli accordi Fiat.

A questo punto la Fiat, non potendo permettersi di continuare ad operare in Italia in un quadro di incertezze che l’ avrebbero ulteriormente allontanata dalle condizioni esistenti nel mondo industrializzato e nel constatare che non esistevano le condizioni per un contratto confindustriale del settore auto (come ipotizzato nel precedente Patto di New York), decise di uscire da Confindustria con effetto dal 1° gennaio 2012, mantenendo soltanto il rapporto storico di collaborazione con l’ Unione Industriale di Torino.

Contestualmente venne esteso a tutte le aziende e a tutti i lavoratori del Gruppo il Contratto Collettivo Specifico di Lavoro di primo livello (CCSL Fiat) del 29 dicembre 2010, siglato nella sua stesura definitiva il 13 dicembre 2011.

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