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Ciampi, il trionfo della concertazione e il suo tramonto

In questo capitolo del libro “Torniamo a industriarci – A novant’anni dalla grande crisi” di Riccardo Gallo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Guida, si ripercorrono le origini e declino della concertazione tra il Governo e le parti sociali che ebbe il suo momento di maggior successo nel protocollo Ciampi del 1993 ma che poi perse via via credibilità fino a quando Renzi ne decretò la fine

Ciampi, il trionfo della concertazione e il suo tramonto

Gli strumenti di intervento pubblico, alcuni dei quali ereditati dal Fascismo (pp.ss., credito industriale, barriere protezionistiche), furono in gran parte razionalizzati negli anni Cinquanta, degenerarono (per una ragione o per un’altra) negli anni Settanta e Ottanta, caddero negli anni Novanta, e con essi inevitabilmente cadde la lira. A quel punto come strumento di condivisione di indirizzi di politica economica e sociale restava in piedi solo la concertazione.

È opinione largamente diffusa che la concertazione sia nata nel 1993 con il protocollo del 23 luglio per volere del governo tecnico Ciampi e si sia logorata con i governi di centro-destra degli anni Duemila. A mio sommesso avviso, invece, la concertazione fu ideata in analogia al tentativo abortito del governo nel 1975 e finì politicamente nel 1999 con il governo di sinistra, ben prima degli anni Duemila.

In Italia furono firmati due protocolli derivanti dal Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), entrambi finalizzati a contenere la crisi economico-occupazionale attraverso la fissazione di parametri che i singoli paesi avrebbero dovuto poi rispettare. Il primo protocollo, siglato il 31 luglio 1992, abrogò la scala mobile; il secondo, firmato il 23 luglio 1993, fissò gli obiettivi di politica dei redditi. Questi obiettivi legavano la crescita dei salari all’aumento della produzione e degli utili delle imprese, portavano a programmare un tasso d’inflazione per contenere la spesa pubblica e, per questa via, puntavano a una maggiore competitività, una miglior crescita economica, un rafforzamento della base occupazionale.

L’analogia del protocollo del 1993 con il tentativo del 1975 stava nel metodo della condivisione (per così dire) triangolata. La differenza era che mentre quello del 1975 puntava sulla responsabilizzazione istituzionale dei soggetti (governo, imprenditori industriali e bancari, sindacati dei lavoratori) e affondava le radici in una cultura ottocentesca dei doveri, invece il protocollo del 1993 era mirato, operativo, importante ma circoscritto, e poggiava su una sorta di contratto blindato tra parti avverse.

Altri esempi di concertazione negli anni seguenti si rivelarono troppo ambiziosi e alla fine inconcludenti. Ad esempio, il 24 settembre 1996 fu sottoscritto da governo, Confindustria e Sindacati il cosiddetto “Patto per il lavoro”. Aveva l’obiettivo di ridare flessibilità al mercato del lavoro, ma in realtà si allargava a temi come la formazione, l’apprendistato, la ricerca, la società informatica, le pensioni .

Il 21 ottobre 1998, caduto il governo Prodi nacque, senza elezioni politiche, un esecutivo guidato dal segretario del Partito dei Democratici di Sinistra. Auspice di quel governo fu tra gli altri la Confindustria, la quale presumibilmente era a corto di idee e non era consapevole dell’inconcludenza del Patto del 1996. Così chiese e ottenne che il programma del nuovo governo fosse incentrato sulla concertazione e su un nuovo faraonico “Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione”. I firmatari, oltre al governo, furono numerosissimi, ben 32 organizzazioni imprenditoriali e sindacali.

La struttura del documento era enciclopedica: quattro parti, una premessa e sei allegati. Il patto puntava alla trasformazione della Pubblica Amministrazione attraverso delegificazione, miglioramento qualitativo delle regolamentazioni, riorganizzazione del sistema amministrativo; su questa parte il governo impegnava 330 miliardi di lire.

La concertazione avrebbe coinvolto gli enti locali, si sarebbe articolata per settori (servizi di pubblica utilità), avrebbe dedicato attenzione al Mezzogiorno, avrebbe inserito in Legge finanziaria nuovi investimenti diretti pubblici per nuove infrastrutture, oltre alla fiscalizzazione degli oneri sociali per il Mezzogiorno e sgravi contributivi, avrebbe favorito l’emersione del lavoro nero, la formazione sarebbe tornata centrale, sarebbe stato riformato l’intero sistema di istruzione e formazione, si sarebbe costituito il Fondo interpersonale per la formazione continua, sarebbe stato costituito specie per il Mezzogiorno uno sportello unico delle attività produttive, sarebbero stati ridotti i contributi versati dalle imprese all’Istituto nazionale per gli infortuni sul lavoro. Per ridurre il carico fiscale sulle imprese, sarebbe stata potenziata la Dual Income Tax, sarebbe stato ridotto il cuneo fiscale .

Da mero contratto tra le parti, la concertazione assurse a programma di governo. Diventava una sorta di ultima spiaggia, e ciò era politicamente delicato e imprenditorialmente molto rischioso, perché legava indissolubilmente le strategie industriali alle sorti di un governo guidato dalla maggior forza parlamentare di sinistra. E, infatti, il governo durò appena un anno e due mesi, il Patto non ebbe alcuna attuazione, gli investimenti da quel momento crollarono. La concertazione perse credibilità. L’incertezza italiana aumentò. Eravamo a fine 1998.

Il presidente del Consiglio Renzi ha più volte dichiarato finita l’era della concertazione.

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