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Contratti collettivi di lavoro: +80% dal 2012, ma 6 su 10 sono scaduti e i salari rimangono fermi

Il Cnel rivela che i contratti collettivi scaduti riguardano quasi 8 milioni di occupati – Intanto, la proliferazione dei Ccnl continua, ma secondo la Cgil interessa pochi lavoratori

Contratti collettivi di lavoro: +80% dal 2012, ma 6 su 10 sono scaduti e i salari rimangono fermi

Negli ultimi 10 anni, in Italia, i contratti collettivi nazionali sono aumentati dell’80%, passando dai 551 del 2012 ai 992 del 2021, per una copertura pari a 16,6 milioni di occupati. In questa proliferazione, ad oggi gli accordi scaduti sono 662, cioè il 62,7% del totale. Se si restringe lo sguardo al settore privato, lo scorso 3 febbraio gli accordi depositati erano 835, per quasi 13 milioni di lavoratori coinvolti. Di questi contratti, 516 sono scaduti (il 62%) e riguardano quasi 8 milioni di occupati. I numeri sono contenuti nell’ultimo Notiziario sul mercato del lavoro e la contrattazione del Cnel. Dal conteggio, precisa una nota, sono esclusi i contratti dei comparti “Agricoltura” e “Lavoro domestico”, rinnovati e registrati nell’Archivio del Consiglio, ma non ancora entrati nel Codice unico dei contratti (istituito dal decreto semplificazioni del 2020 ed entrato in vigore lo scorso primo marzo).

Tanti contratti collettivi per pochi dipendenti

In un altro studio, realizzato sempre con dati Cnel, Cgil e Fondazione Di Vittorio fanno notare che, dei 992 contratti collettivi in vigore, solo 246 (il 24,8%) sono stati sottoscritti dai tre sindacati confederali, mentre 746 (il 75,2%) sono stati firmati da altre organizzazioni sindacali. Nonostante questo, gli accordi siglati da Cgil, Cisl e Uil coprono il 97% dei dipendenti privati interessati dalla contrattazione collettiva (sempre senza considerare i lavoratori agricoli e domestici) e il 99,3% dei dipendenti pubblici contrattualizzati. Nel settore privato, solo i primi 33 contratti firmati dai tre sindacati confederali coprono l’82% dei lavoratori.

Cgil e Fondazione Di Vittorio sottolineano quindi che “la moltiplicazione dei Ccnl” interessa “un numero esiguo di dipendenti”, ma “un aumento dell’offerta delle regole che riguardano il rapporto di lavoro può comunque esercitare una pressione verso il basso sui salari e sulle condizioni lavorative stabilite nei contratti collettivi più consolidati e rappresentativi”.

La stagnazione dei salari

Malgrado un’estesa copertura contrattuale, infatti, “l’Italia si distingue, rispetto ad altri Paesi europei come Germania e Francia, per una stagnazione dei salari reali – si legge ancora nello studio – le cui principali cause sono rinvenibili nelle debolezze strutturali della nostra economia, che determinano una maggior incidenza delle qualifiche più basse, un’alta quota di part-time involontario e di precarietà, nonché una diffusa e consistente economia sommersa sostenuta anche dal lavoro irregolare”. Ma altri fattori che caratterizzano la questione salariale in Italia sono proprio “la concorrenza contrattuale dei contratti poco rappresentativi e alcuni minimi tabellari bassi, nonché i lunghi e ingiustificabili ritardi nel rinnovo dei contratti scaduti”.

L’Italia è tra i Paesi europei con più alta copertura contrattuale, “già oggi superiore a quanto la direttiva europea in discussione indica come obiettivo per il futuro – sottolinea Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio – Questa proliferazione non ha però niente a che vedere né con un’espansione della copertura contrattuale, riguardando un numero di persone molto basso, né con migliori condizioni di lavoro”.

Stando a un’analisi realizzata da OpenPolis su dati Ocse e pubblicata lo scorso autunno, l’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea in cui, negli ultimi 30 anni, i salari dei lavoratori sono diminuiti anziché aumentare. Tra il 1990 e il 2020, nel nostro Paese il salario medio annuo è calato del 2,9%, mentre in Spagna è aumentato del 6,2%, in Francia del 31,1% e in Germania del 33,7%.

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