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Economia, la crisi entra nel settimo anno: ma abbiamo o no imparato la lezione?

La grande recessione internazionale ha compiuto esattamente 6 anni: era infatti il 9 agosto 2007 quando le principali banche centrali del pianeta dovettero intervenire a sedare un anomalo boom dei tassi di interesse interbancari – Da Lehman Brothers a oggi, la domanda è sempre la stessa: la lezione è stata imparata o no?

Economia, la crisi entra nel settimo anno: ma abbiamo o no imparato la lezione?

Sono passati già sei anni da quando, il 9 agosto 2007, molti convincimenti si sono infranti. Quel giorno le principali Banche Centrali del mondo devono intervenire a sedare un anomalo rialzo dei tassi di interesse interbancari. Quel che manca non è però la liquidità. Infatti, è crollata la fiducia delle banche a prestarsi denaro tra di loro ora che titoli, fabbricati dalla finanza creativa di Wall Street e dintorni, ritenuti affidabili divengono inaspettatamente “tossici”. La malattia si aggrava fino alle fibrillazioni estreme seguite al fallimento di Lehman. Il violento shock si trasmette dalla finanza all’economia reale. E quando, verso la fine del 2009, si pensa che la ripresa si sia avviata è l’Europa a confezionarsi un imprevisto attacco ai debiti sovrani, per una somma di errori di policy e incapacità di leadership.

La prima ondata colpisce di più i Paesi ricchi, la seconda è concentrata in Europa, specie del Sud. Così, da un lato i Paesi emergenti si attrezzano con modelli di sviluppo basati sulla domanda interna e sul commercio Sud-Sud – a rimpiazzare la latitante domanda dei Paesi ricchi – e gli USA si stanno in qualche modo tirando fuori con politiche ultra-espansive, sebbene la sostenibilità sia messa in forse dal persistente deficit di current account (ancora al 2,7% nel 1° trim. 2013). Dall’altro, invece, l’Europa è ancora lì a leccarsi le ferite con prospettive di ripresa tuttora fumose e incerti progressi di consolidamento istituzionale dell’euro.

Quel che più preoccupa, ad accomunare le due ondate di crisi sono stati gravi errori teorici. “Come hanno fatto gli economisti a sbagliare così della grossa?” si chiede Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008 e coscienza critica del pensiero mondiale. Fino alla vigilia gli economisti dicevano quasi all’unisono “tutto va bene”, ma poi questa crisi epocale è esplosa proprio nei paesi avanzati. La crisi rivela che quelle credenze erano sbagliate. Oggi persino gli equilibri di potere mondiali ne sono intaccati, con l’Occidente che pare avere smarrito la leadership globale. Dunque, la scienza economica, pur non da sola, ha gravi responsabilità in quanto è accaduto.

Proprio per questo, per superare la crisi, l’economia va capita di più e meglio. Prima della crisi, la diversità del pensiero e degli approcci all’economia si erano pressoché perse, assorbite in un pensiero unico, una sorta di idolatria del mercato libero. In un certo senso, il mercato da “strumento” era diventato un “fine” in sé. Oggi, si è riacquisita la coscienza della molteplicità dei dettami economici ed è chiaro che, per rispondere alle esigenze specifiche di ciascuna situazione si devono scegliere combinazioni tra mercato, intervento pubblico e presenza di operatori con finalità non di profitto. Il mercato deve tornare a essere strumento al pari delle altre soluzioni, tutte mirate a migliorare il benessere dell’umanità. Krugman invoca un ritorno al pensiero di Keynes della “Teoria generale” del 1936, cioè a riconoscere la necessità di politiche pubbliche di stimolo per evitare l’avvitamento di una depressione economica in seguito a un’instabilità da eccesso di indebitamento.

Per quanto riguarda l’ondata europea della crisi, si è detto più volte che i fondamentali dell’Eurozona avrebbero permesso di evitarla (un’area che ha conti esteri in equilibrio o surplus può permettersi rapporti debito/PIL anche assai elevati, Giappone docet). Se la crisi proviene dagli USA, che vivevano oltre le loro possibilità con forti squilibri esteri e indebitandosi coi cinesi, è infatti più difficile capire come essa abbia potuto avere un secondo, più grave, epicentro in Europa che, nell’insieme, ha conti esteri equilibrati e non vive dei risparmi altrui. Perciò la crisi europea è autoinflitta: la sciagurata austerità fiscale tutta e subito viene imposta agli europei (specie del sud) non dalla sfiducia dei risparmiatori stranieri ma dai nostri leader. Di più, proprio quando l’idolatria del mercato veniva screditata dalla crisi USA, si giustificava l’austerità col giudizio dei mercati. Ma, anche qui ci poteva aiutare la lungimiranza di Keynes, stavolta quello delle “Conseguenze economiche della pace”. Perché s’ignorava per i greci la sua esortazione (del 1919) a non far pagare tutte e subito ai tedeschi le massicce riparazioni di guerra, pena causare una destabilizzazione socio-economica in Germania? Insomma, se in primis dobbiamo osservare che per gli eccessi di indebitamento che si sono prodotti le responsabilità sono sì dei debitori ma anche dei creditori (e quindi ambedue dovrebbero contribuire alla soluzione), ancor più importante è notare che solo aggiustamenti graduali sono sostenibili per i debitori perché quelli repentini non funzionano. E per capirlo sarebbe bastato il buon senso senza bisogno di aspettare la tesi di Thomas Herndon a sbugiardare i risultati – scoprendo che essi dipendevano da errori nell’immissione dei dati su un foglio Excel – del paper di Reinhart e Rogoff, che aveva fatto da architrave alle politiche di austerità fiscale europee.

Troppo timidi e contraddittori restano inoltre i progressi in termini di ri-regolamentazione della finanza, mentre continuano a venir fuori evidenze di pratiche non etiche (se non fraudolente) da parte di alcuni dei principali istituti finanziari come nello scandalo della manipolazione del Libor. In particolare, appare inadeguato un approccio regolamentare che stenta a separare l’attività di banca commerciale da quella di investment bank ed è ancora basato su regole quantitative automatiche per la determinazione delle attività rischiose ponderate. Tale assetto sembra sfavorire il ritorno delle banche nell’alveo dell’attività tradizionale, recependo una delle principali lezioni della crisi. Un segnale di speranza giunge però dal Vaticano sotto la guida di Papa Bergoglio, non solo perché egli ha scelto di portare il nome di San Francesco d’Assisi alla soglia di Pietro, sdoganandolo da un oblio durato quasi 800 anni. Appena insediatosi, infatti, Papa Francesco ha nominato una Commissione di otto cardinali per la riforma della Curia. Tra le materie più scottanti c’è la messa in sicurezza dello IOR, istituto finanziario vaticano spesso chiacchierato in passato. Ebbene, l’arcivescovo Maradiaga, coordinatore della Commissione, ha dichiarato che lo IOR deve diventare una banca etica e tale orientamento è stato ribadito dallo stesso Pontefice. Di un recupero dell’etica c’è tanto bisogno nell’intero mondo finanziario e rimuovere quell’anomalia in Vaticano sarebbe un bel segnale non solo per i cattolici.

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