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Battaglia sull’euro: dietro lo strappo di Cameron c’è il braccio di ferro tra Bce e gnomi della Cty

Il no di Cameron all’Unione europea non è casuale: dietro lo strappo di Bruxelles c’è la battaglia sull’euro tra i Paesi del Vecchio continente e la nuova Bce di SuperMario Draghi contro gli gnomi della City e di Wall Street – Chi vincerà? Alziamo il sipario sui misteri e le apparenti bizzarrie dei mercati, ricordando le profezie di Nail Ferguson

Battaglia sull’euro: dietro lo strappo di Cameron c’è il braccio di ferro tra Bce e gnomi della Cty

C’è nebbia sul Canale della Manica. Il Continente è di nuovo isolato. Il vecchio adagio inglese torna d’attualità dopo lo strappo di Bruxelles, culminato in un gesto che passerà alla piccola storia: dopo la risata di Merkozy all’indirizzo di Berlusconi, ecco David Cameron rifiutare la stretta di mano di Nicolas Sarkozy.

C’è nebbia forse anche nei terminali del miglio d’oro della City, da dove sono transitati buona parte degli ordini che giovedì hanno affossato Btp e titoli bancari di Parigi, Milano e Madrid. Ieri il flusso dei sell si è interrotto. Anzi, è iniziato il flusso delle ricoperture. Quasi che i gestori hedge festeggiassero la fine dell’incubo di dover sottostare alle regole di monsieur Barnier, il commissario Ue che si ripromette di fissare regole più severe sull’attività della finanza di stampo anglosassone. Oltre a far pagare quella Tobin tax che ha già fatto fuggire, alla sola menzione, tanti gestori sulle rive del lago di Ginevra.

Non è l’unico ribaltone della settimana delle montagne russe. Ne sa qualcosa Mario Draghi, bersaglio della speculazione di giovedì, eroe del giorno dopo il via libera al patto fiscale. Da San Sebastiano a “Pope Mario in the euro-bordello” (titolo di The Economist online) nel giro di una sola notte tempestosa di cui non tutto è stato detto o di cui non tutto è stato capito. No, non è facile individuare un filo conduttore razionale delle scelte del mercato. Al punto che c’è da chiedersi se c’è del metodo dietro l’apparente follia dei listini. O, quantomeno, un legittimo conflitto tra i tanti interessi in palio.

Non è facile, innanzitutto, spiegarsi la ragione delle vendite rabbiose di giovedì. La Bce ha tagliato i tassi, così come era previsto e sollecitato a fronte di una congiuntura tanto negativa quando ben nota. La banca centrale ha poi risposto al grido di dolore degli istituti assetati di liquidità garantendo finanziamenti illimitati a fronte di collaterali di ogni tipo, comprese le obbligazioni bancarie. Certo, il governatore non ha svelato la data in cui cesseranno gli interventi sul mercato secondario. Né si è spinto ad indicare strategie o modalità di un eventuale bazooka monetario. Ma non poteva far altrimenti. Quale cifra o quale data poteva tranquillizzare i mercati? Il numero magico non esiste. Non certo i 200 miliardi residui di cui dispone l’Efsf vecchia formula. E nemmeno i mille miliardi di cui si è parlato in questi giorni, sommando il Fondo Salva Stati all’Esm. Nelle ultime settimane si è imposta la cifra di 2.000 miliardi quale unica soluzione efficace per mettere in sicurezza l’area euro. O, il che è lo stesso, per garantire l’intero debito pubblico italiano nella presunzione, sostenuta da Nouriel Roubini, che di fronte alla garanzia offerta sui Bot e Btp si sarebbero fatti avanti tutti i creditori in una volta sola. Ma se la Bce, per far contenti i mitici investitori istituzionali avesse messo sul piatto questa cifra ipotetica e palesemente insostenibile (salvo far lavorare tutti i Poligrafici di Stato dell’area euro giorno e notte), cinque minuti dopo si scatenerebbe l’allarme inflazione con ricadute immediate sul fronte dell’oro, del petrolio e delle materie prime come ci insegna l’esperienza del Quantitative Easing americano, che pure ha mosso cifre assai inferiori. I mercati, insomma, hanno punito la Bce perché non ha promesso ciò che non poteva promettere, invadendo il dominio degli Stati. Il pollice verso non era pienamente giustificato dai fatti.

All’improvviso, ieri, l’orizzonte si è rasserenato. Gli operatori, scorrendo il comunicato del vertice, hanno avuto la sorpresa di leggere che i Grandi d’Europa auspicavano un “fiscal compact“ per assicurare la stabilità alla zona euro. Ma fiscal compact era proprio l’espressione usata da Draghi il 1° dicembre davanti al Palamento di Strasburgo. Un’espressione che aveva fatto pensare ad un Draghi alla testa di fiumi di denari da convogliare verso l’Europa attraverso il canale del Fondo Monetario, tanto per aggirare i trattati. Niente di vero, aveva commentato il presidente della Bce: “Sono stuefatto del significato che è stato dato alle mie parole”. Ma le parole, si sa, sono pietre. E ieri, alla lettura di quel “fiscal compact” l’incertezza si è trasformata nell’infinito che tanto piace ai mercati quando si accompagna alla credibilità. L’infinito, quando è credibile, non è mai tale e alla fine è un buon affare. Il finito, al contrario, eccita i mercati (che vanno subito a testare il limite) e richiede incrementi continui, che costano cari e fanno perdere credibilità.

E così San Sebastiano Draghi trafitto dalle frecce della speculazione è diventato il Papa Mario nell’euro bordello. Forse si esagera ma nel breve termine, scrive The Economist, “ai mercati non importa quali strumenti o quali termini diplomatici sia stati scelti. L’importante è stabilire se i leaders d’Europa hanno messo a disposizione di Draghi ciò di cui ha bisogno per agire”.

Non ci vogliono tante parole, anzi in certi casi il silenzio è d’obbligo: garantisce l’indipendenza della Bce, così come piace a i tedeschi.

Ma la Bce è rientrata in gioco. Un po’ alla tedesca, con piena libertà di intervenire sul mercato grazie al triangolo Bce-Efsf-Italia, garantita dal rigore di Mario Monti. O, più ancora, continuando a dare ossigeno alle banche permettendo loro di sottoscrivere più titoli di stato sul primario e portarli un minuto dopo alla Bce, salvando le forme. Alla faccia dell’Eba.

Così come è successo negli Stati Uniti o nella stessa Gran Bretagna, alla fine I politici si affidano alla saggezza di un banchiere che, per necessità, dev’essere un buon politico. Non è stato facile arrivare a questo punto. Il sacrificio della frattura con la Gran Bretagna, che ha anteposto gli interessi di una delle sue industrie leaders, la finanza, al “fiscal compact” non è di poco conto. Ma forse era inevitabile, come ha previsto lo storico dell’economia Nail Ferguson. Ora, infranto il primo tabù, ne seguiranno altri. E’ probabile che la Grecia preferisca ritirarsi con ordine dal nuovo euro. E l’Italia? Passata l’emergenza, la sfida entrerà nel vivo: per tenere il passo del Nord Europa, il Bel Paese dovrà affrontare sforzi immensi che, però, serviranno a poco se non ci sarà il sostegno (e i trasferimenti) delle aree più competitive. Ci vorrà un piccolo miracolo. Un Papa nell’eurbordello può tornare utile. Alla faccia degli gnomi della City o di Wall Street.

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