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De Romanis: “L’austerità non è un’eresia: se è buona, fa crescere”

INTERVISTA a VERONICA DE ROMANIS, economista e autrice del nuovo saggio “L’austerità fa crescere” – “Il messaggio che in questi anni si è cercato di far passare è che le misure di rigore sono fallaci, sempre recessive e controproducenti ma i dati, le statistiche e le esperienze reali raccontano un’altra storia” anche se bisogna distinguere tra austerità e austerità

De Romanis: “L’austerità non è un’eresia: se è buona, fa crescere”

Si può concordare o no con le tesi spesso controcorrente di Veronica De Romanis sull’austerità e sulla Merkel, ma bisogna riconoscerle una dose di coraggio e di anticonformismo non comune. Economista di grande rigore, insegna Politica economica europea alla Stanford University di Firenze e alla Luiss di Roma, la De Romanis ha appena dato alle stampe per l’editore Marsilio un saggio che, fin dal titolo “L’austerità fa crescere” (pagg. 157, euro 16), è destinato a far discutere e ad accendere il dibattito. Ma l’autrice non si preoccupa delle polemiche e rilancia: “L’austerità toglie potere alla politica per ridarlo ai cittadini e, se ben congegnata, è persino rivoluzionaria”. Per la verità nel suo nuovo libro la De Romanis non fa di tutte le erbe un fascio e distingue tra austerità buona e austerità cattiva, ma sentiamo direttamente dalle sue parole, in questa intervista rilasciata a FIRSTonline, qual è il suo pensiero e come replica alle fin troppo prevedibili obiezioni. 

Professoressa De Romanis, nei giorni scorsi è uscito in libreria il suo nuovo libro “L’austerità fa crescere” ma, a torto o a ragione, in Italia e non solo in Italia la parola “austerità” è diventata una bestemmia: il suo titolo vuol essere una provocazione per far discutere?

“Non è una provocazione ma un modo per chiarire il significato della parola austerità, molto abusata nel dibattito pubblico, e non solo in Italia. Il messaggio che di solito si vuole far passare è che le misure di rigore sono fallaci, sempre recessive e controproducenti. Tuttavia, raramente vengono offerti a supporto di questa tesi dati, statistiche, analisi empiriche, esempi o esperienze reali: l’opinionista di turno si limita a inanellare stereotipi e frasi fatte sulle suddette misure, considerate le vere responsabili dell’aggravarsi della peggiore crisi economica del secondo dopoguerra.

Se fosse davvero così, la soluzione sarebbe a portata di mano, perché consisterebbe in una sequenza di azioni piuttosto semplici da intraprendere: dire basta all’austerità e tornare a spendere risorse pubbliche, che Bruxelles con le sue regole impedisce di fare. Dall’analisi dei dati emerge, però, che non è vero che i Paesi che spendono di più sono quelli che crescono più, altrimenti l’Italia e la Francia – che hanno un rapporto di spesa pubblica rispetto al Pil superiore al 50 per cento del Pil – non sarebbero in fondo alla classifica europea in termini di sviluppo economico. E, sopratutto non è vero che il ricorso all’austerità, ossia quell’insieme di misure volte a rimettere i conti in ordine dopo anni in cui si è vissuto al di sopra dei propri mezzi, siano imposte da altri, dall’Europa e dalla Germania.

In realtà rimettere in ordine le finanze pubbliche diventa una scelta inevitabile quando un Paese perde l’accesso ai mercati perché gli investitori internazionali non sono più disposti a concedere finanziamenti (esattamente ciò che è avvenuto in Grecia, in Irlanda, in Portogallo, in Spagna e a Cipro, dove i rispettivi governi hanno dovuto chiedere aiuto ai partner europei) oppure sono disposti a prestare denaro ma solo a condizioni molto onerose (e questo è ciò che è avvenuto in Italia nell’autunno del 2011 quando lo spread ha toccato i 500 punti base). Nei suddetti casi, il consolidamento fiscale diventa l’unica strategia possibile, ma è il risultato di decisioni prese dagli esecutivi nazionali, non certo da Bruxelles”.

Sta dicendo che non è l’Europa a guida tedesca a volere l’austerità?

Sì, sostenere la tesi che l’austerità è “imposta dall’Europa” e che, quindi, deve essere “abbandonata” fa comodo ai politici perché l’austerità toglie loro la leva della spesa pubblica, che per molti rappresenta anche la leva del consenso. Ecco perché in molti chiedono una revisione delle regole fiscali a cominciare dal Fiscal Compact. Queste regole, però, che anche l’Italia ha discusso, concordato e sottoscritto, sono fondamentali in un’unione monetaria che non è un’unione fiscale. Come diceva il Presidente Ciampi, l’area dell’euro è “come un condominio”: lei comprerebbe una casa in un condominio dove non ci sono regole, e dove i suoi vicini possono fare quello che vogliono con effetti negativi sulla sua vita quotidiana?

In definitiva, l’austerità toglie potere alla politica per ridarlo ai cittadini. Da qui l’ambiguità, o la connotazione negativa, con cui viene presentata. Peraltro, quando i leader di partito dichiarano “basta con l’austerità, ora ci vuole la crescita”, stanno compiendo – alcuni consapevolmente per la verità – un errore di fatto è anche di prospettiva, perché scambiano quello che è un obiettivo – la crescita – per uno strumento – l’austerità. Sarebbe come chiedere a qualcuno che si è rotto una gamba se vuole andare in ospedale o rimettersi subito a fare sport: è chiaro che per tornare in forma è necessario seguire una cura che inevitabilmente comporta delle rinunce, le quali però non devono necessariamente prolungarsi all’infinito”.

Il sottotitolo del suo libro recita: “Quando il rigore è la soluzione”. Vuol dire che c’è rigore e rigore e che c’è austerità e austerità?

“Si, certo. Come sostiene il Presidente della Banca Centrale Europea,Mario Draghi: “Non tutti i programmi di austerità sortiscono lo stesso effetto sull’economia”. Tali effetti dipendono in gran parte dal modo in cui il programma viene implementato. Secondo il Presidente dell’Istituto di Francoforte, da una parte c’è un’austerità buona” che ha un impatto espansivo sull’economia e prevede meno tasse, una ricomposizione della spesa verso investimenti e infrastrutture, ed è sostenuta da un piano di riforme strutturali” e dall’altra parte, c’è quella “cattiva” che, invece, è recessiva perché aumenta (molto) le tasse, e riduce (poco) la spesa corrente (per intenderci, il comparto che finanzia la macchina dello Stato e va dagli stipendi dei dipendenti pubblici ai costi per le auto blu). Il problema è che questa austerità “cattiva” tende a prevalere, perché politicamente meno impegnativa: un tratto di penna è sufficiente per innalzare le tasse, mentre diminuire le spese significa esporsi a lunghe e sfibranti negoziazioni con centri di interesse organizzati e influenti, un’operazione che comporta una inevitabile perdita di consenso, almeno nell’immediato: non stupisce, quindi, che governi tecnici, privi di un forte mandato elettorale, come quello di Mario Monti nel 2011, ad esempio, abbiano fatto ricorso proprio all’austerità “cattiva”. 

I Paesi che negli ultimi cinque anni hanno implementato l’austerità “buona”, e quindi hanno tagliato le spese improduttive, oggi crescono: l’Inghilterra supera il 2 per cento, la Spagna il 3 per cento, l’Irlanda sfiora il 7 per cento. L’Italia che, invece, la spesa l’ha aumentata, è ferma allo 0,8 per cento. In definitiva, è un errore pensare che esista un unico modello di austerità. Si può dire, piuttosto, che esistono tipi diversi di aggiustamenti fiscali, alcuni recessivi e altri no”.

Anche Lei nel suo libro distingue tra “austerità cattiva” e “austerità buona” ma forse l’idea di definire la strategia economica suggerita da Mario Draghi (meno tasse e concentrazione della spesa pubblica in investimenti e infrastrutture) come ”austerità buona” non è una scelta lessicale felice e ingenera equivoci: non sarebbe meglio archiviare la parola “austerità” e chiamarla “una politica ragionata per una crescita possibile”?

“La parola austerità ha acquisito un connotato negativo. L’ex presidente Renzi, per esempio, usa il termine in inglese -“austerity” – come a voler sottolineare che si tratta di una misura imposta dall’esterno. Eppure, in alcuni Paesi questa parola non viene neanche usata. In Germania, in particolare, non esiste: si fa riferimento al concetto di risparmio e buona gestione delle risorse pubbliche e di responsabilità verso le prossime generazioni. Del resto, maggiore spesa pubblica finanziata in disavanzo significa maggiore debito futuro, che dovrà essere ripagato dai nostri giovani che già faticano a trovare un lavoro.

La politica negli ultimi anni sembra aver completamente ignorato il problema del debito pubblico. Complici anche i nuovi strumenti di politica monetaria – il cosiddetto Quantitative Easing – messi in campo dalla Banca centrale europea, che hanno ridotto i tassi di interessi e quindi l’onere del debito (l’Italia ha risparmiato circa 15 miliardi di euro), riducendo, nel contempo, l’incentivo a chi ha la responsabilità di governo ad intervenire. E, così, il debito pubblico, dal 2013 ad oggi, è passato dal 129 al 133 per cento, il secondo livello più elevato dopo quello della Grecia. Il QE, però, non è eterno, prima o poi verrà meno, e come dice il Ministro Padoan, “bisogna arrivare preparati a questo appuntamento”. Pertanto, invertire la rotta del debito pubblico dovrebbe costituire una priorità nell’agenda politica, perché un livello così elevato rende il Paese vulnerabile a ogni picco d’instabilità dei mercati finanziari. Senza dimenticare – ed è forse l’aspetto decisivo – che con il debito sulle spalle non si va lontano. Insomma, non sembrano esserci alternative all’austerità «buona», che taglia le spese improduttive e alle riforme strutturali che danno impulso alla crescita. Se la diagnosi è chiara, ben più difficile appare la prognosi. La strada da percorrere è ancora lunga, anche perché, come descritto nelle pagine del mio libro, strumenti come quelli messi in campo finora – spending review, privatizzazioni e riforme – mal strutturati e implementati, hanno avuto un impatto davvero limitato”.

Lei sostiene nel suo libro che, differentemente da quanto si crede, in Italia di austerità se n’è vista poca (tranne che nella parentesi Monti) e che i Paesi che ne hanno fatta di più – come Spagna e Uk ma non solo – crescono di più, ma non crede che nell’immaginario collettivo, che demonizza l’austerità e con cui in democrazia è inevitabile fare i conti, a tenere banco sia il confronto tra Usa ed Europa, tra un’America che ha praticato una politica economica più espansiva ed è cresciuta di più e un’Europa che ha pensato più ad aggiustare i conti pubblici ed è cresciuta di meno?

“In realtà i dati ci raccontano una storia assai diversa. Un modo per calcolare il grado di austerità della politica fiscale di un Paese è quello di misurare la variazione rispetto all’anno precedente del saldo primario strutturale, ossia al netto degli interessi sul debito e corretto per gli effetti del ciclo economico. Dai dati del Fondo Monetario Internazionale (Fiscal Monitoring, April 2017) si evince che questo saldo negli Stati Uniti è passato da -2,4 per cento del 2009 a -1,9 per cento del 2016 a riprova che la politica fiscale è stata restrittiva, e dal 2011 ben più restrittiva di quella europea. In particolare, in Italia, l’austerità è stata implementata solo dal governo Monti (il saldo primario strutturale è salito dall’1 per cento del 2011 al 3,5 per cento del 2013). Con l’insediamento del governo Renzi, questo saldo ha cominciato a scendere, raggiungendo il 2,5 per cento del 2016. Insomma, negli ultimi anni, di austerità in Italia non c’è stata traccia, la politica fiscale è sempre stata espansiva.

L’Italia, peraltro, è il Paese che più ha beneficiato della flessibilità di bilancio, circa 20 miliardi di euro di maggiore spesa da finanziare in disavanzo, una concessione che la Commissione europea ha definito “senza precedenti” perché a nessun altro Paese è stato consentito di incrementare il disavanzo in maniera così significativa. Uno spazio di manovra che avrebbe potuto essere utilizzato per rafforzare il potenziale di crescita del Paese, come previsto dalle Linee Guida della Commissione, ma, che si è scelto, invece, di impiegare per finanziare spesa corrente, degli anni precedenti, però. Infatti, la flessibilità è stata usata prevalentemente per neutralizzare le cosiddette “clausole di salvaguardia”, cioè una sorta di “pagherò fiscali” che consentono di dare il via libera a nuove spese nel Bilancio dello Stato, senza doverne specificare le coperture nell’immediato. Il governo nel 2016 – cosi come già aveva fatto nel 2015 – ha scelto il “metodo del “dissinnesco in disavanzo”: su un totale di 17,6 miliardi di euro di maggiore indebitamento, ben 16,8 miliardi di euro sono serviti per finanziare le clausole. Questo metodo, tuttavia, non risolve il problema, ma semplicemente lo sposta in avanti, procrastinando così il momento in cui sarà in ogni caso necessario trovare coperture di natura strutturale. In questo modo si alimenta un circolo vizioso – e poco trasparente -, tra “spesa di ieri” finanziata con “disavanzo di oggi” da rimborsare con “tasse di domani”. La letteratura economica mostra, però, che se gli operatori si aspettano in futuro misure di segno opposto, tendono a risparmiare i benefici temporanei della riduzione – in questo caso del “non aumento” – delle imposte. L’impatto della flessibilità di bilancio sulla crescita rischia, pertanto, di essere alquanto limitato. Ed è esattamente ciò che è successo in Italia: nella media del biennio 2015-2016, l’economia è cresciuta dello 0,7 per cento, quattro volte meno della media europea, peggio ha fatto solo la Grecia”.

Il pericolo di un ritorno ad uso disinvolto della spesa pubblica c’è e le nostalgie del “tassa e spendi” sono sempre dietro l’angolo, ma proprio nei giorni scorsi l’Assonime ha presentato uno studio firmato dal suo nuovo presidente Innocenzo Cipolletta, che sostiene, dati alla mano, che ”negli ultimi anni l’Italia è stata più virtuosa degli altri grandi Paesi europei nel controllo della spesa al netto degli interessi, che tra il 2009 e il 2016 è cresciuta del 3,8% contro il 12,8% della media europea: conviene che oggi più che tagliare occorre riqualificare la spesa pubblica verso investimenti e infrastrutture?

“La spesa pubblica di per sé non è un problema: l’impatto che può avere sulla crescita dipende da come viene finanziata e utilizzata. Pertanto, è difficile commentare questi dati in mancanza di queste informazioni. Nel caso dell’Italia, i dati ISTAT del triennio 2013-2016 rilevano che la spesa pubblica totale al netto degli interessi è salita da 741 miliardi del 2013 a 763 miliardi di euro del 2016, quella corrente primaria da 683 miliardi del 2013 a 705 del 2016, mentre quella per investimenti, ossia il comparto maggiormente produttivo, è scesa da 38 miliardi del 2013 a 35 miliardi del 2016. In  sostanza, si è speso in spesa corrente che ha avuto poco impatto sulla crescita. Del resto, l’Italia è l’unico Paese che affida la spending review, ossia gli interventi di riduzione e di ricomposizione della spesa, a Commissari tecnici privi di forza politica. Le proposte dei numerosi Commissari che abbiamo visto passare in questi anni sono, infatti, sempre rimaste nei cassetti dei ministeri. La responsabilità di queste scelte, invece, deve essere della politica, e in particolare del Ministro dell’Economia e delle Finanze. Nei Paesi dove ciò avviene, la spending review ha funzionato ed è servita a ridisegnare il perimetro dello Stato, a ridurre la spesa inefficiente e a dirottare parte dei risparmi conseguiti su utilizzi più efficienti che poi portano a maggiore crescita e, quindi, a maggiore occupazione, Per fare un esempio, l’Italia dovrebbe aumentare le risorse destinate alle politiche attive, ossia quelle politiche che mettono in contatto chi cerca lavoro con chi domanda lavoro. L’Italia spende un decimo di quello che spende la Germania per i centri per l’impiego. Eppure il Paese avrebbe un disperato bisogno di centri moderni ed efficienti, dal momento che tre italiani su quattro si devono rivolgere a famigliari o conoscenti per trovare lavoro: nella media europea questa percentuale scende al 30 per cento, al 20 per cento in Germania, e, ancora una volta, peggio di noi fa solo la Grecia”.

Anche sulla politica fiscale la discussione è aperta ed è sempre Assonime a suggerire un cambio di rotta, forse non sgradito al ministro dell’Economia, per tagliare Irpef e Irap in cambio di una rimodulazione e di un conseguente aumento dell’Iva: Lei che cosa ne pensa?

“L’Iva è un imposta regressiva e, pertanto, un suo aumento avrebbe un impatto non desiderabile. Il rischio di un aumento dell’Iva deriva dal fatto che il governo passato ha deciso di inserire nel bilancio le clausole di salvaguardia di cui si parlava poc’anzi: queste clausole possono essere disinnescate con tagli alla spesa pubblica: non è necessario farle “scattare”.

Quello che andrebbe fatto, invece, è un taglio strutturale del costo del lavoro. Nell’ultimo triennio si è preferito agire attraverso la decontribuzione – il cosiddetto “bonus assunzioni” – un provvedimento che ha certamente reso il contratto a tutele crescenti più conveniente: nel 2015, la percentuale dei nuovi rapporti di lavoro attivati a tempo indeterminato sul totale dei rapporti attivati è stata del 42,5 per cento, circa dieci punti percentuali in più rispetto al 2014 e pari al 31,7 per cento. Il vantaggio della decontribuzione, però, è stato temporaneo: nel 2016, quando l’incentivo è stato confermato ma ridotto al quaranta per cento, la percentuale è nettamente calata, attestandosi al 30,2 per cento, un risultato inferiore persino a quello del 2014, anno in cui la decontribuzione non c’era e la crescita economica era sostanzialmente piatta. Bisognerebbe, quindi, interrogarsi sulla reale efficacia di una misura che ha portato certamente qualche risultato, ma è stato pagato a caro prezzo (il costo stimato per i contribuenti dell’intera operazione dovrebbe superare i 12 miliardi di euro).

Per non contare, poi, che interventi di questo tipo non fanno altro che “drogare” il mercato del lavoro – e i dati atti a rappresentare le dinamiche nello stesso periodo – senza riformarlo in modo permanente, dal momento che il taglio del costo del lavoro non è strutturale, come invece la Commissione europea, l’Ocse e da ultimo il Fondo Monetario Internazionale suggeriscono da tempo. La ricetta è nota e sempre la stessa: spostare il carico fiscale dai fattori produttivi ai consumi e alla proprietà. Si tratta, ovviamente, di un suggerimento – e non di un’imposizione come alcuni politici lasciano intendere – poiché la politica fiscale è di competenza nazionale e, pertanto, viene decisa dai governi dei Paesi membri e non dall’Europa. E, infatti, con il provvedimento – inserito nella Legge di Stabilità 2016 – che ha previsto la cancellazione della tassa sulla prima casa, il governo è andato nella direzione opposta a quella proposta dall’esecutivo comunitario. Eppure, i dati parlano chiaro: mentre la tassa sugli immobili in Italia è in linea con la media europea, il cuneo fiscale è tra i più alti al mondo e in costante aumento. Dal 2000 al 2015, la tassazione per un lavoratore single è cresciuta da 47,1 per cento a 49 per cento, mentre nello stesso periodo la media dei paesi Ocse scendeva dal 36,6 al 35,9 per cento”.

Austerità o no, molti economisti sembrano spesso dimenticare che il problema non è inventare le ricette economiche più brillanti ma renderle praticabili e che in democrazia non si governa con i carri armati e che dunque il problema del consenso politico è ineludibile: la vittoria del No al referendum costituzionale e le tentazioni di tornare al sistema elettorale proporzionale non rendono tutto più difficile?

“Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker sostiene che il problema in Europa è che “i politici sanno quali riforme fare ma non sanno come farsi rieleggere dopo averle implementate”. Junker ha sicuramente ragione quando dice che scelte impopolari possono far perdere consenso, ma proprio qui sta la differenza tra un politico con una visione corta e uno statista con una visione lunga. Se si vuole cambiare un Paese come l’Italia, rimetterlo in moto, recuperare un ventennio di produttività piatta è necessario prendere decisioni impopolari. Lo fece Schroeder nel 2003 quando la Germania era la malata d’Europa e aveva le stesse caratteristiche dell’Italia: alta disoccupazione, bassa crescita e conti (nel caso tedesco il disavanzo) fuori controllo. Il Cancelliere implementò una serie di riforme, a cominciare da quella del mercato del lavoro, che hanno radicalmente cambiato l’economia: nel giro di un triennio il Paese ha ripreso a crescere e ha raggiunto il pareggio di bilancio. In Italia, lo slancio riformatore del governo Renzi – cominciato con l’approvazione del Jobs Act – si è andato via via perdendo, forse anche per il perenne clima da campagna elettorale. Insistere sulla politica dei bonus, peraltro, non ha sortito gli effetti sperati, neanche in termini di consenso. L’errore più grande, però, resta quello di aver “dimenticato” i giovani, scegliendo di destinare nelle passate Leggi di Bilancio la fetta più grande di risorse – di una torta già piccola – agli anziani. Ma la ricerca del consenso dei padri, vale a dire della popolazione più anziana, si è rivelata una strategia fallimentare. Non stupisce, quindi, che che la maggioranza degli under 30 abbia votato No al referendum costituzionale dello scorso dicembre: se il governo, al contrario, si fosse occupato dei giovani, avrebbe – probabilmente – guadagnato il voto di entrambe le generazioni.

In conclusione, per cambiare davvero il Paese, la politica deve avere il coraggio di prendere decisioni di lungo periodo che nel breve possono essere impopolari. Altri leader europei lo hanno fatto, e diversi di loro sono stati rieletti.  In Italia, invece, nel momento peggiore della crisi, per fare il “lavoro sporco” la politica ha chiamato i tecnici, un’anomalia tutta italiana. Forse è arrivato il momento per la politica di prendersi le proprie responsabilità, come quella di ridurre il debito pubblico. Ecco perché, l’austerità dovrebbe essere associata alla parola “responsabilità”, verso le future generazioni, ma anche alla parola “solidarietà”, perché un uso efficiente e responsabile delle risorse pubbliche scarse tutela, innanzitutto, i più deboli”.

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