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CASO ILVA – Insostenibile leggerezza dei magistrati di Taranto e quattro vie amare per il futuro

Dopo il sequestro cautelativo e le dimissioni del vertice dell’Ilva davanti all’impianto di Taranto ci sono strade molto difficili: la liquidazione, la nazionalizzazione, il commissariamento e la vendita a terzi – E’ assurdo che a decidere il futuro della siderurgia siano i magistrati di Taranto che mostrano una “imperdonabile sottovalutazione dei problemi”.

CASO ILVA – Insostenibile leggerezza dei magistrati di Taranto e quattro vie amare per il futuro

A decidere la fine dell’impianto siderurgico di Taranto, il più grande d’Europa e perno del sistema manifatturiero Italiano nonché fonte di lavoro e di reddito ( e non solo di problemi ambientali) per migliaia di famiglie tarantine, non sarà la crisi della siderurgia Europea come fu per Bagnoli e neppure la recessione economica  ma il pregiudizio ideologico e culturale  e il cieco accanimento della Magistratura tarantina. Una Magistratura  – va detto ! – che è letteralmente e tecnicamente irresponsabile perché non sa, o non vuole, valutare le conseguenze economiche, sociali ed ambientali delle proprie decisioni.

Dalle varie ordinanze del Gip di Taranto trapela una abissale ignoranza dei dati economici ed industriali del ciclo siderurgico e, soprattutto, trapela una imperdonabile sottovalutazione della complessità dei problemi che la gestione dell’impianto e la sua ambientalizzazione comportano. La decisione di porre sotto sequestro cautelativo 8 miliardi di Euro ha avuto il solo effetto di provocare le dimissioni dell’intero vertice del gruppo e, per conseguenza, di bloccare sul nascere il piano di bonifica che il governo e l’impresa avevano, sia pure faticosamente, concordato. Un disastro!

Quello che la Magistratura di Taranto sembra non capire è che per bonificare un area di questa ampiezza e, soprattutto, per adeguare gli impianti alle nuove e più stringenti normative europee e garantire in tal modo l’occupazione è necessario che vi sia un Imprenditore disposto ad investire in questo progetto cifre rilevanti (almeno 3 miliardi di Euro). Queste cifre debbono, almeno in parte, essere generate  dalla attività produttiva. Se lo stabilimento produce  e se i prodotti si vendono allora la bonifica può proseguire perché è essa stessa condizione della continuità produttiva. Se, invece così non è e lo stabilimento si ferma, allora anche la bonifica si ferma.  In caso di cessazione di attività, infatti, l’unico obbligo della proprietà è quello di mettere in sicurezza l’area e gli impianti : non necessariamente quello di bonificarli. Se non c’è produzione, come ha ripetutamente detto il Gip, non c’è neppure inquinamento e se non c’è inquinamento non ha davvero senso investire ingenti risorse nella bonifica e nella ambientalizzazione degli impianti. Resta, è vero, il contenzioso sul pregresso e su quello che Ilva avrebbe dovuto fare e che secondo gli inquirenti non ha fatto. A decidere su questo punto saranno però i giudici all’esito di un dibattimento e non certo i Gip o la Procura, almeno sino a quando l’Italia resta uno Stato di Diritto. Se l’Ilva decide di cessare l’attività produttiva e di conseguenza di non dare seguito al piano di bonifica la sorte del sito appare segnata ed è quella della rottamazione. Quella cioè di diventare la più vasta area  industriale dismessa d’Italia, esposta al degrado e alla vandalizzazione. Non ci si facciano illusioni su questo! Non siamo riusciti a trasformare Bagnoli, dove pure esistevano le condizioni e c’erano anche le risorse per farlo, è difficile pensare di poterlo fare a Taranto dove mancano sia le condizioni che le risorse.

Che cosa può succedere adesso? Con ogni probabilità il gruppo Riva dovrà valutare la necessità di mettere lo stabilimento (e forse tutto il gruppo) in liquidazione. I sindacati, per parte loro, chiedono che il governo nazionalizzi l’Ilva ma dimenticano che nel 95 l’Ilva di Taranto fu salvata soltanto perché la UE (accordo Andreatta Van Miert) autorizzò l’Iri a ripianare le perdite dell’Ilva a condizione che ristrutturasse  lo stabilimento e lo cedesse ai privati, cosa che fu poi fatta con Riva. Se questa via appare impercorribile non meno problematica appare quella del commissariamento  da parte del governo non fosse altro perché sembra molto difficile che lo Stato e le Banche  possano rendere  disponibili le ingenti  risorse finanziarie che  sono  necessarie per avviare la  bonifica. Resta soltanto  la via della vendita  a terzi che poi vuol dire ai cinesi, agli indiani (Mittel ) e, forse, ai francesi .  E’ possibile  che questo avvenga ma a condizione che lo stabilimento sia ceduto a zero lire e che, oltre alla ovvia malleva ambientale per il passato, ci sia un forte ridimensionamento del piano di bonifica (quanto meno allungando i tempi della sua realizzazione per allinearlo a quelli dell’ entrata in vigore in tutta Europa della nuova normativa 2018). Difficile che possa accadere. Anche perché c’è da chiedersi se abbia senso per un Imprenditore privato una scelta del genere. Se si devono  investire tanti soldi propri  per bonificare e ambientalizzare un sito e per di più lo si deve fare in un contesto ostile alla produzione siderurgica, sembrerebbe più sensato costruire un impianto ex-novo magari  in un paese extra comunitario sufficientemente vicino all’Italia da poterla rifornire. In questo caso a Taranto resterebbero soltanto le rovine (irrecuperabili) del già più grande impianto siderurgico d’Europa. Un esito davvero amaro per i lavoratori e per l’Italia che forse si potrebbe evitare se solo tutti remassimo dalla stessa parte o, almeno, se ognuno si limitasse a fare il proprio mestiere.

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