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Covid-19, a Mirandola il distretto biomedicale dei “miracoli”

Il distretto modenese ad alta tecnologia è in prima linea nella lotta al Covid-19: qui ci sono le aziende che producono “caschi”, respiratori, ventilatori polmonari, mascherine, ossigenatori e altre primizie della medicina

Covid-19, a Mirandola il distretto biomedicale dei “miracoli”

Nell’emergenza che il Paese sta vivendo, in primis per dotare gli ospedali di adeguati posti letto in rianimazione e aiutare così lo straordinario lavoro di medici e infermieri, un distretto industriale è davvero in prima linea: quello del biomedicale di Mirandola, nel modenese. Fondato nel 1962 dal compianto Mario Veronesi nel garage di casa sua – sì, come tante celebri corporation americane – è un distretto che, decennio dopo decennio, ha saputo investire e internazionalizzarsi, riuscendo anche a reagire al terribile sisma che ha colpito quel territorio nel maggio 2012. Il distretto è oggi leader in Europa e fra i primi al mondo nella produzione di materiali plastici monouso per impiego in campo medico e di apparecchiature ad alta tecnologia utilizzate per diverse branche della sanità.

Conosciuto dagli addetti ai lavori, pur senza aver mai raggiunto il livello di celebrità di alcuni distretti tipici del Made in Italy, è da alcune settimane letteralmente “entrato” nelle case degli italiani, perché tutti i media del Paese – dai tiggì della Rai a SkyTG24, da Mediaset a La7, dai quotidiani nazionali a quelli locali – se ne sono occupati. La domanda, dunque, diviene naturale: ma che cos’è che si produce esattamente a Mirandola?

Più che rispondere alla domanda in generale (per questo rinvio al libro che abbiamo curato Fabio Montella e io: “Dal garage al distretto. Il biomedicale mirandolese”, edito dal Mulino a fine 2017), conviene concentrare l’attenzione sulle imprese che hanno aiutato ad alzare il velo su questo gioiello tecnologico e produttivo.

Il titolare della Dimar di Medolla, Maurizio Borsari, già nei primissimi giorni di marzo dichiarava: “Le richieste di caschi sono continue, stiamo facendo il massimo”. La sua, infatti, è un’azienda specializzata nella produzione di sistemi per la ventilazione non invasiva (i cosiddetti “caschi”), utilizzati nel trattamento delle insufficienze respiratorie col vantaggio di evitare l’intubazione. L’aumento richiesto della produzione è significativo: da 300-500 pezzi al giorno ad almeno 1.000-1.200 (ma anche a 1.500). Per completare il quadro, Borsari precisava che non solo in Italia ma a livello mondiale “sono solo tre le aziende produttrici di questi apparecchi”. Il riferimento è alla sua (la Dimar, appunto), a un’altra azienda a capitale straniero sempre localizzata nel distretto mirandolese (StarMed del gruppo Intersurgical), e a una terza nel milanese (Harol).

La Intersurgical, poi, si è resa protagonista di un altro dei “miracoli” di questi giorni: è l’azienda che ha realizzato il circuito in grado di collegare un solo respiratore per fornire ossigeno a due pazienti, anziché a uno solo; circuito ideato dal prof. Marco Ranieri (Università di Bologna, Ospedale Sant’Orsola) insieme a colleghi lombardi.

Uno dei tratti distintivi del distretto mirandolese, potremmo dire sin dagli inizi, è stato quello dell’apertura ai capitali stranieri. Dopo una serie di ondate di fusioni e acquisizioni, tutte le principali imprese del territorio fanno capo a grandi gruppi tedeschi o anglosassoni: fra questi, B. Braun Avitum e Medtronic con le rispettive controllate mirandolesi (B. Braun Avitum Italy, Mallinckrodt Dar), tutt’e due ora impegnate nella battaglia contro il Covid-19 nei rispettivi campi di attività (i sistemi terapeutici per emodialisi nel caso dei tedeschi, i filtri e i circuiti per il trasporto dell’ossigeno per gli irlandesi). Gli esempi e i casi aziendali non finiscono certamente qui, e il sito ufficiale del distretto rappresenta uno strumento molto utile per tenersi quotidianamente aggiornati ciò che si sta facendo.

Non desta sorpresa che Mirandola sia censita fra i principali “Poli ad alta tecnologia” nel Monitor curato da Intesa Sanpaolo (ISP) e dedicato a quattro settori high-tech dell’industria italiana: il biomedicale, l’ICT, la farmaceutica e l’aerospaziale. Secondo il Monitor, sono solo cinque i poli biomedicali italiani: oltre a quello mirandolese, quelli di Bologna, Milano, Padova e Firenze.

E spostandoci ora di circa 40 km, nel bolognese, troviamo la Siare Engineering di Crespellano. “La piccola azienda chiamata da Conte: ‘I nostri respiratori in tutti gli ospedali’”, ha titolato il Corriere di Bologna (10 marzo). L’azienda (11 milioni di fatturato di cui il 90% all’estero, 35 dipendenti) è l’unico produttore italiano di ventilatori polmonari utilizzati nei reparti di terapia intensiva. Gianluca Preziosa, direttore generale, ha spiegato più volte quale sia la posta in gioco: fornire 125 macchine a settimana e 2.000 entro luglio. Significa quadruplicare l’attuale produzione, destinandola interamente al mercato italiano, a cominciare dalle tre regioni più colpite: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. È per questo che dalla scorsa settimana sono arrivati in azienda 25 tecnici montatori militari. Ed è per questa stessa ragione che la Ferrari va in suo soccorso: “Faremo pezzi per i ventilatori”, hanno dichiarato a Maranello.

Sono soltanto alcuni degli esempi di ciò che sta accadendo nei poli tecnologici del biomedicale dell’Emilia-Romagna, una regione che – al tempo stesso – conserva una robusta base manifatturiera, vanta un alto grado di apertura al commercio internazionale ed è stata colpita duramente dalla diffusione del Coronavirus. Lungo la Via Emilia, l’elenco dei gesti di straordinaria capacità e generosità imprenditoriale si sta allungando ogni giorno di più.

Prendiamo le mascherine, la cui insufficienza è uno dei nodi più sensibili dell’attuale situazione sanitaria italiana. Ebbene, ritroviamo il distretto di Mirandola, dove la Tecnoline di Concordia sulla Secchia, specializzata nella produzione di sacche per la dialisi e di dispositivi per la raccolta del sangue, ha riconvertito la sua prodizione proprio per produrre questo fondamentale dispositivo di protezione. E ritroviamo Mirandola col suo Tecnopolo – dedicato alla memoria di Mario Veronesi – in partnership con un gruppo di Pmi della bassa Reggiana assistite da Unindustria Reggio Emilia, come ha scritto Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 25 marzo: “La Nuova Sapi, che commercializzava prodotti per la sanità pubblica e che adesso diventa capo-commessa di una filiera produttiva dedicata alle mascherine. Non contenti gli imprenditori reggiani hanno voluto sottoporre il prodotto al giudizio dei colleghi del Tecnopolo biomedicale di Mirandola”.

Restando sulle mascherine, ritroviamo Bologna, dove a Zola Predosa la GVC ha avviato la produzione di mascherine FFP3, che già produceva all’estero. E, per restare in Emilia, nella produzione di mascherine sta investendo il distretto del tessile-abbigliamento di Carpi nel modenese, così come altre imprese della regione.

Se è vero che tutte queste esperienze aziendali rappresentano una conferma della bontà del modello distrettuale, così come declinato in Emilia-Romagna, è altrettanto vero che la storia non finisce qui. È, infatti, recentissima la notizia che il Cineca – il noto centro di calcolo di Casalecchio (Bologna) – fa parte del consorzio (18 istituzioni e centri di ricerca in 7 Paesi europei) guidato da Dompé Farmaceutici per portare avanti il progetto Exscalate, finanziato nei giorni scorsi con 3 milioni di euro dalla Commissione Europea proprio nell’ambito delle azioni volte a combattere il Covid-19. Exscalate è un sistema in grado di valutare 3 milioni di molecole al secondo, partendo da una “biblioteca chimica” di 500 miliardi di molecole. Saranno dunque le capacità di supercalcolo del Cineca – che è già oggi il nodo chiave della “Bologna Data Valley” in formazione – poste al servizio di questa epocale lotta contro il virus. Alcune buone notizie stanno arrivando anche da questo fronte.

Insomma, i fili che legano ricerca scientifica, tecnologia, industria, territorio e capitale umano sono assai robusti. È una lezione antica, che riscopriamo oggi – al tempo del Coronavirus – in tutta la sua centralità.

Di più: è una lezione che qui, in Emilia-Romagna, trova ancora una volta una sua conferma. E, forse, a Mirandola più che altrove. Mario Veronesi nella sua ultima intervista (rilasciata a Ilaria Vesentini e pubblicata nel volume del 2017 più sopra citato), parlando del distretto che aveva fondato più di cinquant’anni prima, ha passato in rassegna tutto ciò che era stato scoperto, creato, prodotto nel biomedicale mirandolese: i disposables; la prima fabbrica del rene artificiale in Europa; i circuiti ematici per emodialisi; gli ossigenatori per cardiochirurgia; i circuiti per anestesia e rianimazione; i caschi per la ventilazione non invasiva.

Un’eredità assai preziosa, che tante persone stanno coltivando, con competenza e generosità, per il bene di tutti noi.

1 thoughts on “Covid-19, a Mirandola il distretto biomedicale dei “miracoli”

  1. non dimentichiamo Giacomo Becattini

    ricordiamo il cluster lombardo delle Scienze della vita, il Consorzio per il centro di biomedicina molecolare di Bolzano, il Distretto biomedicale del Veneto, il Bioindustry Park Silvano Fumero in Piemonte, Liguria Digitale, Aster in Emilia Romagna, la Fondazione Toscana Life Sciences, Lazio Innova. Ma anche, al Sud, realtà come il Distretto tecnologico pugliese Salute dell’uomo e biotecnologie, la Società consortile BioTecnoMed in Calabria, il Distretto tecnologico Campania Bioscience, il Distretto tecnologico Sicilia micro e nanosistemi a Catania e il Consorzio Sardegna ricerche
    per completezza di cronaca

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