Condividi

Borsa, Astaldi addio. Milano perde un altro pezzo

Dopo meno di vent’anni dalla quotazione scompare un altro titolo da Piazza Affari. I precedenti di Zegna spostatosi a Wall Street e di Luxottica a Parigi. Persi 14 miliardi di capitalizzazione quest’anno

Borsa, Astaldi addio. Milano perde un altro pezzo

Dopo meno di vent’anni dalla quotazione del 2002, venerdì scorso si è definitivamente chiusa l’avventura borsistica di Astaldi, la società di costruzioni confluita in WeBuild al termine di un complesso processo durato due anni, tanti quanti sono stati necessari per il completo decollo di Progetto Italia. Un delisting ampiamente previsto che, almeno sul piano statistico, aggiorna il capitolo del lungo addio a Piazza Affari che sta segnando, Aim a parte, il 2021 di Borsa Italiana passata il 29 aprile scorso sotto le insegne di Euronext. 

I numeri parlano da soli. Dall’inizio di gennaio ad oggi sette titoli, compresa Astaldi, hanno lasciato Piazza Affari: Ima, Massimo Zanetti, Techedge, Astim, Creval e Panaria Group. Il prossimo 6 agosto la pattuglia si arricchirà con l’uscita dal listino di Carraro, sospesa dalle contrattazioni già da mercoledì dopo il successo dell’Opa promossa dalla Fly, il veicolo della famiglia Carraro evidentemente delusa dall’esperienza sul listino milanese in cui era entrata a fine 1995. L’elenco è destinato a crescere ancora nei prossimi mesi con l’addio di Cattolica, Retelit, Guala Closures, Isagro, Sicit e quello di Cerved, nel caso abbia successo l’offerta lanciata dal fondo Ion (ma osteggiata dal cda).

Si tratta di 14 società per una capitalizzazione attorno 13-14 miliardi, un valore considerevole. E’ come se il mercato si fosse “bevuta” l’intera capitalizzazione di Campari (13,8 miliardi di euro a venerdì scorso) un dei titoli più brillanti della piazza milanese. Un riferimento non casuale all’ultima, per ora, matricola dell’Aim, la Compagnia dei Caraibi, una piccola società che tratta liquori di pregio che ha fatto uno scintillante debutto (+25%) nel listino riservato alle società di piccole dimensioni che vive una fase di straordinario fermento, come dimostra il successo del collocamento delle azioni di Ulisse Biomed, una start up biotech che esordirà il giorno 6 agosto.

Ma  la fortuna del listino dello small cap, che  si avvia a superare il traguardo delle 150 unità, è una consolazione abbastanza magra a fronte della caduta dell’appeal della Borsa di casa nostra. Brucia ancora, dopo più di due anni, l’uscita di Luxottica, emigrata alla volta di Parigi in occasione della fusione con Essilor. Una delusione che fa il paio con la decisione di Ermenegildo Zegna, uno dei più brillanti potenziali “clienti” di Borsa Italiana, di scegliere la quotazione a Wall Street attraverso  una business combination con la Spac promossa dal gruppo Bonomi (valore 2,5 miliardi di dollari) con l’obiettivo di traghettare le società italiane più promettenti verso il listino di Wall Street che, a differenza della Borsa milanese, sta vivendo uno stato di grazia, con una media di una ventina di Ipo alla settimana, l’ultima quella della ”ribelle” Robinhood che ha riversato sul mercato l’attenzione di milioni di investitori individuali.

A fronte di questi risultati l’appeal di Piazza Affari sembra davvero poca cosa: tre sole matricole ovvero Philogen, Seco e Italian Sea Group, in tutto più o meno un miliardo di euro contro i 6,3 dell’Ipo più robusta dell’anno, quella di Stevanato, il gioiello veneto leader mondiale nelle soluzioni di packaging per i pharma che ha finalmente imboccato la via della Borsa. Quella di New York, però, che il 16 luglio ha accolto a braccia aperte l’offerta (6,3 miliardi la valutazione) i titoli della società di Piombino Dese.      

Un esame sommario da cui emerge però un quadro ben preciso: ci sono molte ragioni, le più varie, per emigrare da Piazza Affari. La decisione può nascere dall’intenzione di fare rotta verso mercati più vicini ai clienti (la scelta fatta a suo tempo da Prada che puntò su Hong Kong) o alle grandi centrali finanziarie più propense a sostenere il business di riferimento. Le valutazioni più generose dei mercati Usa, in questo quadro, possono rappresentare una grande tentazione in futuro per i marchi del made in Italy, a caccia di una valutazione adeguata. I pochi Big di casa nostra, insomma, rischiano di far le valige verso altri lidi più attrezzati ad offrire strutture adatte all’economia mondo.  

Una tendenza pericolosa, per almeno due rischi potenziali: la mancanza dell’offerta respingerà ancor di più oltre i confini la domanda potenziale rappresentata dal risparmio delle famiglie che gonfia i conti correnti. Inoltre, il capitalismo italiano, dal canto suo, potrebbe perdere un’occasione storica per sviluppare una dimensione patrimoniale adeguata per sostenere la competizione internazionale. Come nota Gianni Tamburi “le aziende italiane sono ancora restie ad un passo verso il mercato perché vittime di un individualismo esasperato e dalla sensazione, sbagliata, che dopo la pandemia ci sarà ancora posto per aiuti e moratorie. Invece è l’ora per pensare alle alleanze. E alla Borsa”.   

Il vero pericolo non sta tanto nella fuga ma nei mancati arrivi.    

3 thoughts on “Borsa, Astaldi addio. Milano perde un altro pezzo

  1. Certo, per cambiare rotta è urgente dare un segnale forte e concreto al mercato.
    Il caso Poligrafica San Faustino, che non vedo nemmeno in elenco in questo articolo, si presterebbe benissimo alla causa.
    Come si possa permettere un delisting per fusione con una società veicolo neocostituita correlata non quotata, scatola vuota con patrimonio reale negativo dopo un’OPA andata deserta è un mistero.
    Un mistero che spiega tante cose, compresi tutti i delisting del periodo.
    Perché anche la buona stampa non sembra volersene occupare?

    Reply
    1. FIRSTonline si è occupato più volte dei tanti delisting che hanno caratterizzato la Borsa italiana negli ultimi tempi ma c’è un intervento che sull’argomento ci rende particolarmente orgogliosi di averlo pubblicato: è quello del compianto professor Filippo Cavazzuti che il 28 gennaio 2021 ha scritto un commento impareggiabile dal titolo “Opa, più delisting che take over ma il difetto non sta nella legge” che meriterebbe di essere riletto da tutti.

      Reply

Commenta