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Covid, come sarà il mondo dopo la pandemia

Un saggio dell’economista FABIO MENGHINI, edito da goWare, ripercorre tutte le tappe della pandemia fissando l’attenzione su quei fenomeni di cambiamento economico e sociale che essa sembra aver accelerato. Ecco che cosa ci aspetta

Covid, come sarà il mondo dopo la pandemia

Nella morsa del ghiaccio

Da ormai un anno la pandemia da Covid 19 ha modificato le nostre vite e segnato un brusco rallentamento di un’economia già anemica.

Oggi è forte la speranza che i vaccini possano riportare in fretta il mondo alla normalità, è altresì evidente che vaccinare interi continenti è un’impresa difficile, a partire dalla disponibilità del vaccino e dall’organizzazione di quanto è necessario per somministrarlo.

Con il trascorrere del tempo è andata dunque declinando la fiducia in una possibile ripresa a V: una rapida discesa seguita da una altrettanto rapida risalita. Ci vorrà ancora un periodo indeterminato e intanto lo sforzo a cui sono chiamati i governi per sostenere le loro economie diventa sempre più impegnativo e prolungato.

In questo quadro cristallizzato, come immerso nei ghiacci in attesa di un disgelo che ha tempi sconosciuti, una serie di fenomeni e di tendenze stanno altresì emergendo con sempre maggiore evidenza. Piuttosto che figlie del Covid, esse hanno dalla pandemia ricevuto un’accelerazione singolare e stanno profilando un mondo post Covid, che per molti versi è già qui.

In un libro appena uscito (“È GIA’ DOMANI. ECONOMIA, LAVORO, SALUTE, PRIMA E DOPO LA PANDEMIA” edito da goWare 2021) Fabio Menghini, economista già autore di numerose pubblicazioni tra cui una sui giganti del web e un’altra sulla stagnazione secolare, descrive quanto sta accadendo nel mondo e nel nostro paese. Una cronologia della pandemia nel 2020, la raccolta di contributi dell’autore (pubblicati su FIRSTonline) e di influenti editorialisti internazionali completano l’opera.

Qui di seguito è lo stesso autore, Fabio Menghini, a sintetizzare il senso del suo libro.

Fenomeni che modificheranno il futuro

Colpiti in modo ineguale

È ormai emerso con chiarezza come il virus abbia ampliato le divisioni esistenti tra le professioni a danno dei lavoratori meno pagati e qualificati.

I cosiddetti “Zoomers” possono facilmente lavorare da casa utilizzando le video call al posto delle riunioni e continuando a percepire il loro stipendio.

Per tutti gli altri la situazione appare assai disastrosa. Esistono attività critiche (autista di tram, ferroviere, netturbino, ecc.), che richiedono un lavoro in presenza, aumentando peraltro il rischio di contrarre il virus. Altre occupazioni, magari meno cruciali per il funzionamento della vita pubblica, non possono comunque essere svolte da casa (pensiamo ai cuochi, ai camerieri) e in questo caso si è assistito alle chiusure e alle massicce perdite di lavoro

Esiste peraltro una forte correlazione territoriale tra gli Zoomers di oggi (già impiegati nei grattacieli di ieri) e le attività di servizi alla persona (ristoranti, bar, palestre, ecc.), in genere presenti nei quartieri per uffici come in quelli residenziali, oltre che nelle aree a maggiore attrazione turistica.

È qui che si sono registrate le più forti perdite di occupazione. Come muteranno gli stili di vita e di lavoro, anche in termini localizzativi e quando riprenderà il turismo, diventano due fattori chiave per immaginare il destino dei tanti disoccupati attuali.

Bisognerà tenerne conto nel costruire il futuro, in quanto non tutto, temiamo, tornerà come prima, compresa la diffusione dei servizi alla persona sui quali, giusto pochi mesi fa, si concentravano alte aspettative di crescita.

Il rischio di una disoccupazione di massa permanente

Per ora si sta facendo strada l’idea che molti dei posti di lavoro persi durante la pandemia non saranno più recuperati.

Licenziamenti che erano inizialmente stati descritti come una risposta temporanea alla crisi sanitaria, stanno trasformandosi in qualcosa di permanente, lasciando milioni di lavoratori a casa.

La prolungata durata del virus, infatti, ha fatto comprendere a molte aziende che esse non hanno bisogno di tutti i lavoratori che avevano occupati fino al febbraio del 2020. Possono agire ugualmente bene con un numero minore di staff. Anzi, nel nuovo scenario economico che si sta delineando, diventa un imperativo ridurre la complessità, rendere più snelle e meno burocratiche le procedure.

La pandemia ha accelerato il declino dell’occupazione, una tendenza in atto da anni. Che direzioni prenderanno questi cambiamenti e il lavoro?

Il futuro del lavoro

Secondo alcuni osservatori ora che una parte significativa della forza lavoro è stata messa in smart working, le aziende potranno puntare ad acquisire parte di quel lavoro ad un prezzo più competitivo, assumendo lavoratori che risiedono in paesi con bassi salari.

Il Covid sta producendo l’effetto di abbassare quelle barriere tecniche che avevano sinora ostacolato una piena globalizzazione del settore dei servizi.

I telelavoratori esteri potranno nel tempo assumere un’importanza crescente all’interno delle imprese delle economie occidentali. Naturalmente a danno dei lavoratori locali meno qualificati.

Molte occupazioni, specie quelle che non richiedono interazione personale, verranno sostituite dalla globotics, un mix tra telemigrants e robotica.

Le global supply chain

All’inizio della pandemia si è rilevato un innalzamento dei livelli di allerta sul tema global supply chain ma non per questo si stanno verificando segnali concreti di declino nella collaborazione produttiva internazionale e nemmeno fenomeni significativi di re-shoring.

Le global supply chain, alla fine, si sono mostrate capaci di riorganizzarsi prontamente, di avere in sostanza una vita autonoma, che scorre tra i gangli delle diverse realtà produttive disperse su tanti territori a livello world wide. Sono quindi in grado di reagire a situazioni di crisi, di essere, per così dire, resilienti.

Non assisteremo in altri termini, ad un ritorno di massa delle produzioni nei paesi di origine e ciò significa che non si riceverà, da questo lato, un contributo significativo alla crescita dell’occupazione (peraltro qualificata come quella manifatturiera). Né allo sviluppo del PIL. La minaccia pandemica da sola non basta per ripristinare tessuti produttivi che si sono via, via disgregati, nell’indifferenza della maggior parte dei governi dei paesi occidentali.

Il dominio dei giganti digitali

La fine della pandemia vedrà molti sconfitti, ma ha già un chiaro vincitore, quel piccolo gruppo di giganti del Web: Facebook, Amazon, Google, Apple, Microsoft in primis, che gli analisti finanziari hanno riunito sotto l’acronimo FANGS. Mentre la domanda per i servizi online esplodeva letteralmente e cresceva la dipendenza dalla tecnologia digitale, le FANGS incrementavano ricavi, quote di mercato e valore delle loro azioni.

Come il Covid ha reso tutti più dipendenti dalle tecnologie digitali, così ha messo anche in evidenza l’importanza sistemica e l’enorme potere in mano delle FANGS. Tanto per fare un esempio, è risultato subito chiaro che nessun governo avrebbe potuto costruire una contact tracing app efficace, senza la collaborazione di Apple e Google, i cui sistemi operativi sono installati nel 99% degli smartphone, in tutto il mondo.

Allo stesso tempo si è amplificato il problema dell’elusione fiscale sistematicamente perpetrata dai giganti del web. Il commercio on line è cresciuto a danno degli esercizi di prossimità e i governi che devono finanziare la ripresa locale e l’assistenza sociale, si trovano a fronteggiare una situazione duplice: non sono in grado di incassare abbastanza tasse dalle FANGS, le quali, in aggiunta, hanno soppiantato la loro base fiscale locale costituita dalle attività tradizionali.

Infine, non è dai grandi player del web, lo si è constatato sin dagli inizi di questo secolo, che potranno giungere contributi significativi all’occupazione e nemmeno agli investimenti. Non si tratta infatti, di fabbriche di auto o di beni di largo consumo. Essi piuttosto, hanno rappresentato un acceleratore potente alla concentrazione delle ricchezze e alla crescita della propensione al risparmio.

Nulla di quanto sin qui descritto rappresenta una novità rispetto a quanto stiamo assistendo dall’inizio di questo millennio. Eppure, oggi, il quadro si fa più nitido e l’effetto della pandemia ha contribuito a mettere in luce segnali deboli, tendenze in atto e prospettive emergenti.

Disoccupazione, diseguaglianze e squilibri settoriali, dominio dei monopoli digitali, sono aspetti tra loro fortemente correlati. Quella new economy di cui tanto si è parlato in passato ma che finora sembrava rappresentasse un fenomeno tra gli altri, è oggi, sempre più chiaramente, il nuovo volto dell’economia, con cui si dovrà fare i conti.

Sviluppo, Covid e politica economica

Ci riusciremo? Guardando al passato la sfida appare difficile. Qualcosa non funziona nella tradizionale politica economica e non da oggi.

Prendiamo come grossolano spartiacque l’inizio del secolo: dal 1960 al 2000, nel totale dei paesi dell’OECD, il PIL è cresciuto dell’8,4% l’anno. Dal 2000 al 2019 tale percentuale è scesa al 3,7%, meno della metà dei quaranta anni precedenti. A mano a mano che ci si è avvicinati alla fine del millennio, inoltre, si sono iniziate ad inanellare una serie di eventi recessivi.

Come una sorta di avvertimenti, di segnali sempre più ravvicinati, per poi giungere alla bolla dot-com del 2000–2001 e infine alla grande crisi finanziaria del 2007–2008. Da cui l’economia dei paesi occidentali non si è più ripresa.

A queste due epoche diverse hanno corrisposto anche una visione e un set di strumenti di politica economica tra loro assai differenti. Fino agli anni Ottanta le idee di Keynes hanno prevalso, per poi far posto al monetarismo e infine a qualcosa che assomiglia a un misto delle due.

Degli approcci, quelli dell’ultimo ventennio, che sembrano non aver funzionato.

Le politiche monetarie condotte dalle banche centrali non sono state in grado, da sole, di riportare lo sviluppo economico ad un livello di piena occupazione. I tassi sono troppo bassi e potrebbero rimanere così per decenni. Le politiche fiscali da tempo evocate come possibile, decisivo, intervento, non sembrano raccogliere i consensi necessari per la loro attuazione.

Ci troviamo oggi di fronte a sfide di dimensione inaudita senza, dunque, avere ancora messo a punto idee e mezzi per intervenire, dopo ormai due decenni all’insegna della stagnazione.

Nel frattempo, la crisi indotta dalla pandemia ha ampliato a dismisura l’intervento dello stato nell’economia, ma questo attivismo è tutto basato sul breve termine senza che riesca ad emergere se non una visione, almeno uno scorcio di cosa si intenda fare per il futuro.

Ecco, assieme a tutte le tragedie che ha portato, il Covid19 ha anche esaltato ciò che da tempo era sullo sfondo: l’incapacità della politica economica di agire in un contesto dove disoccupazione, alta propensione al risparmio, distacco tra economia reale e finanziaria e dominio dei giganti digitali, hanno creato un modello economico nuovo, profondamente differente da quello del secolo scorso, che si stenta ancora a comprendere e affrontare.

L’autore

Fabio Menghini, consulente e advisor di imprese e investitori finanziari, ha studiato e lavorato con Giorgio Fuà ad Ancona, dove attualmente insegna come professore a contratto, Strategie Industriali e Finanza d’Impresa nell’ambito del corso di Economia Finanziaria. È autore di numerose pubblicazioni tra cui: Disruptive Innovation: economia e cultura nell’era delle start up; Le Fangs: Facebook, Amazon, Netflix, Google; La stagnazione secolare, ipotesi a confronto; Industria 4.0. Imprese e distretti nella web economy, tutte pubblicate con goWare.

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