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Cinema: Dogman, il canaro della Magliana secondo Garrone

L’ultimo lavoro del regista romano premiato al Festival di Cannes per la recitazione di Marcello Fonte come miglior attore – Il film, ispirato alla storia vera di Pietro De Negri, alleggerisce il carico di brutalità ed esalta l’aspetto umano e morale della vicenda

Cinema: Dogman, il canaro della Magliana secondo Garrone

Giudizio dell’autore: 3 stelle su cinque

Al cinema il barile della violenza non è stato mai raschiato fino in fondo. Non ci è stato risparmiato nulla: nefandezze e cattiverie di ogni genere, sangue a fiumi, torture raffinate quanto crudeli. Eppure, al termine di ogni visione si usciva sempre un po’ sollevati pensando che tutto quello che abbiamo visto sullo schermo non ci appartiene perché troppo lontano nel tempo, nello spazio fisico e mentale. Oppure, semplicemente, perché tutto il male che si è visto non è parte di noi, perché siamo diversi, siamo sostanzialmente buoni. Pensavamo di essere vaccinati, cinematograficamente parlando, e invece no, questa volta non è così.

Parliamo di Dogman, ultimo lavoro di Matteo Garrone, premiato al Festival del cinema di Cannes. Il film prende liberamente ispirazione da una vicenda realmente accaduta a Roma nel 1988. Un tosatore di cani, vittima di angherie e soprusi fisici e psicologici da parte di un pugile dilettante, lo scherano del quartiere, dopo l’ennesima violenza reagisce e si fa giustizia da solo. Lo spunto narrativo funziona perfettamente nel ricostruire e descrivere le vicende umane, l’ambiente e il contesto sociale, urbano e degradato, dove queste avvengono. Anzitutto le persone, gli attori: Marcello Fonte e Edoardo Pesce. Il primo nelle vesti di Marcello, e il secondo in quelle di Simone, il carnefice. Fonte, premiato come miglior attore al Festival del cinema di Cannes, è due spanne sopra la media: la sola sequenza finale, quando rimane muto di fronte alla cinepresa per alcuni minuti è una prova di capacità attoriale come raramente si vede sugli schermi nazionali.

Pesce non è da meno e riesce a proporre del proprio personaggio l’uno e il suo doppio. Si farebbe un torto a non ricordare tutti, comprese le comparse e i figuranti, che insieme compongono un affresco di umanità che rimane impresso. Un cenno particolare merita la fotografia, firmata da Nicolaj Brüel. Le inquadrature e la gamma cromatica, seppure rendono pienamente e correttamente la drammaticità della vicenda, appaiono per molti aspetti come già viste. Si sentono e si vedono anni di Gomorra, di Romanzo criminale, delle varie suburre non solo romane che hanno costellato il cinema è la televisione degli ultimi anni. Del resto, il dramma raramente avviene alla luce del sole (almeno sul grande schermo) e quindi in Dogman tutto si dipana tra i grigi scuri della notte, della pioggia, di ambienti fatiscenti.

È non film che non lascia indifferenti, colpisce duro e dritto al cuore di tanto buonismo che spesso maschera finzione e ipocrisia. Garrone il cinema lo sa fare e, in questo caso, la fa molto bene scegliendo dosando tutti gli ingredienti in modo corretto ed equilibrato. Lo stesso senso morale della storia appare impostato correttamente. Marcello ha cercato la giustizia e non la vendetta è, seppure a modo suo, l’ha trovata e, forse quando questa si è realizzata, non è sembrato più nemmeno tanto convinto di aver fatto il giusto. Ha cercato solo una sua forma di riscatto sociale da una ambiente dove ormai era tagliato fuori.

La storia vera è andata in tutt’altro modo: Pietro De Negri, il vero “canaro” della Magliana, come ha dichiarato successivamente al suo arresto, non si è mai pentito di quello che ha fatto. Il regista, per molti aspetti, ha alleggerito il carico di brutalità, di efferata violenza emersa in quelle circostanze. Ha fatto bene, per quello che abbiamo visto, ci è sufficiente. Il film merita ampiamente un legittimo riconoscimento non solo a Cannes: con i tempi che corrono per il cinema italiano sembra quanto di meglio possiamo offrire anche sulla scena internazionale.

(Ultimo aggiornamento 20 maggio 2018)

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