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DAL BLOG DI FUGNOLI (Kairos) – La bolla “tranquilla”: mercati sereni ma anche senza freni

DAL SETTIMANALE DI STRATEGIA DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos)- I sostenitori della tesi del rialzo a oltranza sulle Borse si dividono al momento in tre gruppi: quello per cui gli utili in crescita danno il diritto a salire ancora, quello che punta sui multipli e quello che teorizza la correlazione tra andamento dei mercati e sentiment degli investitori.

Creare una bolla è alla portata di tutti. Per produrne una in grado di contenere un ragazzino occorrono solo 7 litri di acqua tiepida, 500 millilitri di glicerina acquistabile in farmacia e mezzo litro di sapone per piatti. Con un minimo di esperienza la bolla si rivela sorprendentemente stabile e plasmabile. Nei mercati finanziari le bolle si comportano diversamente. Come le bollicine dell’acqua in ebollizione, partono lentamente e accelerano gradualmente fino a raggiungere un livello parossistico. Lo scoppio delle bolle finanziarie non avviene necessariamente in modo spettacolare. Di solito alla fase di climax segue un periodo di raffreddamento (che può anche durare qualche settimana) durante il quale i volumi calano bruscamente e la tendenza si fa laterale.

Poi, all’improvviso, inizia la caduta. I sostenitori della tesi del rialzo a oltranza sulle borse si dividono al momento in tre gruppi. Il primo sostiene che gli utili in continua crescita danno al mercato il diritto di salire anche se si trova sui massimi storici. I fautori di questo gruppo evitano spesso di approfondire la questione della qualità degli utili e i loro critici fanno notare che gli aumenti di quest’anno sono dovuti in prevalenza a ingegneria finanziaria (gli acquisti di azioni proprie) e a un minore carico fiscale (8 punti percentuali di corporate tax effettivamente pagata rispetto a prima della crisi). Del resto, con la produttività scesa a zero e con una crescita modesta del fatturato non ci sono molti altri sistemi per fare salire gli utili per azione. I fautori della tesi degli utili si muovono in ogni caso in un ambito teorico ortodosso. Una borsa che sale perché salgono gli utili fa parte dell’ordine naturale dell’universo.

Quanto alla qualità, è normale che ci sia un deterioramento nella seconda parte di un ciclo rialzista. Certo, disponendo ancora di una liquidità particolarmente alta, i buy-back si prospettano ancora più imponenti che nella fase 2006-2008. La cosa potrà non piacere, ma è un fatto della vita. La seconda scuola di pensiero rialzista non punta sugli utili ma sui multipli. Siamo agli stessi livelli di rapporto prezzo-utili che abbiamo visto al top dei grandi rialzi precedenti (la bolla di Internet inclusa, se si tolgono dal computo i titoli tecnologici), ma questa volta ci confrontiamo con tassi d’interesse sui Fed Funds a zero, contro il 6 per cento del 2000 e il 2 per cento del 2008. I multipli, quindi, hanno diritto di segnare nuovi massimi. Ancora più drammatico il confronto con i tassi a dieci anni. Qui l’ambito teorico è borderline tra ortodossia e fantasia. Il cosiddetto Fed model, che fa discendere i multipli azionari dal livello dei tassi sui Treasuries lunghi è un’invenzione di Ed Yardeni e non è mai stato riconosciuto dalla Federal Reserve. Sotto un certo livello di tassi il modello è ancora più debole. Con i decennali ipoteticamente a rendimento zero il multiplo degli utili potrebbe andare a più infinito, un livello che nemmeno i più ottimisti osano prevedere. 

La terza scuola di pensiero rialzista è quella che in questa fase stimola intellettualmente di più. Ci riferiamo ai sostenitori della correlazione tra andamento dei mercati e sentiment degli investitori. Compratori eccitati che si dichiarano ottimisti e acquistano senza badare troppo al costo sono per questa scuola un chiaro segnale di surriscaldamento e aprono la strada a un ribasso. Venditori spaventati che si accalcano per liberarsi a qualsiasi prezzo delle loro azioni perché ritengono prossima la fine di tutte le cose sono al contrario, tipicamente, indicatori preziosi di un rialzo prossimo venturo. Succede che le rilevazioni più recenti dell’umore degli investitori individuali americani (le persone fisiche, quindi, non i gestori professionali) diano solo un 37 per cento di ottimisti contro il 62 per cento dell’ottobre 2007, in corrispondenza con il massimo assoluto (1565 sull’SP 500) del ciclo rialzista 2003-2008.

Il grande pubblico è generalmente più emotivo degli istituzionali ed è quindi ancora più interessante registrarne le variazioni di umore. Naturalmente i fautori della scuola del sentiment ritengono che la borsa abbia diritto di salire finché la percentuale di ottimisti non sarà salita almeno al 62 per cento del record precedente. Vedremo. Abbiamo però l’impressione, per quanto riguarda gli investitori individuali, che sia avvenuto uno di quei cambiamenti di atteggiamento che avviene una o due volte al secolo. Chi fu scottato dal 1929 non comprò più azioni per il resto della sua vita nemmeno negli Stati Uniti, la patria dell’azionariato di massa. Chi era indebitato nel Giappone degli anni Ottanta, azienda o persona fisica, dopo avere ripagato il debito non ha mai più chiesto in prestito uno yen. Ci sono traumi che restano stampati nel profondo e non si risolvono più. Molti sono riusciti a superare il crollo del Nasdaq nel 2000, ma la ripetizione dello shock otto anni dopo, su scala generalizzata e senza scampo per nessun settore azionario, ha convinto una generazione a stare alla larga dalla borsa o, al massimo, a delegare a un gestore lo stress della volatilità e della performance. Lo confermano i dati sui flussi verso i fondi azionari.

Dal 2009 all’inizio del 2013, anni in cui l’azionario è raddoppiato di valore, ci sono stati in realtà solo riscatti. C’è voluto il fortissimo rialzo dell’anno scorso per indurre di nuovo il pubblico a mettere qualcosa in borsa. Ci sono stati grandi titoli sui giornali, ma il fenomeno è durato poco. L’ultimo dato disponibile, relativo al maggio di quest’anno, registra addirittura un deflusso netto. Se gli individui approfittano dei rialzi per vendere e gli istituzionali restano più o meno convintamente nel mercato per produrre alpha, chi è che fa salire le borse? Sono le società che comprano azioni proprie. La conclusione da trarre è che aspettare l’arrivo in massa degli investitori individuali e attendere, per vendere, che il vicino di casa, il personal trainer e l’anziana zia inizino a vantarsi dei loro successi azionari e a scambiarsi suggerimenti in ascensore rischia di essere un esercizio vano. Se non sono arrivati a borsa triplicata forse dovremo aspettare i loro figli. Poiché le società continueranno a comprare azioni proprie nei prossimi due-tre anni (molti programmi di buy-back hanno durata pluriennale e sono già stati approvati dai consigli di amministrazione), l’unico soggetto che potrà eventualmente cambiare il corso (rialzista) delle cose sono i gestori istituzionali.

Quei gestori che, in queste ore, si sono sentiti dire dalla Yellen che la Fed non aumenterà i tassi solo per fermare i mercati e che, semmai, ricorrerà, per frenarne l’ardore, a misure macroprudenziali (regolamenti più stringenti, margini iniziali aumentati, obbligo di tenere una certa quantità liquida). Sentendo ancora una volta che la Fed non aumenterà i tassi (se non per ragioni macro al momento non ancora presenti) e vedendo che nessuna misura macroprudenziale viene effettivamente adottata, che cosa ne deve dedurre un gestore, se non che la Fed sorride ancora a quelli che comprano azioni? Ecco perché nessuno, se non qualche privato rimasto, è più venditore netto. Ecco perché i gestori rimangono investiti senza manifestare calore o emozione. Ecco perché le borse continuano a salire al ritmo lento e monotono degli acquisti di azioni proprie da parte dei tesorieri delle società quotate. È un mondo nuovo, là fuori. 

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