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DAL BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – Il pendolo si sposta: dai profitti ai salari

DAL BLOG “IL ROSSO E IL NERO” DI ALESSANDRO FUGNOLI, strategist di Kairos – Lo sciopero di portuali californiani, che è il primo grande sciopero del dopo-crisi, “ha un elevato valore simbolico perchè segna l’inizio di un nuovo ciclo” in cui sul Pil Usa tornerà a pesare l’esogena sindacale e in cui il reddito comincia a ritrasferirsi dai profitti ai salari

DAL BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – Il pendolo si sposta: dai profitti ai salari

Per spiegare la debolezza del Pil americano nel primo trimestre che si è appena concluso si parla moltissimo del freddo e, molto meno, dello sciopero dei portuali della costa ovest. Il maltempo invernale fa discutere tutti gli anni perché tutti gli anni il global warming gira alla larga dal Nordamerica, che rimane stretto nella morsa del gelo e avvolto dal vortice polare. Ogni anno, quindi, si accendono due tipi di dibattiti. Il primo è tra quelli che sostengono che l’inverno in corso è eccezionalmente freddo e quelli che fanno invece notare che erano parsi al momento eccezionalmente freddi anche tutti gli inverni precedenti.

Il secondo dibattito è tra quelli che sostengono che il freddo spiega il deludente risultato del Pil e quelli che invece affermano che i principali dati macro escono da sempre regolarmente destagionalizzati, ovvero intiepiditi in inverno e rinfrescati d’estate, per cui è inutile girarci intorno e se un dato è brutto, è brutto e basta. Più interessante, vista la qualità di questi dibattiti, appare quindi l’altra questione, quella dello sciopero che ha bloccato per alcune settimane i porti della costa ovest e impedito ai grandi magazzini di mezza America di esporre le nuove collezioni prodotte in Cina, rallentando altresì la produzione industriale, bloccata in molti casi dalla mancanza di componenti importati dall’Asia.

Abbiamo visto sul tema studi interessanti sulla perdita di competitività dei porti californiani, cari e inaffidabili. Abbiamo visto riflessioni sull’ampliamento del canale di Panama (e su quello che i cinesi vorrebbero scavare in Nicaragua) che permetterà a molte navi di evitare il porto di Los Angeles a favore dei porti texani. Non ci è invece capitato di vedere commenti sul fatto che quello dei portuali è il primo grande sciopero del dopo-crisi. Basta infatti una rapida ricerca per notare che i grandi scioperi, una costante regolare nella storia americana, si sono fermati nel 2007-2008, quando vennero bloccate General Motors, Chrysler e Boeing. L’ultimo, epico per la sua durezza, fu quello dei 12mila sceneggiatori della radio, del cinema e della televisione. Durato quattro mesi, provocò per tutto il 2009 un drastico calo nel numero di film distribuiti nelle sale di tutto il mondo e l’accorciamento, a volte il dimezzamento, del numero di puntate delle serie televisive.

Nelle serie del 2009, se ci avete mai fatto caso, l’ultima puntata è zeppa come un uovo di avvenimenti e colpi di scena perché quattro mesi di storie hanno dovuto essere concentrati in una settimana. Dopo lo sciopero degli sceneggiatori, più nulla per sei anni. La lunga pace sociale dei sei anni passati si spiega naturalmente con la debolezza dei sindacati, che l’amministrazione Obama ha cercato inutilmente di rafforzare in tutti i modi possibili. La cosa è perfettamente spiegabile nel contesto di disoccupazione dilagante, così come è invece normale che la pressione sindacale raggiunga il massimo quando c’è piena occupazione (come è stato il caso nel 2007-2008). Lo sciopero dei portuali californiani ha dunque un elevato valore simbolico perché segna l’inizio di un nuovo ciclo in cui al Pil di uno o due trimestri all’anno capiterà di essere “sorprendentemente” colpito da un’esogena sindacale. Ora, se mettiamo insieme lo sciopero, l’aumento delle retribuzioni orarie minime (deciso anche da stati repubblicani), le grandi catene di distribuzione che aumentano i salari spontaneamente per non perdere i dipendenti e la disoccupazione scesa in sei anni dall’11 al 5.5 per cento, vediamo che la vecchia talpa del ciclo economico ha ben scavato e ora sta spuntando in superficie.

In questi anni del dopo-crisi abbiamo sentito due grandi narrazioni. La prima ci ha costantemente ricordato che i cicli economici ci sono ancora. La seconda ci ha invece detto che questa volta siamo dominati dal ciclo del credito, ancora orientato verso un deleveraging così potente da neutralizzare il ciclo economico ordinario. Gli esponenti della prima scuola di pensiero si sono a loro volta divisi in due correnti. Quelli con gli occhiali neri ci hanno costantemente avvertito dell’imminente rialzo dell’inflazione e dei tassi (mai avvenuto). Quelli con gli occhiali rosa ci hanno costantemente parlato di un’imminente forte accelerazione dell’economia (mai verificatasi). Gli esponenti della seconda scuola di pensiero, quella del ciclo del credito, si sono anche loro divisi in correnti. La Banca dei Regolamenti Internazionali, vagamente ispirata alla scuola austriaca, ha sostenuto che la zombificazione delle banche e del debito sovrano attraverso il Quantitative easing continuerà a non cavare un ragno dal buco (uno studio recente della Bri quantifica soavemente nello 0.13, cioè nulla, per cento la diminuzione di disoccupazione causata dal Qe). I keynesiani alla Krugman o alla Koo sostengono dal canto loro che a rendere vano il Qe sono gli spiriti animali a zero e che solo la spesa pubblica, non la politica monetaria, rilancerà sul serio il ciclo economico.

Abbiamo l’impressione che possano avere ragione tutti quanti. Il ciclo economico è sovraimpresso al ciclo del credito. Il deleveraging e gli spiriti animali depressi depotenziano ma, attenzione, non annullano il ciclo economico. Se questo è vero, ne discendono due conseguenze rilevanti. 1) Il ciclo c’è. Non è forte, ma c’è. Senza grande clamore l’America è passata dall’altissima disoccupazione del 2009 alla piena occupazione di fine 2015. Anche l’inflazione c’è. Non è forte ma c’è. Togliendo il petrolio il Cpi era all’1.5 un anno fa ed è all’1.9 oggi. Se la Fed più colomba dei suoi 102 anni di storia si appresta ad alzare i tassi è perché riconosce che il ciclo c’è. I margini delle imprese, assediati dal costo del lavoro (per ora più per un aumento del numero di dipendenti che per un aumento delle retribuzioni) e dal costo del denaro che fra poco inizierà a risalire, sono per la prima volta sotto pressione. Il trasferimento di reddito dai salari ai profitti è finito e sta per iniziare il movimento in senso contrario. 2) Il ciclo c’è ma è iscritto in un ciclo del credito che lo depotenzia. La montagna di soldi che le banche parcheggiano nelle banche centrali a tasso zero verrà prelevata poco e lentamente. L’economia non si surriscalderà. Qualsiasi accelerazione americana verrà rimangiata sul nascere dal dollaro più forte. I bond saranno da vendere ma non crolleranno e avranno anzi periodici violenti ritorni di fiamma al primo segno di rallentamento della crescita. Le azioni americane non trarranno particolari benefici dal maturare ulteriore del ciclo.

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