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Assemblea Shell: ambientalisti tornano all’attacco sugli impegni green. Ma il mondo è cambiato, raffinazione Ko

All’assemblea Shell a Londra tornano alla carica gli attivisti verdi. Ma la situazione è molto cambiata: l’Europa oggi è alle prese con l’embargo a Mosca. Il ischio di non disporre di raffinerie a sufficienza

Assemblea Shell: ambientalisti tornano all’attacco sugli impegni green. Ma il mondo è cambiato, raffinazione Ko

Ben van Beurden, il numero uno di Shell, ha più di un motivo per esser soddisfatto dei risultati che presenta oggi agli azionisti della società, balzata al primo posto in Europa per valore di Borsa, con un secco sorpasso su Volkswagen. Ma al centro dell’assemblea di Londra non ci sarà la pioggia di utili, cioè 9,1 miliardi di dollari nel solo primo trimestre (il triplo di un anno fa), o il dividendo piuttosto che il ricco buy back (4,5 miliardi dollari) che consentiranno ai fondi pensione di prosperare in un anno gramo per le borse. Facile prevedere che fino a tarda sera il vertice del colosso dovrà affrontare l’assalto di Milieudefensie, l’agguerrita pattuglia olandese che fa capo agli Amici della Terra, decisi a pretendere che il gruppo rispetti quel che mesi fa è stato stabilito da una corte di giustizia olandese: Shell, recita la sentenza, deve operare in modo che i suoi clienti riducano le emissioni di C02 nell’atmosfera del 45% entro il 2030.  

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Assemblea Shell: ambientalisti all’attacco

“La sentenza è chiara – tuona la portavoce del gruppo Nine de Pater, pronta a dar battaglia – Shell deve smettere al più presto di contribuire all’inquinamento del pianeta”. Al contrario, anche se le emissioni sono in calo rispetto al 2019, ai ritmi attuali l’obiettivo non sarà raggiunto. Di qui la minaccia di nuove azioni legali. Ma la sentenza, replica l’esercito di avvocati della Big Oil, ci lascia ampi margini di libertà nelle scelte perché quel che conta è il risultato. Intanto è pronta una raffica di ricorsi per correggere il verdetto di un anno fa. Strategia sbagliata, replica un grande azionista, il fondo Odey: ritiriamo il ricorso, ma coinvolgiamo Bruxelles: chiediamo all’Unione Europea di imporre a tutte le Big Oil i vincoli che il giudice dell’Aia ha imposto a Shell. 

Una richiesta magari legittima, ma che cade in un momento assai diverso per la politica energetica europea, alle prese con il travagliato e sofferto embargo all’energia russa. Tante cose, infatti, sono cambiate nel giro di dodici mesi sul fronte del petrolio o, più in generale, delle forniture di idrocarburi. Ne sa qualcosa Shell che si è ritirata dal Nord Stream 2, il gasdotto tra Russia e Germania in cui aveva investito 1,1 miliardi e dall’investimento sul gas liquefatto nell’isola di Sakhalin, salvo esser poi coinvolta in un’operazione di compravendita di greggio di probabile origine russa.

Di qui uno slalom segnato dal boom dei profitti più che raddoppiati dall’attività di raffinazione ma anche dalle ambiguità consentite dagli standard sull’energia pulita. Un esempio? Shell ha senz’altro fatto progressi in materia di clean energy cedendo il controllo dei campi petroliferi di Umuechem nel delta del Niger (posseduti assieme ad Eni e Total), per giunta investendo il ricavato in ricerca sull’idrogeno. Ma, nota il New York Times, non à che il pianeta ci abbia fatto un buon affare: il compratore, la trans Niger company, ha triplicato le trivellazioni senza troppe preoccupazioni. 

Petrolio e ambiente sempre più difficili da conciliare

Non è affatto facile conciliare le esigenze dell’economia di oggi con la tutela dell’ambiente. Era difficile un anno fa, quando si dava per quasi scontato che petrolio e gas fossero comunque abbondanti. Lo è assai di più oggi quando, quasi all’improvviso, il mondo ha scoperto che, dopo la frenata degli investimenti nelle raffinerie, si rischia di restare a secco perché a livello globale la residua capacità di raffinazione non supera 1,8 milioni di barili.

Crollano gli investimenti nella raffinazione, anche Putin in difficoltà

Negli ultimi cinque anni, accusa il principe saudita Abdelaziz, il settore ha perso l’equivalente di 4 milioni di barili al giorno. E di fronte alle incertezze geopolitiche ed ai vincoli ambientali, nessuno sta pianificando nuovi investimenti nell’energia fossile. Così, afferma Daniel Yergin, figura mitica del settore, si rischia di ritrovarsi in una situazione simile a quella degli Anni Settanta. E pochi se ne sono accorti. Salvo Vladimir Putin che, afferma Yergin, “padroneggia l’industria del petrolio meglio di un Ceo. Non a caso ha deciso di sfruttare la debolezza generata dallo stop degli investimenti delle Big Oil”. Ma ha commesso un errore: “Non si aspettava la reazione dell’Ovest. Purtroppo per lui si è generata una situazione molto scomoda: la Russia non può trovare in tempi brevi clienti alternativi all’Europa. E rischia di finire ai margini dell’economia globale, con rilevanti problemi tecnologici”. 

Purtroppo, però, dall’attuale situazione non ci guadagna quasi nessuno. Con gran dispetto di Joe Biden, il 40 per cento dei pozzi di shale oil tra Texas ed Arizona oggi sono fermi: petrolieri (e banche) non se la sentono di rischiare in una situazione di mercato comunque contrastata. E così i pozzi all’aria aperta diffondono metano ed altri ingredienti tossici. 

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